BLUE BOOK/1
Acqua, la Rab cresce a 16,3mld. PREOCCUPANO clima, perdite, gestioni comunali, spopolamento
Ogni anno, la filiera cresce del 5% e solo dal 2015 interessa un milione e mezzo di imprese nazionali. Gli investimenti crescono costantemente dal 2021: quelli della gestione del servizio idrico integrato ammontano a 13,2 miliardi. Incognita Pnrr: tra due anni sarà a rischio il 24% degli investimenti del settore, che teme così di rimanere scoperto. L’altro tasto dolente è il gap tra grandi e piccoli operatori: gli enti locali si limitano a 29 euro per abitante.
IN SINTESI
Una filiera importante tanto da coprire il 20% del Pil nazionale, un valore complessivo che supera 383 miliardi di euro e una Rab che si attesta a 16,3 miliardi ma anche tante incognite per il futuro. Il mondo dell’acqua alle prese con l’ultima fase degli investimenti Pnrr è un mondo che Utilitalia, Fondazione Utilitatis e The European House Ambrosetti (Teha) definiscono in crescita nei due rapporti Blue Book e Libro Bianco 2025 presentati ieri alla Casa dell’Architettura a Roma. Ogni anno, infatti, la filiera cresce del 5% e solo dal 2015 interessa un milione e mezzo di imprese nazionali. Le incognite, a fronte di questa mole di risorse in crescita, sono tante. Dai cambiamenti climatici allo spopolamento passando per le gestioni locali (in economia) del servizio idrico e le perdite di rete.
Crescono gli investimenti, obiettivo digitalizzazione e rebus post-Pnrr
Partendo dal rapporto tra investimenti e regolazione, secondo il Blue book la Rab si configura come strumento “essenziale” per valorizzare gli investimenti infrastrutturali, con un valore complessivo pari a circa 16,3 miliardi di euro. Integrata con il sistema concessorio, aggiunge il rapporto, essa garantisce un equilibrio tra la necessità di rinnovare le infrastrutture e la sostenibilità economica per i gestori e la tutela della sfera cittadina.
Guardando lo storico degli investimenti, e in particolare quelli della gestione del servizio idrico integrato, ammontano a 7,1 miliardi solamente per il triennio 2021-2023 e salgono a 13,2 miliardi fino al biennio 2024-2025. In totale, il fatturato del comparto ammonta a 8,9 miliardi e 30mila addetti. Dal 2012 a oggi gli investimenti sono cresciuti del 99% con una incidenza del 37% di fondi pubblici e contributi. Quelli realizzati dai gestori industriali sono passati dai 33 euro annui per abitante di tredici anni fa ai 65 euro annui del 2023. La stima di crescita per gli ultimi due anni, invece, vede salire la quota di risorse annue a 72 e 80 euro. Una criticità? Il gap tra grandi e piccoli operatori: i primi investono oltre 68 euro per abitante, i secondi si fermano a 44 euro. E, più giù, gli enti locali (gestioni in economia) si limitano a 29 euro per abitante. In ogni caso, tutti valori molto più bassi delle altre potenze europee, dalla Danimarca al trio Francia-Germania-Spagna e il Regno Unito. Solo per l’ultimo quinquennio l’Italia ha una quota del 28% inferiore alla media Ue27. Guardando ad altri settori, poi, c’è il mondo agricolo, con 1,1 milioni di imprese, un valore aggiunto di 39,5 miliardi e 930mila occupati nel 2023. Nel comparto idrovoro il contributo al Pil è pari a 287,7 miliardi con 3,5 milioni di lavoratori occupati in 330mila imprese. E ancora, nel comparto energetico sono coinvolte 10mila imprese, un surplus da 25,3 miliardi e una quota di occupati pari a 100mila lavoratori.
Investimenti, insomma, è la parola chiave. Eppure, la filiera idrica ad oggi si sostiene per lo più (73%) grazie alle tariffe. Nel 2024, la spesa media annuale per il servizio è stata di 384 euro per una utenza campione di tre persone con consumi pari a 150 metri cubi. Un aumento del 5% sul 2023 ma un valore ancora tra i più bassi in Europa. Secondo Utilitalia-Utilitatis-Teha, nel 2029 gli investimenti in tecnologie vedranno l’Italia superare la media comunitaria raggiungendo il 19%, tre volte gli altri Paesi Ue. Oggi, il tasso di risorse destinate all’innovazione nel settore idrico da parte dei gestori industriali si ferma al 16,1%.
C’è poi il fronte della digitalizzazione che è apertissimo. 9 gestori su 10 vogliono impegnarsi in questo sul 90% della rete nei prossimi 2-3 anni. In questo senso, allora, gli interventi prossimi dovranno inevitabilmente riguardare l’ammodernamento delle infrastrutture energetiche idriche, vecchie in media di 58 anni a livello nazionale e con una rete idrica che ha il 22% delle condutture con oltre mezzo secolo. “A questo ritmo, servirebbero 250 anni per rinnovare l’intera rete”, avverte Benedetta Brioschi di Teha. Ad oggi, l’Italia ha ancora quattro procedure di infrazione aperte dall’Ue sulle carenze nel servizio di depurazione in alcuni territori. Sono, per capire, 1,3 milioni i cittadini che vivono in 296 Comuni senza questo servizio. L’altra vera incognita è il dopo-2026: oggi il Pnrr destina 7 voci dei fondi da 8,9 miliardi ma secondo i due rapporti tra due anni sarà a rischio il 24% degli investimenti del settore, che teme così di rimanere scoperto. Come evitare questo dramma? Secondo il Libro Bianco di Teha, occorrerà assicurare il rispetto dei tempi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, prioritizzare la ricerca di nuove risorse da investire dopo il 2026, supportare strumenti di finanza sostenibile e stimolare la revisione dei criteri tecnici della Tassonomia europea degli investimenti del servizio idrico integrato.
Preoccupano le gestioni in economia
Da un lato gli investimenti, dall’altro le emergenze. Pnrr a parte, dicevamo, le emergenze della filiera sono almeno quattro. Le gestioni in economia, anzitutto. Cioè come è gestito il servizio idrico dagli enti locali. Secondo i dati del Blue book di Utilitalia-Utilitatis, al 2024 sono almeno 1.368 i Comuni in cui almeno uno tra acquedotto, fognatura o depurazione è gestito dalla municipalità. Una quota del 18% che coinvolge 7 milioni di abitanti, il 12% del totale nazionale. L’82% di questi Comuni è al sud per il 64% e per il 18% nelle Isole: 1.126 Comuni con 6,7 milioni di abitanti pari al 95% della popolazione in economia. Insomma, numeri evidenti sui quali lavorare per proseguire il percorso di subentro del gestore unico e quindi di riduzione della frammentazione del servizio che negli ultimi sette anni, secondo Utilitatis, ha portato a diminuire già il totale di 700 unità. Nei prossimi anni, si legge nel Blue book, si aggiungeranno altri 500 Comuni.
Tutto questo, insomma, per “garantire una gestione economicamente sostenibile e capace di assicurare investimenti adeguati” per le infrastrutture idriche. Ad oggi, il servizio unico e integrato riguarda 6.057 Comuni per 49,3 milioni di cittadini, l’85% della popolazione. In 196 Comuni, invece, il servizio è affidato almeno ad un operatore industriale diverso nei tre segmenti (1,5 milioni di abitanti). E, ricorda il Blue book, “la scadenza dei futuri affidamenti è un’occasione importante per superare la frammentazione gestionale e tendere all’unicità della gestione. Di 134 affidamenti analizzati dall’osservatorio della Fondazione, 22 terminano nell’arco del prossimo anno (7,7 milioni di persone interessate), 34 tra 2 e 5 anni (6,8 milioni di persone), 37 tra 6 e 10 anni (18,4 milioni di persone) e 41 andranno in scadenza tra oltre 11 anni (14,2 milioni di persone)”. Solo nei prossimi dieci anni, il valore totale delle gare è di circa 12 miliardi di euro.
Le perdite idriche sono ancora troppe
Un altro fronte su cui sono in corso progressi ma ancora non sufficienti è quello delle perdite idriche. Su cui, solo dal 2021 al 2023 sono state immesse risorse per ben 2 miliardi, il 27%.
Allo stato attuale, dice Utilitatis nel libro blu, “si osserva un trend complessivo di miglioramento” per l’indicatore M1a sul rapporto tra volume di perdite idriche totali e lunghezza complessiva. Da 20,3 metri cubi per lm al giorno nel 2020 si è passati a 19 nel 2023. Ma al Sud le perdite restano più elevate: 32,5 metri cubi per km al giorno. L’altro indicatore, M2b, fa riferimento al rapporto tra le perdite e il volume totale in ingresso nel sistema acquedotto. Anche qui il trend è positivo a più lentamente con un punto percentuale ridotto nei tre anni dal 2020 al 2023. Bene il Centro, con un progresso di 1,5% ma con una percentuale ancora alta, pari al 45,7. Più del Sud che è fermo al 44,7%. La media nazionale è passata dal 39,01% al 38,2% per l’indicatore M1b.
Clima e spopolamento le altre emergenze
Guardando agli altri messaggi chiave e allarmanti lanciati dal Blue book, sull’Italia pesano gli effetti del cambiamento climatico. Nel 2022, ad esempio, i giorni senza pioggia sono stati 299, 15 in più della media storica del periodo 1981-2010. E gli eventi piovosi estremi sono cresciuti ogni anno del 48% dal 2005 al 2024; gli allagamenti nelle città sono passati da 3 a 134 tra il quinquennio 2005-2009 e il 2024. Siamo il quarto paese più esposto per stress idrico, secondi per maggiori perdite in Europa (continente) nel 2022-23 con 282,8 euro pro capite. E nel settore agricolo, nel 2022 si sono verificati danni per 5,6 miliardi.
Per non parlare, poi, della sfida demografica che è già emergenza. Dopo decenni di crescita, ricorda il Blue book, la popolazione residente in Italia ha cominciato a decrescere perdendo nel periodo 2014-2023 circa 1 milione e 350mila individui e secondo Istat perderemo altri due milioni e mezzo di abitanti fino ai 56 milioni nel 2043. Dal punto di vista della filiera idrica, questo porterà i gestori “ad affrontare un incremento del valore degli investimenti con un conseguente aumento del Vrg (vincolo ricavi) che sarà tanto maggiore quanto più lontani dal target si trovano oggi. Gestori più virtuosi, infatti, necessiteranno di uno sforzo inferiore per raggiungere il target di investimento rispetto a quelli meno virtuosi. A fronte
di un incremento del costo di gestione del servizio, la variazione demografica, soprattutto nelle aree in cui si verifica un decremento della popolazione, rappresenta una criticità per i gestori del servizio poiché i costi andranno a gravare su un numero inferiore di utenze con un conseguente impatto sulla tariffa”.
Quale soluzione? Allargare il bacino di gestione distribuendo la variazione media del vincolo pro-capite non sul singolo ambito ma sull’intera macroarea (es. il sud). Servirà, insomma, una tariffa unica, sostiene il rapporto Utilitatis. Insieme con “un meccanismo di perequazione che permetta di bilanciare le differenze tra le diverse aree del Paese. Tale meccanismo funzionerebbe trasferendo risorse finanziarie dalle aree più economicamente avvantaggiate a quelle in cui la gestione del servizio idrico è più onerosa a causa di fattori come il calo demografico, l’estensione delle reti e la necessità di maggiori investimenti”. La via per la sostenibilità economica del servizio nelle aree più fragili e in generale della gestione dell’acqua passa da qui.