L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 30
Il premio a Giorgio Grassi è doveroso, purché non segni il ritorno a un’ortodossia travestita da ricerca morale e all’auto-flagellazione estetica. Non ne abbiamo bisogno
IN SINTESI
C’è qualcosa di giusto, quasi doveroso, nell’assegnare il Premio Italiano di Architettura alla carriera 2025 a Giorgio Grassi. L’architetto milanese, meritava infatti, questo riconoscimento conferito congiuntamente dalla Triennale di Milano e dal museo MAXXI di Roma e giunto alla sesta edizione.
Novant’anni – Grassi è nato nel 1935 – passati a difendere la disciplina dell’architettura come fosse una fortezza assediata; un’ostinazione rara, tanto più nobile oggi, in cui l’architettura si sta tramutando in uno spettacolo sempre più ricco di effetti speciali, sempre più povero di contenuti.
Ma c’è anche qualcosa di profondamente pericoloso in questa scelta. …
Nel celebrare Grassi, si rischia di rimettere in circolo, come negli anni Sessanta con la Tendenza, un approccio all’architettura eccessivamente severo, forzatamente astratto, ingessato, sostanzialmente inumano. E, ancora peggio, di avallare l’idea che il rigore monacale sia la sola panacea contro il caos digitale e il delirio iconico dei tempi recenti.
Negli anni Sessanta, per giustificare tanto integralismo rigorista, come spesso accade in architettura, fu scomodata anche la filosofia e, in particolare, il tormentato Wittgenstein. Grassi emerse come il suo più convinto interprete, colui che più di tutti ne abbracciava l’esigenza ascetica. La costruzione logica dell’architettura (1967) era più di un saggio: era una dichiarazione di guerra al gusto volubile, alla forma come capriccio, in nome della logica analitica del circolo di Vienna, di cui, appunto, Wittgenstein era l’ispiratore. «L’architettura non può fondarsi sulla novità ma solo sulla necessità», scriveva. Necessità, disciplina, rigore: parole che oggi suonano rivoluzionarie solo perché siamo circondati da architetture a forma di emoji tridimensionali.
A distanza di decenni, Grassi stesso riconobbe i limiti del suo approccio ma ne rivendicò il nucleo. «Un libro scritto malissimo e partorito con grande sforzo, ma che contiene quelle che ancora oggi sono le mie convinzioni più radicate», dirà nel 2008. E ancora: «Ho costruito il linguaggio dei miei progetti quasi soltanto per eliminazione, per esclusione progressiva».
Non aggiungere, togliere. Non inventare, ritrovare. Non stupire, convincere. Un minimalismo senza il piacere del lusso, come per esempio avviene con Mies van del Rohe, e che gode dell’austerità e della privazione: auto-flagellazione estetica.
Eppure, quando si guarda al complesso residenziale a Segrate (1965–70), si percepisce una disciplina che non vuole sedurre ma spiegare; nelle masse murarie e nei portici della casa dello Studente dell’ università di Chieti (1976) una severità claustrale; nell’Area ABB-Roland Ernst a Potsdamerplatz a Berlino (1993-2001) la volontà di fornire forma civile alla città, senza concessioni alla retorica berlinese della ricostruzione scenografica.
E poi c’è Sagunto. Il teatro romano, ricostruito con Manuel Portaceli, è il laboratorio perfetto della sua teoria: né rovina romantica né “com’era dov’era”, ma un nuovo pezzo di storia che dichiara la propria differenza. «Ho cercato di restituire il modello, non l’immagine», scrisse. Per i cultori della rovina e gli adoratori dell’autenticità fu una operazione sacrilega ed eretica. Ma il progetto ha fatto scuola, segno che il metodo aveva più di una giustificazione razionale.
La sua idea di lingua morta è nota: Adolf Loos, il latino, la severità che non si concede all’ornamento. «Mi sono precluso molte scelte formali volontariamente», confessa nella sua autobiografia. E quando qualche cornice o elemento decorativo (ma sempre severi e controllati) appaiono nei suoi progetti, Grassi li giustifica come se fossero una debolezza tollerabile.
Questa insistenza nel rinunciare, nel sottrarre, rende alcune sue opere quasi penitenziarie. Non a caso Grassi guardava con disgusto a Gio Ponti e al suo colore come seduzione: per lui la bellezza era sempre sospetta, il piacere un tradimento.
Ma attenzione all’equivoco. Se oggi il premio assegnatogli alla carriera fosse letto come auspicio di un ritorno a un’architettura moralistica, disciplinare, anti-emotiva, sarebbe un guaio.
Che si premi Grassi va benissimo: è un tributo a un protagonista della critica disciplinare, non una ricetta per il futuro.
Il pericolo è, appunto, risvegliare il fantasma mai sopito della Tendenza. In un mondo già abbastanza rigido, burocratico e ansioso di ordine, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una nuova ortodossia travestita da ricerca morale.
Da tempo si intravedono segni preoccupanti.
Figure come Valerio Olgiati — che trasforma il rigore in tempio metafisico — o i nuovi cultori della muratura austera e dell’astrazione tipologica, da Pier Vittorio Aureli in poi, incarnano una neo-tendenza che propone spartana sincerità ma spesso sfocia in manierismo glaciale. Non più l’ornamento come delitto, ma l’emozione come peccato.
Premiare Grassi, insomma, non deve diventare il pretesto per dire: “Torniamo alla disciplina dura e pura, l’architettura è grammatica, silenzio e pietra”. Sarebbe storicamente miope e culturalmente pericoloso. Non abbiamo bisogno di un revival dell’intellettualismo severo, ma di complessità, contaminazioni, rischi, contraddizioni.
Grassi va celebrato come critica al consumo della forma, non come modello da replicare. Perché la disciplina è necessaria — ma quando diventa dogma, smette di costruire città e inizia a costruire vuoti simulacri di forma.
Grassi , insomma, va compreso nel suo essere contro-storia, vaccino, ammonimento. Serve a contrastare l’euforia iconica, non a riproporre l’ascetismo come religione unica.
Il suo fascino sta proprio nel fallimento dichiarato. Nell’impossibilità di fare architettura logica quando il mondo chiede simboli, sensi, storie. Nel fatto che, tentando di svuotare il linguaggio, lo ha riempito di una nuova moralità formale.
Premiamolo per questo. Per la sua irriducibilità. Per la lucidità con cui ha attraversato il secolo delle immagini volendo restare nel secolo delle murature. Ma non usiamolo per rimettere la disciplina sull’altare e cancellare rischio, invenzione e libertà.
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