L'audizione di Cavallari
L’allarme dell’Upb: calo demografico, 700mila lavoratori in meno al 2030
Questa perdita peserà su crescita e produttività. Serve intervenire su più fronti: natalità, occupazione, valorizzazione del lavoro. Per la presidente Cavallari occorre intervenire con lungimiranza e tempestivamente: così sarà possibile affrontare la transizione demografica non come un’evoluzione da subire ma come un processo da governare.
IN SINTESI
La transizione demografica è “una sfida da governare tempestivamente e con lungimiranza” perché il trend in atto sta cambiando la struttura della società italiana e avrà rilevanti impatti anche sull’economia del Paese, in particolare sul mercato del lavoro, sul Pil e sulla spesa pubblica per pensioni, sanità e assistenza agli anziani. I numeri parlano chiaro: “se mantenessimo i tassi attuali di occupazione, nei prossimi 5 anni avremmo una perdita di 700 unità” e questo, comporterebbe, conseguentemente, il calo della produttività a causa dell’invecchiamento della forza lavoro, considerando che già ora la fascia di lavoratori più numerosa è quella dei baby boomer, tra 50 e 64 anni. E’ l’allarme che suona la presidente dell’Upb, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, Lilia Cavallari, nell’audizione tenuta alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali della transizione demografica. Ma “il declino non è ineluttabile. Sebbene nel breve periodo sia difficile modificare il trend demografico, a meno di interventi sull’immigrazione, è possibile mitigarne le ripercussioni sul potenziale di sviluppo sostenendo sia l’innovazione e il contesto istituzionale, sia il tasso di partecipazione per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani e delle donne”, dice.
“La demografia sfavorevole riduce le prospettive di crescita del prodotto interno lordo: le proiezioni dell’Upb per il prossimo decennio indicano infatti una crescita potenziale che perde vigore man mano che si riduce la spinta dell’accumulazione di capitale, per il venire meno degli investimenti del Pnrr, e che il contributo dell’occupazione diviene nel complesso negativo”, avverte Cavallari. “Il sistema pensionistico si troverà a fronteggiare pressioni di spesa significative nei prossimi quindici anni mentre, nel lungo periodo, le sfide riguarderanno piuttosto l’adeguatezza delle prestazioni previdenziali con importi medi delle pensioni che si ridurranno rispetto ai redditi medi da lavoro. La crescita delle principali ulteriori spese legate all’invecchiamento della popolazione, ovvero sanità e long-term care (LTC), si prospetta comunque moderata se l’allungamento dell’aspettativa di vita non comporterà un aumento degli anni vissuti con problemi di salute o disabilità”.
Contrastare l’impatto negativo del calo demografico con la partecipazione al mercato del lavoro di giovani e donne
Un principale effetto della transizione demografica comporterà, spiega la presidente dell’Upb, una riduzione della popolazione in età da lavoro e un suo sbilanciamento verso le classi di età più elevate; la popolazione attiva sarà superata da quella anziana fuoriuscita dal mercato del lavoro. Lo dimostra quanto è avvenuto negli ultimi 20 anni: l’aumento del 3,8 per cento del tasso di occupazione registrato dal 2004 al 2024 è dovuto proprio al contributo positivo della classe di età 50-64 anni e, in misura minore, alla crescita dell’occupazione tra le donne in età adulta (35-49 anni); mentre l’apporto delle classi di età più giovani è stato negativo. Cosa fare per arginare questa situazione? “Per mitigare tale andamento è necessario intervenire con politiche che favoriscano una più ampia partecipazione al mercato del lavoro, volte a ridurre gli inattivi, migliorando le condizioni di occupabilità degli individui in età da lavoro”, è una delle priorità indicate da Cavallari. E’ proprio sul bacino di inattività che bisogna incidere. Basti pensare che nel 2024 più di 12 milioni di persone risultavano inattive, più della metà degli occupati e ben due terzi donne. Il tasso di inattività si è ridotto negli ultimi venti anni, di oltre 4 punti percentuali rispetto al 2005, ma resta molto elevato nel confronto con i principali paesi dell’area dell’euro; nel 2024 il tasso d’inattività è stato del 33,4 per cento, superiore di circa 8 punti percentuali rispetto a quelli della Francia e della Spagna e di quasi 15 punti rispetto alla Germania. Per di più, la componente maggioritaria degli inattivi (oltre 10 milioni di persone nel 2024) è rappresentata dalla fascia più distante dal mercato del lavoro, ovvero dalle persone che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare; anche su questa componente l’Italia registra valori più elevati degli altri paesi europei. “Ciò costituisce un freno all’attività produttiva oggi e diventerà – sottolinea Cavallari – sempre meno accettabile domani, quando la popolazione in età lavorativa si ridurrà ancora. Sono necessari interventi volti a favorire il raggiungimento di un maggiore livello d’istruzione, soprattutto per i giovani, e ad affinare e riqualificare le competenze professionali; è inoltre necessario rafforzare le politiche di conciliazione della vita con il lavoro e assicurare maggiori servizi pubblici per la cura di bambini e anziani, che oggi è prevalentemente a carico delle donne”.
Cruciale il saldo migratorio: attrarre lavoratori qualificati e trattenere i giovani che emigrano
In questo quadro, c’è un altro fattore che può dare un supporto significativo al contenimento del declino demografico e ad aumentare la popolazione attiva: si tratta del saldo migratorio. Ma c’è un aspetto che riveste una particolare importanza: l’Italia attrae migranti con titoli di studio più bassi e, al contempo, ‘esporta’ giovani di formazione elevata. Risultato è un saldo “estremamente sfavorevole” a favore del nostro Paese. “È necessario – dice Cavallari – potenziare la capacità di attrarre lavoratori qualificati e di trattenere i giovani che emigrano, in particolare con migliori condizioni lavorative e un ambiente favorevole allo sviluppo di progetti di vita radicati nel Paese. Ulteriore e non meno importante intervento è quello sui flussi in uscita dal mercato del lavoro, su cui si può agire attraverso incentivi a prolungare la durata dell’attività lavorativa e misure mirate a un più rapido reinserimento dei disoccupati. Bisogna promuovere lo sviluppo e l’adozione su vasta scala delle tecnologie di frontiera e favorire un efficace adeguamento delle competenze della forza lavoro, attraverso un’azione mirata di supporto all’accumulazione di capitale fisico e umano e contribuendo a creare un ambiente favorevole alla crescita e all’innovazione”.
Un tema cruciale al centro dell’analisi dell’Upb è quello del rapporto tra trend demografico e produttività: la transizione demografica incide sull’attività economica. Da un lato, la minore popolazione in età lavorativa sottrae risorse umane per la produzione; dall’altro, l’invecchiamento della popolazione si ripercuote sulla qualità dell’input di lavoro e quindi sulla produttività aggregata. Come si rileva nella memoria dell’Upb consegnata alla Commissione, la relazione tra invecchiamento e produttività è dibattuta; un’ipotesi sostiene che l’invecchiamento della popolazione riduca il pil pro capite; tale relazione può essere tuttavia rivisitata nei casi in cui vi è una virtuosa risposta endogena del sistema economico: la crescente scarsità di forza lavoro, con i conseguenti maggiori costi del lavoro, può stimolare l’adozione e lo sviluppo di tecnologie di automazione – come la robotica e l’intelligenza artificiale – finalizzate alla sostituzione efficiente di lavoro con capitale. Ciò può attenuare gli effetti negativi della riduzione dell’occupazione sull’output e sulla produttività, soprattutto nei settori più suscettibili all’automazione, ma per realizzarsi richiede una spiccata attitudine della società e del sistema produttivo ad adottare e trarre beneficio dalle nuove tecnologie.
Di grande interesse è la dinamica storica descritta. Fino agli anni Settanta la popolazione totale in Italia cresceva intorno allo 0,6 per cento l’anno. La popolazione attiva nella fascia d’età 15-74, figlia del baby boom post-bellico, aumentava a un tasso lievemente superiore. Tuttavia, il passaggio dalla settimana lavorativa da 45 a 40 ore e l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne, spesso con contratti part time, riduceva sensibilmente il totale delle ore lavorate annue pro capite; queste ultime, infatti, passavano, in media, da oltre 2.100 dei primi anni Sessanta a 1.850 negli ultimi anni Settanta. Dagli anni Ottanta fino all’inizio del nuovo millennio la società ha beneficiato del cosiddetto dividendo demografico, dovuto all’inizio della fase di ridotta natalità e a un invecchiamento ancora non troppo avanzato; ne è risultata una progressiva decelerazione e poi la stagnazione della popolazione totale, mentre quella in età
lavorativa ha continuato a espandersi. Dai primi anni Duemila fino al 2014 sia la popolazione residente, sia la popolazione in età lavorativa sono tornate a crescere in misura non trascurabile, grazie ai rilevanti afflussi di immigrati regolari. Nell’ultimo decennio la crescita della popolazione ha repentinamente invertito rotta, per avviarsi su un sentiero in flessione che, secondo le proiezioni, dovrebbe proseguire nei prossimi anni. In termini di contributi, la crescita degli occupati e soprattutto quella della produttività totale dei fattori (TFP) hanno sostenuto lo sviluppo italiano fino a tutti gli anni Settanta; in sostanza, la favorevole dinamica demografica non ha spiazzato l’uso di nuove tecnologie, anzi le ha integrate, a un punto tale che è stato possibile ridurre le ore per
addetto negli anni Sessanta e Settanta, grazie ai guadagni di produttività. Dagli anni Ottanta il prodotto potenziale ha mostrato una dinamica estremamente debole, determinata da un contributo marginale, spesso negativo, del fattore lavoro, principalmente conseguenza della riduzione delle ore lavorate a fronte di un numero di occupati quasi sempre in crescita. Negli anni Ottanta ha cominciato a indebolirsi anche la componente di trend della Tfp, seguendo una tendenza che si è acuita in questo millennio, al punto che tra il 2004 e il 2015 il contributo è stato prevalentemente negativo.
La metodologia utilizzata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio permette di proiettare fino al 2034 la dinamica del prodotto potenziale e i contributi delle varie componenti. Nel prossimo quinquennio il prodotto potenziale continuerebbe a espandersi, sebbene a ritmi via via decrescenti; esso sarebbe ancora trainato dal contributo del capitale – che beneficia dello stock accumulato con gli investimenti del Pnrr – oltre che dal contributo dell’occupazione; nonostante la riduzione della popolazione in età di lavoro, a un ritmo costante dal 2014, il contributo del fattore lavoro beneficerebbe di un incremento del tasso di partecipazione di circa 2 punti percentuali nel corso dell’orizzonte di previsione. Proiettando le stime oltre il 2030 si osserva una dinamica sfavorevole del prodotto potenziale, che diventa sostanzialmente nulla negli ultimi anni dell’orizzonte di previsione; l’indebolimento del potenziale deriverebbe principalmente dalla flessione degli occupati, a fronte di contributi delle ore lavorate e dell’accumulazione di capitale pressoché trascurabili; la Tfp migliorerebbe, controbilanciando l’apporto negativo dell’occupazione.