La difficile identità digitale della stazione appaltante nei contratti pubblici

Il decreto legislativo 36/2023 pone implicitamente alle stazioni appaltanti e agli enti concedenti, in materia di Gestione Informativa Digitale (GID) una vera e propria questione esistenziale, di natura identitaria, la cui incomprensione sta iniziando a causare una molteplicità di fraintendimenti e di criticità. La questione consiste, appunto, nella ridefinizione dell’identità del versante della domanda pubblica e, in particolare, del committente pubblico.

16 Mar 2025 di Angelo Ciribini

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Ciò che, infatti, emerge da una analisi empirica è che buona parte delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti stiano approcciando la tematica nel senso convenzionale di adempimento dell’obbligo, così come è dimostrabile anche attraverso una valutazione grossolana dell’entità delle risorse economico-finanziarie destinate mediamente ai servizi di consulenza esterna per questa finalità, di importo certamente insufficiente per procedere a una implementazione sartoriale e approfondita del metodo e degli strumenti. Non vi è dubbio, infatti, che, di là della cogenza e della sua conformità sul piano formale, una porzione significativa delle organizzazioni che operano sul versante della domanda pubblica ritengano, tutt’al più, che eventuali miglioramenti che possano scaturire dalla Gestione Informativa Digitale (GID) concernano le prassi consolidate, di tipo analogico. Non è, del resto, un caso che la concezione diffusa, ed erronea, di digitalizzazione sia circoscritta assai spesso alla dematerializzazione del documento, ben prima di giungere a interrogarsi sul significato del dato. È proprio su questo piano che si gioca la scommessa posta dalla trasformazione digitale: far comprendere alle stazioni appaltanti e agli enti concedenti, ma anche alle strutture private di committenza, come la sfida riguardi la loro essenza, non aspetti attinenti a una sorta di superfetazione o, al meglio, di incremento delle procedure tradizionali.

La natura digitale del versante della domanda e, segnatamente, di quella pubblica investe, al contrario, sia il proprio modo di operare (e, ancor prima, di pensare) sia l’oggetto contrattuale a cui essa presiede. Nel primo caso, per restare nell’ambito della gestione dei contratti pubblici, si tratta, a partire dalla definizione del programma pluriennale e annuale degli investimenti, del quadro esigenziale del singolo intervento e del documento di fattibilità delle alternative progettuali, per giungere al documento di indirizzo alla progettazione, di dimostrare la capacità di formulare le proprie richieste e i propri requisiti, contenutistici e informativi, in maniera analitica e strutturata, sino a passare dalla redazione di documenti alla pratica di processi (semiautomatizzati). Si tratta palesemente di dimostrare il pieno possesso dei contenuti meta-progettuali della committenza, la propria abilità proattiva nell’intrecciare un dialogo costruttivo con gli affidatari dei servizi, dei lavori e delle forniture e nell’effettuare azioni sistematiche di accertamento del conseguimento degli obiettivi contrattuali prefissati, all’interno di transazioni di dati, non solo di documenti, entro un ecosistema digitale sempre più ampio e interoperabile, soggetto alla regolamentazione dell’AGID e dell’ACN.

Al contempo, è l’oggetto del contratto che implica non solo il raggiungimento degli esiti desiderati a livello del bene fisico, che sia un edificio, una infrastruttura o una rete, bensì anche la disponibilità di un corredo informativo idoneo per la gestione del ciclo di vita del cespite medesimo. Per questa ragione, tra l’altro, il collaudo (tecnico-amministrativo) dei modelli informativi e della modellazione informativa, previsto dalla legislazione, assume connotati tutti da indagare, per nulla scontati e, al limite, forieri di potenziali controversie e contenziosi. Occorre, perciò, forzatamente domandarsi quante delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti che attualmente si preoccupano di redigere formalmente atti organizzativi, capitolati informativi, programmi formativi e piani di investimento siano consapevoli del cambio di paradigma e della necessità di porre in discussione e di alterare la propria identità.

Da qui, molto più che da altro, passa una autentica ri-qualificazione della domanda pubblica e, di conseguenza, dell’offerta privata. L’alternativa, da non escludere, persino scontata, è che si crei una sovra-strutturazione dei processi, ispirata alla digitalizzazione, ma sostanzialmente, inconsapevole dei suoi significati reali. In luogo di procedere a una trasformazione digitale, si darebbe corso alla manifestazione di un fenomeno collaterale, la cui entità (marginale?) sarebbe da discutere. Serve, di conseguenza, la presenza di una entità pubblica che offra riferimenti adeguati e unitari, non lasciando l’iniziativa ai diversi soggetti che procedano in ordine sparso e che valorizzi l’apporto degli esperti nei termini più efficaci e consoni.

Angelo Luigi Camillo Ciribini è professore ordinario all’Università degli studi di Brescia

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