L'Architettura vista da LPP

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Nel 2014, quando viene chiamato a dirigere la quattordicesima mostra internazionale di Architettura di Venezia, Rem Koolhaas è l’architetto più importante del pianeta. Non il più celebre – quel titolo lo contendevano Zaha Hadid e Frank Gehry – ma il più influente. Il più citato, il più imitato, il più studiato. Sembrava allora che nulla potesse avvenire nel mondo dell’architettura senza passare per un suo sguardo, un suo saggio, una sua ironia. Come testimoniava il successo del libro S,M,L,XL, pubblicato nel 1995 e stampato in decine di migliaia di copie.

Eppure, poco più di dieci anni dopo, il paesaggio appare irriconoscibile. Non solo per il declino inevitabile che colpisce ogni maestro con l’andare dell’età, ma per uno slittamento etico e progettuale del suo studio, OMA, e della sua costola teorico-commerciale AMO. Da avanguardia critica, lo studio olandese è diventato un brand internazionale al servizio del capitale, della propaganda dell’architettura come simulacro.

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Michele De Lucchi è uno di quei personaggi che sfuggono alle definizioni. Non è solo un designer, né soltanto un architetto. È, piuttosto, una figura in bilico tra il profeta e l’imprenditore, tra il radicale e il funzionalista, tra l’artista e il produttore. Come molti dei suoi colleghi internazionali più noti e di qualche anno più anziani– da Rem Koolhaas a Daniel Libeskind, dai Coop Himmelb(l)au ai membri di Archigram – anche lui si è formato in un contesto fortemente politicizzato: quello della Firenze post-sessantottina, sotto la guida di Adolfo Natalini, fondatore di Superstudio. È lì che De Lucchi assorbe la lezione della critica radicale all’architettura moderna: l’idea che l’architetto debba smettere di costruire oggetti esclusivamente funzionali e cominciare invece a immaginare scenari alternativi, utopie, visioni, rotture. (…)

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In Italia si discute da anni se sia necessaria o meno una legge per l’architettura. In Francia la legge c’è, funziona e ha prodotto eccellenti risultati. Da decenni lo Stato francese ha investito in buona edilizia, non solo finanziando progetti iconici ma costruendo concorsi trasparenti, elaborando criteri di qualità e promuovendo una committenza pubblica che considera l’architettura un bene collettivo e non un costo. Da qui la conseguenza che diversi architetti italiani hanno trovato in Francia ciò che in patria veniva negato: opportunità, riconoscimento, continuità professionale.

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Il Centre Pompidou è di nuovo in restauro. Già hanno chiuso i piani destinati al museo e le sale delle esposizioni temporanee, mentre la chiusura totale è stata annunciata per il 22 settembre. Tra gli interventi previsti la rimozione dell’amianto, l’ottimizzazione energetica, il rinnovo degli allestimenti, il miglioramento dell’accessibilità, la realizzazione di nuovi spazi per i giovani, l’ampliamento della biblioteca. Il cantiere partirà ad aprile 2026 e i lavori saranno terminati solo nel 2030, con una chiusura complessiva di quasi cinque anni e un costo stimato di 448 milioni di euro, quanto costerebbe costruire ex novo almeno un paio di grandi musei (il Guggenheim a Bilbao di Frank O.Gehry è costato 100 milioni di dollari di allora e il Maxxi a Roma di Zaha Hadid circa 150 milioni di euro).

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Secondo lo scienziato, architetto e inventore Richard Buckminster Fuller, la moderna coscienza ecologica nasce nel 1969 con la missione Apollo 11 che manda per la prima volta l’uomo nello spazio. Da quel nuovo punto di vista ci accorgiamo infatti facilmente che la Terra è un frammento di universo limitato e fragile, una navicella spaziale che, mal guidata, potrebbe andare alla deriva.

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Il 28 maggio 2010 fu inaugurato il Maxxi. Ricordo perfettamente l’eccitazione di quella giornata. L’edificio si era fatto aspettare 12 anni  (il concorso risaliva al 1998) e la costruzione era andata avanti tra infinite polemiche e crescenti dubbi. Con punte di apocalittico scetticismo di chi aveva pubblicamente giurato che un edificio del genere non si sarebbe potuto neanche tenere in piedi. Anche i costi erano lievitati, tanto che si parlava di un esborso, per allora astronomico, di 10.000 euro al metro quadrato, valore che poi venne pubblicamente ridimensionato, computando tra i metri quadrati anche gli spazi accessori.

Appena varcato l’ingresso, il 28 maggio del 2010 si capì immediatamente che si trattava di un capolavoro, di un edificio di una modernità inconsueta nel molle clima romano. Che finalmente il Ministero aveva fatto la cosa giusta, aveva cercato di mettere Roma in competizione con le altre grandi capitali europee.

All’inaugurazione c’era Zaha Hadid, con il suo fare energico e regale, vestita con abiti e gioielli da lei stessa disegnati. Un personaggio con una personalità talmente esuberante da occupare tutto lo spazio. E toglierlo così al curiale ed emaciato Pio Baldi, che era stato il direttore della Darc, il dipartimento per l’arte e l’architettura contemporanea che aveva sostenuto il museo, di cui adesso diventava direttore. “Questa struttura- disse la Hadid con la sua voce stentorea – è stato realizzato solo a metà. Occorrerà presto completarlo”. Frase che credo ripetette un paio di volte, accorgendosi che sull’argomento Pio Baldi e Margherita Guccione, la dirigente posta a capo del settore architettura, nicchiavano, facendo capire che non ci sarebbero stati altri cantieri.

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È da oltre trenta anni che l’architettura italiana sta vivendo una buona stagione. Probabilmente dal 1992 e grazie a Tangentopoli. Il vasto e inarrestabile fenomeno conosciuto come mani pulite ha messo infatti in crisi il vecchio e consolidato sistema di spartizione politica degli appalti. Mentre la così detta legge dei Sindaci, emanata l’anno successivo, nel 1993, ha stimolato le amministrazioni a puntare sull’architettura con opere significative. Certo, i tempi sono sempre più lunghi, la burocrazia opprimente, le norme sempre più indecifrabili e molti progetti rimangono sulla carta o sono realizzati solo dopo 10-15-20 anni. Ma ogni città bene o male ha promosso un  certo numero di concorsi che hanno lanciato giovani architetti i quali, negli anni delle spartizioni fatte col codice Cencelli alla mano, non avrebbero avuto occasioni per emergere.

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Da diversi anni il rigorismo sembra essere tornato di moda. I concorsi di architettura, come per esempio quello del grande Maxxi o del museo della Scienza a Roma sono vinti da edifici semplici, al limite della laconicità. La rivista Casabella pubblica progetti sempre più austeri: utilizza per il titolo del numero 969 di maggio 2025 la parola frugalità e, nel numero successivo, pubblica con gran risalto un paio di lavori di Paolo Zermani ispirati al monumentalismo di Louis Kahn e al minimalismo di Mies van per Rohe. In Svizzera spopola Valerio Olgiati, con la sua architettura nuda e asciutta. Progettisti di talento e critici aggiornati sostengono che l’architettura debba essere più rigorosa, nella sostanza  e nella forma. E, se non vogliono scomodare la parola minimalismo, usano, come abbiamo visto con Casabella, il termine frugalità.

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Giorno 24 luglio, uscirà, nella collana dei libri di architettura allegata al Corriere della sera, la monografia dedicata a Stefano Boeri. Consacrando in questo modo la sua figura di progettista. E, difatti, se siete disposti a perdere qualche minuto, ChatGPT o qualche altra app di intelligenza artificiale vi diranno che Boeri dopo Renzo Piano e Massimiliano Fuksas è tra le più importanti archistar nazionali. Per una app cinese lo é insieme a Carlo Ratti, per la versione europea insieme a Cucinella, dopo Cino Zucchi e un altro studio di architettura che, credo, sia conosciuto solo dalla Intelligenza Artificiale.

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Per apprezzare un’opera d’arte non è necessario conoscerne la storia. Rimaniamo affascinati da una tela di Botticelli anche se sappiamo poco e nulla del Rinascimento, del neoplatonismo, del tentativo di riforma dei costumi portato avanti dal Savonarola e dell’influenza che  l’intollerante frate ebbe sui pittori fiorentini della sua epoca.

Lo stesso accade per gli edifici: non dobbiamo essere esperti di storia romana per ammirare il Pantheon o il Colosseo. Né dottori della chiesa per apprezzare il colonnato di Bernini che introduce a San Pietro. Qualche informazione non guasta, ma della maggior parte delle opere che ammiriamo sappiamo ben poco.

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Possiamo considerare che il fenomeno delle archistar nasce il 18 ottobre 1997 quando si inaugura il museo Guggenheim di Bilbao. È da quel momento che politici e  costruttori cominciano a rendersi conto che il tocco di alcuni architetti può fare la differenza e determinare la fortuna di un luogo.

L’archistar non è quindi solo un progettista famoso. È un personaggio mediatico la cui firma garantisce il successo di una iniziativa. Le archistar italiane sono due: Renzo Piano (1937) e Massimiliano Fuksas (1944). Entrambi hanno cominciato a costruire la loro fama all’estero, in Francia, per poi essere apprezzati in Italia. Con il tempo se ne sono aggiunti altri.

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L’architettura italiana gode di buona salute e sono numerosi i progettisti di valore che operano dal nord al sud della penisola. Tuttavia, per quanto bravi, non riescono a suscitare quell’interesse internazionale che gli italiani destarono in altre stagioni: si pensi per esempio negli anni Ottanta al successo di Aldo Rossi e dei postmoderni. I due architetti italiani oggi più conosciuti, Renzo Piano e Massimiliano Fuksas, per quanto molto apprezzati, non “bucano”come allora, quando i progetti italiani venivano imitati e studiati nelle università. E, dietro Piano e Fuksas, nessuno gode di particolare seguito internazionale. Stefano Boeri, che, è forse il più noto della generazione successiva dei settantenni, è considerato più l’autore di una fortunata formula, il Bosco verticale, che un progettista rilevante dal punto di vista dell’invenzione di una nuova poetica e di un nuovo linguaggio.

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Sono passati oramai quasi venti anni dal settembre del 2005, quando trentacinque accademici, scrivono un appello diretto al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, alle Istituzioni e ai Ministeri competenti. L’ appello è pubblicato sul Corriere della Sera accompagnato da un articolo di Pierluigi Panza.

“L’architettura italiana – sostengono i trentacinque professori – attraversa una situazione drammatica. Mentre in altre nazioni europee, in particolare in Francia, in Germania, in Spagna, negli ultimi decenni sono state realizzate grandi opere di interesse sociale che hanno trasformato sensibilmente l’ambiente urbano mettendo a disposizione dei cittadini nuovi servizi che esprimono lo spirito del nostro tempo, in Italia iniziative del genere si contano sulle dita, mancano di una meditata programmazione e si devono quasi sempre all’intervento di architetti stranieri. Nel riconoscere il carattere positivo dell’apporto di forze culturali esterne non si può fare a meno di notare che una delle ragioni della preferenza loro accordata si deve alle realizzazioni compiute, realizzazioni per le quali in Italia sono mancate le premesse concrete, con la conseguenza di aver privato gli architetti italiani di quelle occasioni di lavoro che avrebbero permesso loro di offrire un contributo originale all’attuale stagione di rinnovamento della architettura”.

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1996. Francesco Rutelli, sindaco di Roma, compie un ulteriore passo nel suo programma di costruzione di opere pubbliche per la Capitale: un edificio a Piazza Augusto Imperatore per ospitare e valorizzare l’altare dell’Ara Pacis. Per abbreviare i tempi di realizzazione e garantire la qualità del risultato, Rutelli decide, mettendosi contro l’Ordine degli Architetti, di non bandire alcun concorso internazionale e di affidare direttamente l’incarico a Richard Meier. Meier è un nome conosciuto a livello internazionale, ha uno stile asciutto ispirato al Le Corbusier della fase purista, è autore di interventi museali in ogni angolo del mondo, anche in contesti storici delicati, come il bellissimo MACBA di Barcellona, aperto nel novembre 1995.

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Luigi Pellegrin è stato uno dei grandi architetti del dopoguerra. Era artisticamente tanto dotato che persino il severo critico Manfredo Tafuri, il quale amava tutt’altro genere di architettura, dovette riconoscerlo. E lo fece individuando in questo “solitario sperimentatore” una  lezione wrightiana addirittura superiore a quella di Carlo Scarpa, perché priva di soluzioni di maniera e mirata alla qualità dello spazio e degli oggetti. Nonostante le numerose opere – edifici, progetti, dipinti, scritti e persino un trattato a schede – che Pellegrin ha prodotto nel corso della sua esistenza, di lui si sta perdendo traccia.

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La mostra al Maxxi di Roma, dal titolo Stop Drawing. Architettura oltre il disegno affronta, sino al 21 Settembre 2025, il tema della crisi del disegno di architettura. Cioè della tecnica che per molto tempo è stata lo strumento privilegiato dell’architetto. Oggi, infatti, si utilizzano con sempre maggiore frequenza collage, modelli tridimensionali, pittogrammi, filmati, immagini elaborate dal computer e gestite dalla Intelligenza Artificiale. Inoltre Stop Drawing fa vedere quanto la pratica artigianale del disegno a riga e squadra e a mano libera sia utilizzata come forma di resistenza alle nuove tecnologie considerate come omologanti e pervasive. La mostra nel suo insieme è però deludente se non innervosente. I bellissimi disegni, plastici, filmati non riescono a costruire una narrazione. E, oltre alla considerazione sulla perdita di ruolo del disegno, non si riescono a individuare altre tesi. A peggiorare questa sensazione è la scarsità dell’apparato informativo. Le didascalie, per esempio, non si trovano accanto ai quadri, sono poco leggibili, non forniscono particolari input di riflessione. È difficile capire chi sono gli autori delle opere in mostra, in che anno operano, perché sono stati selezionati, che ruolo hanno all’interno del discorso complessivo.

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La recente autobiografia di Massimiliano Fuksas, edita da Mondadori, è un libro che vi consiglio di leggere. Per tre ragioni. La prima è che non è uno di quei testi soporiferi che girano nel mondo delle pubblicazioni di architettura, ma è una storia ben scritta che si divora in pochi giorni. La seconda ragione è che ci propone una visione chiara e ben definita, un po’ romantica ma, forse proprio per questo, attuale: l’architettura ha a che fare con la vita, non con regole e precetti.

La terza è che ci permette di conoscere alcuni retroscena: tra questi gli incontri e scontri con Francesco Rutelli, con Silvio Berlusconi, con Paolo Baratta. Anche se senza mai cadere nel gossip come capita con altre celebri autobiografie, per esempio quella di Daniel Libeskind, Breaking Ground, che sembrano essere state scritte apposta per levarsi i sassolini dalle scarpe.

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Marcello Guido è un progettista atipico per almeno due ragioni. La prima per il suo stile fortemente espressivo. La seconda per il fatto che opera nel sud Italia, a  Cosenza e cioè in una realtà lontana dai circuiti ufficiali e, in particolare, dalle due aree dove è più fiorente la produzione di opere di architettura: la Lombardia, con epicentro a Milano, e l’Alto Adige con qualche punta verso il Veneto.

Marcello Guido, come ci racconta Antonietta Iolanda Lima, curatrice di un recente volume a lui dedicato, produce “forme che sembrano cadute lì per caso. Picconano la razionalità e per questo spiazzano: il rimando è alla tecnica del collage in uso tra i dadaisti”. Si pongono quindi in alternativa allo stile dominante in Italia oggi, quello che più volte abbiamo definito High Touch che, invece, persegue gli ideali opposti, del perfettamente finito, del grazioso e finanche dell’armonico. E, difatti, l’opera più nota di Guido è un intervento nel centro storico di Cosenza, in piazzetta A. Toscano, che ha scatenato il putiferio.

Tra le utili iniziative della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura metterei senza dubbio il bando destinato a finanziare i festival dell’Architettura, quest’anno giunto alla terza edizione. I festival servono a raccontare ai non addetti ai lavori quanto sia importante la buona progettazione del territorio, delle città, dei quartieri e degli edifici in cui viviamo. Uno, il recente Festival Industria, ha avuto particolare interesse. È stato organizzato da diversi soggetti con capofila l’Ordine degli Architetti di Modena ed ha avuto come focus il tema degli spazi industriali. Cioè complessi edilizi che possono imbruttire e compromettere il territorio, come per esempio succede con le sterminate sequenze di capannoni della Pianura Padana. Oppure valorizzarlo come accade con interventi pensati da imprenditori illuminati e sensibili alla qualità dei luoghi, nonché alla buona reputazione dell’azienda, come è accaduto, per esempio, con Prada che ha affidato i suoi edifici industriali a Luca Canali.

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La Biennale di architettura di Venezia è la più importante manifestazione internazionale tra le diverse, dedicate al costruire inteso come arte, che si svolgono in ogni parte del mondo. A riprova del successo, le 285.000 presenze nel 2023, una enormità per una materia che non ha mai attirato un pubblico particolarmente numeroso. La crescita della Biennale di architettura è stata costante a partire dal 1980 e credo che sia stata in larga parte dovuta, oltre che dal fatto che non ci poteva essere una idea migliore di farla nella città di Venezia, all’individuazione dei curatori scelti tra i personaggi più rilevanti del panorama architettonico. A dirigere le varie edizioni sono stati, infatti, chiamati, solo per citarne alcuni, Paolo Portoghesi (1980), Massimiliano Fuksas (2000), Kazuyo Sejima (2010), David Chipperfield (2012), Rem Koolhaas (2014).

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