L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 31

L’opportunità che ci arriva dal crollo della Torre dei Conti: un concorso internazionale di progettazione aperto, libero, pulito. La permanenza costruita come trasformazione e non come mummificazione

10 Nov 2025 di Luigi Prestinenza Puglisi

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Roma è una città che crolla lentamente, con eleganza. Non esplode come le metropoli americane, non implode come quelle cinesi: semplicemente si sbriciola, e nel farlo sembra quasi volerti insegnare la lezione più dura e più affascinante dell’architettura — che niente è per sempre, e che tutto, persino la pietra, ha diritto a morire.

È accaduto alla Torre dei Conti. O, meglio, a quel che ne restava. Un dente cariato incastrato tra i Fori e via Cavour, un relitto di età medievale costruito sul Tempio della Pace, modificato troppe volte, usato come fienile, fortilizio, sede fascista, ufficio comunale  e poi lasciato vuoto, in attesa di una rinascita mai arrivata. Quando finalmente si era deciso di restituirle una funzione, con il progetto CARME di Walter Tocci, finanziato dal PNRR, la Torre è implosa: prima un contrafforte crollato come una lama, poi il tetto, poi i solai.

E allora, cosa fare? Restaurarla? Rimettere insieme i pezzi come un puzzle sbriciolato? Spendere milioni per inseguire una forma che ormai non esiste più? Oppure ammettere che la Torre dei Conti ha esaurito il suo ciclo vitale e che Roma — quella Roma che da sempre vive di sostituzioni, di stratificazioni, di cancellazioni e rinascite — può permettersi di immaginare qualcosa di nuovo, di straordinario, di coraggioso? …

In Italia la risposta istintiva è sempre la stessa: restauriamo. Restaureremmo tutto, anche l’aria se potessimo. È il riflesso pavloviano di un Paese che si crede custode della memoria ma in realtà teme il futuro. Ogni rovina è un tabù, ogni maceria una reliquia. E difatti siamo bravissimi a costruire presepi: quartieri o paesi dove la storia sembra essersi fermata, belli e fasulli. Ma se guardiamo la storia con meno sentimentalismo e più lucidità, scopriamo che Roma è una città che sino a un recente passato ha demolito per costruire, e costruito sopra le sue stesse rovine, spesso riutilizzandole.

La Torre dei Conti stessa nasce da questa logica. I Conti di Segni la innalzano, per volontà di papa Innocenzo III, nel 1238 usando materiale di risulta dei Fori: un riciclo di storia. E poi, nel Cinquecento, la stessa Torre diventa cava per la Porta Pia. Niente di sacrilego: era semplicemente il modo romano di dialogare col tempo: la permanenza si costruisce attraverso la trasformazione, non attraverso la mummificazione.

Ecco perché il crollo della Torre dovrebbe essere letto non come una tragedia, ma come un’opportunità. Un’occasione per fare. Ovviamente non la copia nostalgica di ciò che non esiste più, ma la costruzione di un nuovo simbolo capace di convivere con i resti del passato.

Non serve rifare la Torre dei Conti com’era. Né serve abbatterla completamente per farne un’astronave di vetro, secondo una logica modernista oramai definitivamente superata. Serve piuttosto un progetto capace di tenere insieme l’invenzione e la memoria, il rudere e l’architettura viva. Un’architettura che accetti di essere figlia del proprio tempo, ma che non rinneghi la storia su cui si innesta.

Per questo occorre un concorso internazionale di progettazione. Aperto, libero, pulito. In cui vinca il migliore e non necessariamente lo studio di architettura più noto o con più fatturato. Un appello al mondo, ma soprattutto agli architetti italiani: venite a Roma, confrontatevi con il mito, inventate una nuova Torre. Un’opera che vada oltre il restauro, e sia riuso, reinterpretazione, reinvenzione.

Certo, occorre evitare quello che è accaduto a Genova dopo il crollo del ponte Morandi. Dove un viadotto, progettato da Renzo Piano, ha cancellato ogni traccia di un capolavoro del passato. Lo ripetiamo: per la Torre dei Conti non serve una ricostruzione ex novo: la logica deve essere diversa. Non cancellare tutto, ma integrare, stratificare. Lasciare che i resti del passato dialoghino con le forme e i materiali del presente.

Una costruzione del XXI secolo piantata nel cuore del XIII. Una torre che risale a sessanta metri come voleva la storia, ma che si riveste di luce, di trasparenze, di materiali che non imitano forme che non hanno ragione di essere ma esprimono una idea di storia. Una torre che ospiti spazi espositivi, un centro di documentazione, un caffè panoramico, una terrazza che permetta di guardare i Fori dall’alto e faccia  finalmente capire che la città è un museo a cielo aperto, e che quel museo va vissuto, non imbalsamato.

Sarebbe anche l’occasione per ripensare l’intorno: Largo Corrado Ricci, oggi un nodo irrisolto tra Via Cavour e Via dei Fori Imperiali, potrebbe diventare una nuova piazza urbana, un luogo di attraversamento e di incontro, un punto di accesso all’area archeologica. Insomma: un’operazione urbanistica e simbolica insieme.

Il concorso dovrebbe chiedere agli architetti del mondo di confrontarsi non solo con la forma, ma con il senso. Che cosa significa costruire a Roma nel 2025? Che cosa significa fare un’architettura che rispetti la storia senza rinunciare alla contemporaneità? Che tipo di bellezza possiamo ancora inventare in un luogo dove tutto è già stato detto, disegnato, scolpito?

È una sfida difficile. Ma molto stimolante. Perché solo nelle città che hanno il coraggio di cambiare il proprio volto può esistere una memoria autentica. Le altre si limitano a recitare se stesse.

E se qualcuno teme lo scandalo, basta ricordare che Roma è sempre stata un laboratorio di sovrapposizioni. Donato Bramante, Michelangelo Buonarroti, Francesco Borromini, Luigi Valadier solo per fare quattro nomi, hanno mostrato che lo si può fare con risultati eccezionali. Nessuno di loro si è chiesto se fosse “troppo moderno”. Hanno semplicemente costruito il proprio tempo.

 

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