L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP
«Un bravo artista copia, un grande artista ruba», diceva Pablo Picasso. Una battuta, certo. Ma che, come tutte le battute, contiene una verità, anche se difficile da accettare: l’arte, tutta l’arte, è una catena infinita di furti dichiarati.
In architettura da sempre si copia senza problemi. Nessuno, infatti ipotizza che il tempio A di un santuario della Magna Grecia sia un plagio del tempio B che si trova ad Atene, anche se gli rassomiglia in tutto e per tutto. O che le chiese romaniche disseminate in Europa abbiano scarso valore a causa delle loro notevoli somiglianze. O che, infine, le colonne doriche, ioniche e corinzie compromettano l’originalità degli edifici classici rendendoli simili tra loro.
Anzi, è proprio l’opposto. Si pensa che è così che si costruisce il linguaggio dell’architettura, riconoscendo le radici e allo stesso tempo torcendole, forzandole, contaminandole.
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Settembre 2023. Una lettera aperta pubblicata su La Repubblica muove una circostanziata accusa: la mostra “Roma nuovissima, direzioni contemporanee del progetto a Roma”, allestita all’ex Mattatoio, presenta una prima sezione composta da soli uomini, una seconda quasi del tutto maschile, e una terza – quella che dovrebbe raccontare la città che cambia – popolata da undici studi largamente guidati da uomini. Insomma: un panorama che sembra provenire da un’altra epoca. Sottolinea inoltre che la rassegna è promossa e ospitata da istituzioni pubbliche, quelle stesse che dovrebbero impegnarsi a sovvertire l’inerzia dei vecchi squilibri. I curatori rispondono prontamente, parlano di numeri diversi. Ma la questione, a ben vedere, è più ampia della conta dei partecipanti.
Mentre, infatti, nelle facoltà di architettura le ragazze superano ormai stabilmente il 60% degli immatricolati, e la percentuale continua a crescere, quando si passa al mondo professionale, la loro presenza si assottiglia drasticamente.
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È morto il 5 dicembre 2025 Frank O. Gehry, protagonista indiscusso dell’architettura degli ultimi 50 anni. Se n’è andato a 96 anni, dopo una breve malattia respiratoria, nella sua casa di Santa Monica.
La sua scomparsa segna la conclusione di una parabola che ha attraversato e trasformato l’architettura.
Quello che Gehry lascia non è un catalogo di opere, alcune delle quali universalmente celebri ma l’idea che un edificio debba essere un corpo capace di suscitare emozione, provocare, interrogare lo spazio urbano e l’esperienza quotidiana. Insomma essere simile a una opera d’arte, a una scultura.
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Il problema non era in fondo così difficile da risolvere. Dopo Carlo Ratti e dopo ancora aver nominato curatori che provenivano dal continente africano e dall’America latina, occorreva rivolgersi all’oriente, meglio se alla Cina, da qui la scelta del CdA della Biennale di Venezia, su proposta del presidente Pietrangelo Buttafuoco, di nominare Wang Shu e Lu Wenyu direttori della ventesima Mostra Internazionale di Architettura del 2027. Una scelta, oltretutto, riparatrice che ribalta il Pritzker 2012, che aveva premiato il solo Wang Shu, lasciando in ombra il contributo paritario, e in alcuni passaggi decisivo, di Lu Wenyu.
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Viviamo in un mondo saturo di oggetti, di immagini, di edifici. Abbiamo costruito troppo, spesso male e anche senza chiederci se fosse davvero necessario. Oggi occorre cambiare direzione restituendo senso a ciò che già esiste. E, quindi, recuperare, modificare, interpretare per riformulare la cornice attraverso la quale interagiamo con la realtà che ci circonda, ridando valore alle cose per restituire loro un ruolo nella narrazione del presente.
Recuperare non è restaurare. Il restauro tende a ricomporre un’unità perduta, a riportare l’opera a un presunto stato originario, al “dov’era e com’era” che pervade le nostre norme. Il recupero, invece, è un atto creativo: usa ciò che rimane come materiale per costruire un nuovo edificio. È, per dirla con Nicolas Bourriaud, un gesto di post-produzione. Come un DJ che usa un brano per generarne un altro, l’architetto contemporaneo lavora su ciò che esiste, lo manipola, lo riformula. L’architettura diventa remix, e la città una grande piattaforma di editing.
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ll 17 febbraio del 1992 il pubblico ministero Antonio Di Pietro ottiene dal GIP un ordine di cattura per l’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Partito Socialista Italiano. Comincia Tangentopoli, un insieme di inchieste con relative condanne che stravolge il panorama politico italiano. E che ha ricadute nel mondo degli appalti e degli incarichi professionali, attraverso i quali sono passati favori, mazzette e tangenti. Non è esagerato dire che il vecchio mondo si sgretola. A rodati professionisti, spesso legati al mondo dell’università e ai partiti storici, scelti in base al celebre manuale Cencelli, subentrano architetti più giovani che si sono formati, grazie ai programmi Erasmus e alla conoscenza di quanto di meglio si sta producendo in Europa e negli Stati Uniti, in un clima culturale più aperto alla concorrenza, ai concorsi e alle innovazioni del linguaggio architettonico. Sono gli anni, oltre tutto, in cui, come dirà Peter Cook, l’architettura in tutto il mondo ha di nuovo messo le ali per ricominciare a sognare. (…)
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Roma è una città che crolla lentamente, con eleganza. Non esplode come le metropoli americane, non implode come quelle cinesi: semplicemente si sbriciola, e nel farlo sembra quasi volerti insegnare la lezione più dura e più affascinante dell’architettura — che niente è per sempre, e che tutto, persino la pietra, ha diritto a morire.
È accaduto alla Torre dei Conti. O, meglio, a quel che ne restava. Un dente cariato incastrato tra i Fori e via Cavour, un relitto di età medievale costruito sul Tempio della Pace, modificato troppe volte, usato come fienile, fortilizio, sede fascista, ufficio comunale e poi lasciato vuoto, in attesa di una rinascita mai arrivata. Quando finalmente si era deciso di restituirle una funzione, con il progetto CARME di Walter Tocci, finanziato dal PNRR, la Torre è implosa: prima un contrafforte crollato come una lama, poi il tetto, poi i solai.
E allora, cosa fare? Restaurarla? Rimettere insieme i pezzi come un puzzle sbriciolato? Spendere milioni per inseguire una forma che ormai non esiste più? Oppure ammettere che la Torre dei Conti ha esaurito il suo ciclo vitale e che Roma — quella Roma che da sempre vive di sostituzioni, di stratificazioni, di cancellazioni e rinascite — può permettersi di immaginare qualcosa di nuovo, di straordinario, di coraggioso? …
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C’è qualcosa di giusto, quasi doveroso, nell’assegnare il Premio Italiano di Architettura alla carriera 2025 a Giorgio Grassi. L’architetto milanese, meritava infatti, questo riconoscimento conferito congiuntamente dalla Triennale di Milano e dal museo MAXXI di Roma e giunto alla sesta edizione.
Novant’anni – Grassi è nato nel 1935 – passati a difendere la disciplina dell’architettura come fosse una fortezza assediata; un’ostinazione rara, tanto più nobile oggi, in cui l’architettura si sta tramutando in uno spettacolo sempre più ricco di effetti speciali, sempre più povero di contenuti.
Ma c’è anche qualcosa di profondamente pericoloso in questa scelta. …
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Ogni tre o quattro anni qualcuno decide di fare il punto sulla giovane architettura italiana. È un rito laico, quasi scaramantico: come se nominare i “nuovi” servisse a farli esistere, a esorcizzare la paura che l’architettura italiana si sia fermata per sempre al dopoguerra o, nella migliore delle ipotesi, ai maestri degli anni Novanta. Nascono così libri, cataloghi, ricognizioni, mappature, che promettono di ritrarre lo stato dell’arte del nostro presente progettuale.
Sono operazioni utili, benché parziali: per ogni architetto selezionato, ce ne sono vari dimenticati, per ogni progetto incluso, altri restano nel cassetto.
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Se il cemento armato è stato il materiale del Moderno, oggi il verde è diventato il passepartout dell’architettura contemporanea, l’ornamento più gettonato del XXI secolo, spesso abusato fino all’insignificanza. Non c’è progetto che non lo esibisca, ostenti, impacchetti. Alberi sui tetti, cespugli nei balconi, rampicanti nei cortili. Anche se, nella stragrande maggioranza dei casi, l’inserimento è posticcio, decorativo, un camouflage green che promette una fedeltà ai principi dell’ecologia che non mantiene.
Nel frattempo, le amministrazioni comunali vengono bersagliate per ogni albero mancato. A Roma, la sistemazione di Piazza Augusto Imperatore è stata criticata con toni feroci per aver “dimenticato il verde”, ignorando che nel centro storico piantare alberi significa sfidare stratificazioni archeologiche millenarie.
In questo scenario iper-retorico, dove il verde è diventato la nuova cartina di tornasole della buona architettura, c’è chi, invece, riesce ad andare oltre. A maneggiarlo come materiale di progetto.
Come Luciano Pia, una figura appartata e autentica di architetto che il verde lo inserisce perché lo considera un elemento strutturale, esistenziale.
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Nel 2014, quando viene chiamato a dirigere la quattordicesima mostra internazionale di Architettura di Venezia, Rem Koolhaas è l’architetto più importante del pianeta. Non il più celebre – quel titolo lo contendevano Zaha Hadid e Frank Gehry – ma il più influente. Il più citato, il più imitato, il più studiato. Sembrava allora che nulla potesse avvenire nel mondo dell’architettura senza passare per un suo sguardo, un suo saggio, una sua ironia. Come testimoniava il successo del libro S,M,L,XL, pubblicato nel 1995 e stampato in decine di migliaia di copie.
Eppure, poco più di dieci anni dopo, il paesaggio appare irriconoscibile. Non solo per il declino inevitabile che colpisce ogni maestro con l’andare dell’età, ma per uno slittamento etico e progettuale del suo studio, OMA, e della sua costola teorico-commerciale AMO. Da avanguardia critica, lo studio olandese è diventato un brand internazionale al servizio del capitale, della propaganda dell’architettura come simulacro.
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Michele De Lucchi è uno di quei personaggi che sfuggono alle definizioni. Non è solo un designer, né soltanto un architetto. È, piuttosto, una figura in bilico tra il profeta e l’imprenditore, tra il radicale e il funzionalista, tra l’artista e il produttore. Come molti dei suoi colleghi internazionali più noti e di qualche anno più anziani– da Rem Koolhaas a Daniel Libeskind, dai Coop Himmelb(l)au ai membri di Archigram – anche lui si è formato in un contesto fortemente politicizzato: quello della Firenze post-sessantottina, sotto la guida di Adolfo Natalini, fondatore di Superstudio. È lì che De Lucchi assorbe la lezione della critica radicale all’architettura moderna: l’idea che l’architetto debba smettere di costruire oggetti esclusivamente funzionali e cominciare invece a immaginare scenari alternativi, utopie, visioni, rotture. (…)
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In Italia si discute da anni se sia necessaria o meno una legge per l’architettura. In Francia la legge c’è, funziona e ha prodotto eccellenti risultati. Da decenni lo Stato francese ha investito in buona edilizia, non solo finanziando progetti iconici ma costruendo concorsi trasparenti, elaborando criteri di qualità e promuovendo una committenza pubblica che considera l’architettura un bene collettivo e non un costo. Da qui la conseguenza che diversi architetti italiani hanno trovato in Francia ciò che in patria veniva negato: opportunità, riconoscimento, continuità professionale.
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Il Centre Pompidou è di nuovo in restauro. Già hanno chiuso i piani destinati al museo e le sale delle esposizioni temporanee, mentre la chiusura totale è stata annunciata per il 22 settembre. Tra gli interventi previsti la rimozione dell’amianto, l’ottimizzazione energetica, il rinnovo degli allestimenti, il miglioramento dell’accessibilità, la realizzazione di nuovi spazi per i giovani, l’ampliamento della biblioteca. Il cantiere partirà ad aprile 2026 e i lavori saranno terminati solo nel 2030, con una chiusura complessiva di quasi cinque anni e un costo stimato di 448 milioni di euro, quanto costerebbe costruire ex novo almeno un paio di grandi musei (il Guggenheim a Bilbao di Frank O.Gehry è costato 100 milioni di dollari di allora e il Maxxi a Roma di Zaha Hadid circa 150 milioni di euro).
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Secondo lo scienziato, architetto e inventore Richard Buckminster Fuller, la moderna coscienza ecologica nasce nel 1969 con la missione Apollo 11 che manda per la prima volta l’uomo nello spazio. Da quel nuovo punto di vista ci accorgiamo infatti facilmente che la Terra è un frammento di universo limitato e fragile, una navicella spaziale che, mal guidata, potrebbe andare alla deriva.
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Il 28 maggio 2010 fu inaugurato il Maxxi. Ricordo perfettamente l’eccitazione di quella giornata. L’edificio si era fatto aspettare 12 anni (il concorso risaliva al 1998) e la costruzione era andata avanti tra infinite polemiche e crescenti dubbi. Con punte di apocalittico scetticismo di chi aveva pubblicamente giurato che un edificio del genere non si sarebbe potuto neanche tenere in piedi. Anche i costi erano lievitati, tanto che si parlava di un esborso, per allora astronomico, di 10.000 euro al metro quadrato, valore che poi venne pubblicamente ridimensionato, computando tra i metri quadrati anche gli spazi accessori.
Appena varcato l’ingresso, il 28 maggio del 2010 si capì immediatamente che si trattava di un capolavoro, di un edificio di una modernità inconsueta nel molle clima romano. Che finalmente il Ministero aveva fatto la cosa giusta, aveva cercato di mettere Roma in competizione con le altre grandi capitali europee.
All’inaugurazione c’era Zaha Hadid, con il suo fare energico e regale, vestita con abiti e gioielli da lei stessa disegnati. Un personaggio con una personalità talmente esuberante da occupare tutto lo spazio. E toglierlo così al curiale ed emaciato Pio Baldi, che era stato il direttore della Darc, il dipartimento per l’arte e l’architettura contemporanea che aveva sostenuto il museo, di cui adesso diventava direttore. “Questa struttura- disse la Hadid con la sua voce stentorea – è stato realizzato solo a metà. Occorrerà presto completarlo”. Frase che credo ripetette un paio di volte, accorgendosi che sull’argomento Pio Baldi e Margherita Guccione, la dirigente posta a capo del settore architettura, nicchiavano, facendo capire che non ci sarebbero stati altri cantieri.
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È da oltre trenta anni che l’architettura italiana sta vivendo una buona stagione. Probabilmente dal 1992 e grazie a Tangentopoli. Il vasto e inarrestabile fenomeno conosciuto come mani pulite ha messo infatti in crisi il vecchio e consolidato sistema di spartizione politica degli appalti. Mentre la così detta legge dei Sindaci, emanata l’anno successivo, nel 1993, ha stimolato le amministrazioni a puntare sull’architettura con opere significative. Certo, i tempi sono sempre più lunghi, la burocrazia opprimente, le norme sempre più indecifrabili e molti progetti rimangono sulla carta o sono realizzati solo dopo 10-15-20 anni. Ma ogni città bene o male ha promosso un certo numero di concorsi che hanno lanciato giovani architetti i quali, negli anni delle spartizioni fatte col codice Cencelli alla mano, non avrebbero avuto occasioni per emergere.
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Da diversi anni il rigorismo sembra essere tornato di moda. I concorsi di architettura, come per esempio quello del grande Maxxi o del museo della Scienza a Roma sono vinti da edifici semplici, al limite della laconicità. La rivista Casabella pubblica progetti sempre più austeri: utilizza per il titolo del numero 969 di maggio 2025 la parola frugalità e, nel numero successivo, pubblica con gran risalto un paio di lavori di Paolo Zermani ispirati al monumentalismo di Louis Kahn e al minimalismo di Mies van per Rohe. In Svizzera spopola Valerio Olgiati, con la sua architettura nuda e asciutta. Progettisti di talento e critici aggiornati sostengono che l’architettura debba essere più rigorosa, nella sostanza e nella forma. E, se non vogliono scomodare la parola minimalismo, usano, come abbiamo visto con Casabella, il termine frugalità.
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Giorno 24 luglio, uscirà, nella collana dei libri di architettura allegata al Corriere della sera, la monografia dedicata a Stefano Boeri. Consacrando in questo modo la sua figura di progettista. E, difatti, se siete disposti a perdere qualche minuto, ChatGPT o qualche altra app di intelligenza artificiale vi diranno che Boeri dopo Renzo Piano e Massimiliano Fuksas è tra le più importanti archistar nazionali. Per una app cinese lo é insieme a Carlo Ratti, per la versione europea insieme a Cucinella, dopo Cino Zucchi e un altro studio di architettura che, credo, sia conosciuto solo dalla Intelligenza Artificiale.
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Per apprezzare un’opera d’arte non è necessario conoscerne la storia. Rimaniamo affascinati da una tela di Botticelli anche se sappiamo poco e nulla del Rinascimento, del neoplatonismo, del tentativo di riforma dei costumi portato avanti dal Savonarola e dell’influenza che l’intollerante frate ebbe sui pittori fiorentini della sua epoca.
Lo stesso accade per gli edifici: non dobbiamo essere esperti di storia romana per ammirare il Pantheon o il Colosseo. Né dottori della chiesa per apprezzare il colonnato di Bernini che introduce a San Pietro. Qualche informazione non guasta, ma della maggior parte delle opere che ammiriamo sappiamo ben poco.