L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 24
Il Centre Pompidou all’ennesimo restauro e la parabola di Piano a tutore dell’ordine ci ricordano che la sperimentazione radicale è possibile ma fragile. L’architettura può non essere un recinto di buone maniere
Il Centre Pompidou è di nuovo in restauro. Già hanno chiuso i piani destinati al museo e le sale delle esposizioni temporanee, mentre la chiusura totale è stata annunciata per il 22 settembre. Tra gli interventi previsti la rimozione dell’amianto, l’ottimizzazione energetica, il rinnovo degli allestimenti, il miglioramento dell’accessibilità, la realizzazione di nuovi spazi per i giovani, l’ampliamento della biblioteca. Il cantiere partirà ad aprile 2026 e i lavori saranno terminati solo nel 2030, con una chiusura complessiva di quasi cinque anni e un costo stimato di 448 milioni di euro, quanto costerebbe costruire ex novo almeno un paio di grandi musei (il Guggenheim a Bilbao di Frank O.Gehry è costato 100 milioni di dollari di allora e il Maxxi a Roma di Zaha Hadid circa 150 milioni di euro).

Luigi Prestinenza Puglisi
IN SINTESI
La notizia non stupisce: il Centro, sin dalla sua apertura nel 1977, è stato pensato come un organismo vivo, un esperimento tecnologico e sociale. E, come ogni organismo vivo, ha bisogno di manutenzione continua. Da una parte la fragilità di un oggetto tecnologico che ha inaugurato il linguaggio dell’architettura hi-tech, dall’altra l’enorme successo di pubblico: oltre 3 milioni di visitatori ogni anno con flussi che consumano scale mobili, pavimenti, impianti. Il Pompidou è vittima del proprio successo, e allo stesso tempo ne è la prova più evidente.
Un recente documentatissimo libro di Boris Hamzeian, Centre Pompidou. La sfida del total design, edito da Actar Publishers (edizione italiana: novembre 2023), che ripercorre la storia del centro e dei suoi creatori, ci ricorda quanto quell’edificio abbia rappresentato una rottura epocale. Non era solo un museo, ma un manifesto. Nel concorso del 1971, vinto da tre giovani pressoché sconosciuti – Renzo Piano, Richard Rogers e Gianfranco Franchini – la giuria era composta da giganti. Per citare i tre più noti: Jean Prouvé, Oscar Niemeyer, Philip Johnson. Figure che vedevano nell’architettura il luogo della sperimentazione radicale, non il recinto delle buone maniere. Erano anni in cui, sulla scia delle vicende del sessantotto, si credeva nella cultura libera e democratica, nei giovani e nella possibilità di cambiare davvero il mondo attraverso lo spazio pubblico. E in cui la Francia voleva contrapporsi agli Stati Uniti come il cuore pulsante della cultura mondiale.
Il Pompidou doveva essere molto più innovativo di come lo conosciamo oggi. Piani mobili, pareti scorrevoli, grandi schermi, uso dei computer al loro primo apparire in facciata. Un edificio completamente permeabile, aperto, quasi inesistente come barriera. Il lotto fu diviso in due, lasciando metà dell’area a una piazza all’aperto che prosegue nella piazza coperta, senza soluzione di continuità. Come sottolineava sempre Richard Rogers quando gli chiedevano di parlare del Centro: la sua forza era nel suo sistema dei vuoti e nella piazza dove si svolgeva la vita di ogni giorno. Il museo come circo, macchina per eventi, spazio di libertà creativa.
Una bellissima mostra in corso racconta proprio queste origini, esponendo le opere di Jean Tinguely e Nike de Saint Phalle, gli artisti delle macchine poetiche, che per il museo immaginavano performance e installazioni in continuo movimento. Il Pompidou era un dispositivo capace di stupire, non un tempio da visitare in silenzio. A dirigerlo, fu chiamato l’insuperato Pontus Hulten, che credeva nell’arte contemporanea, nella sperimentazione, nella caduta degli steccati disciplinari, nel rapporto simbiotico tra arte e vita (la mostra dal titolo Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely, Pontus Hulten, magnificamente curata da Sophie Duplaix è ospitata al Grand Palais e resta aperta sino al 4 gennaio 2026).
Poi, lentamente, il meccanismo si è istituzionalizzato. Ciò che era pensato come hub di sperimentazione è diventato un museo come tanti altri, che rappresenta il nuovo più che produrlo. La radicalità tecnica si è cristallizzata in immagine: tubi colorati all’esterno, impianti a vista, meccanismi elevatori in facciata. La famosa scala mobile panoramica, simbolo di accesso democratico, e di una facciata disegnata anche dal colore dei vestiti del pubblico, oggi è riservata a chi paga il biglietto. Quella promessa di permeabilità totale si è chiusa, letteralmente, dietro una barriera che serve a filtrare l’accesso e a garantire i controlli di sicurezza per impedire di far entrare nell’edificio i malintenzionati.
Renzo Piano, che il 14 settembre ha compiuto 88 anni, incarna questa parabola. Allora giovane architetto che sfidava le convenzioni, oggi disegna architetture splendide e misurate, molto istituzionali, rassicuranti. Sperimenta meno, promette tranquillità, ci annoia con frasi di buon senso. Da rivoluzionario a garante dell’ordine.
Il Pompidou, nato come macchina del cambiamento, riflette questa trasformazione.
Eppure, nonostante tutto, resta un edificio cruciale per la storia dell’architettura. Non tanto per le sue forme e i suoi colori che contrastano con l’intorno urbano, ma per l’idea che lo sostiene: il museo come spazio pubblico, come luogo di attraversamento. È una lezione che ancora oggi fatichiamo ad applicare.
Quanti musei contemporanei si pensano come macchine che producono nuove esperienze? Quasi nessuno. La maggior parte sono contenitori neutri, sequenze di scatole bianche, eleganti, funzionali, calibrate per la gestione dei flussi più che predisposte per la creazione di occasioni impreviste.
Il Pompidou, con i suoi restauri frequenti, ci ricorda che la sperimentazione è fragile. Che la libertà costa manutenzione, aggiornamento, fatica. È un edificio vivo, e in quanto tale invecchia, si consuma, ha bisogno di cure. Ma ci ricorda anche la forza di un’epoca in cui architetti e giurie scommettevano sui giovani e sull’innovazione radicale. Un’epoca in cui si poteva davvero immaginare un museo come un circo, un luogo di festa e di sorpresa continua.
Oggi viviamo tempi diversi. La cultura libera e democratica è più slogan che realtà, e la sperimentazione è confinata a eventi effimeri, festival, installazioni temporanee. Ma guardare il Pompidou – con i suoi tubi, le sue scale mobili, la sua piazza – significa ricordare che un’altra idea di architettura pubblica è possibile. Che un museo può essere non solo un contenitore, ma macchina generatrice di immaginazione. E forse, proprio nel momento in cui lo restauriamo, dovremmo restaurare anche quella visione.
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