L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 28
Contro l’inserimento posticcio e retorico del Verde: Luciano Pia, architetto-artigiano che lo maneggia come materiale di progetto
Se il cemento armato è stato il materiale del Moderno, oggi il verde è diventato il passepartout dell’architettura contemporanea, l’ornamento più gettonato del XXI secolo, spesso abusato fino all’insignificanza. Non c’è progetto che non lo esibisca, ostenti, impacchetti. Alberi sui tetti, cespugli nei balconi, rampicanti nei cortili. Anche se, nella stragrande maggioranza dei casi, l’inserimento è posticcio, decorativo, un camouflage green che promette una fedeltà ai principi dell’ecologia che non mantiene.
Nel frattempo, le amministrazioni comunali vengono bersagliate per ogni albero mancato. A Roma, la sistemazione di Piazza Augusto Imperatore è stata criticata con toni feroci per aver “dimenticato il verde”, ignorando che nel centro storico piantare alberi significa sfidare stratificazioni archeologiche millenarie.
In questo scenario iper-retorico, dove il verde è diventato la nuova cartina di tornasole della buona architettura, c’è chi, invece, riesce ad andare oltre. A maneggiarlo come materiale di progetto.
Come Luciano Pia, una figura appartata e autentica di architetto che il verde lo inserisce perché lo considera un elemento strutturale, esistenziale.

Pia nasce nel 1960 a Torino. La sua formazione è ibrida: liceo artistico prima, poi facoltà di architettura dove si concentra sugli aspetti tecnici, costruttivi, lontani dalla retorica linguistica del postmodernismo. La vera scuola, però, sarà quella di Andrea Bruno, uno dei restauratori più raffinati della seconda metà del Novecento dal quale si reca nel 1985.
Bruno gli insegna la cura maniacale del dettaglio, l’arte di far dialogare antico e nuovo, artificiale e naturale. Pia assimila e nel 1990 apre il proprio studio.
Lavora in solitaria, come un artigiano medievale – per citare Alberto Bologna che ha scritto su di lui un eccellente profilo recentemente edito da Lettera Ventidue – seguendo ogni fase del progetto, dall’ideazione astratta alla rappresentazione e esecuzione dei dettagli.
Già dagli anni Novanta, Pia si muove in controtendenza. Mentre gli altri flirtano ancora con le estetiche postmoderniste, guarda alla materia. Mentre compongono forme astratte, si interroga su come costruire. Rifiuta il progetto fine a se stesso e l’architettura disegnata. Lavora sulla risposta dei sensi, sul movimento dei corpi, sulla percezione di ciò che ci circonda.
La sua cifra è barocca, nel senso più moderno del termine: ama sorprendere, meravigliare, far vibrare lo spazio. Usa materiali grezzi – cemento armato soprattutto – che piega a una poetica dinamica. Ogni progetto è un sistema articolato di spinte e tensioni, di pieni e vuoti, di luci e ombre. In cui il verde non è un accessorio ma parte costitutiva della struttura formale e quindi dell’insieme nella sua unità.
La prima grande occasione arriva con la Scuola di Biotecnologie dell’Università di Torino, realizzata tra il 2000 e il 2006. Un’opera complessa, raffinata, dove l’ordine razionale dell’impianto a corti si intreccia con geometrie spezzate e volumetrie dinamiche.
Grazie alle bucature, il confine tra interno ed esterno si assottiglia e si confonde. E l’edificio vive di una ambiguità percettiva, in cui il dentro e il fuori si contaminano.
Mentre il verde non è relegato in aiuole ornamentali ma è generosamente inserito nei cortili.
Una lezione di misura e di coraggio, che mostra come si possa integrare natura e architettura dando vita a un nuovo pittoresco urbano.
Il progetto che mostra tutta la maturità del suo approccio è la Casa Hollywood, edificio residenziale torinese che sovverte le regole del costruire speculativo. Mentre la prassi prevede atri minimi e ambienti di distribuzione e di servizio angusti e a volte ciechi, Pia rovescia la logica: l’ingresso assorbe il cortile e diventa un elemento nodale centrale, ampio, una passeggiata architettonica, permeabile al verde, alla luce, alla sorpresa.
La dialettica aperto/chiuso è, infatti, portata all’estremo. L’atrio non è solo un luogo di passaggio, ma uno spazio da vivere, da contemplare. Le piante che vi dimorano sono parte dell’architettura, non un’aggiunta scenografica.
È un edificio residenziale che trasforma l’esperienza dell’abitare.
Il progetto che lo consacra è però il 25 Verde, realizzato a Torino tra il 2007 e il 2012. Un complesso residenziale interamente avvolto da piante, con alberi che crescono da grandi vasi integrati nella struttura.
A differenza del coevo Bosco Verticale, dove l’ordine e la regolarità guidano la composizione, 25 Verde è irregolare, quasi anarchico. Un groviglio controllato. Un organismo vivente. Quando Pia presenta il progetto al Comune, alcuni tecnici pensano a uno scherzo. È strano, audace, tanto da sembrare sbagliato.
Eppure, una volta realizzato, l’edificio sorprende. Visto dal vivo, la sensazione di caos e di arbitrio si dissolve. Tutto si tiene. Le piante, il legno, l’acciaio, il vetro: convivono in un equilibrio nuovo, dove artificio e natura si fondono senza retorica.
Più che il Bosco Verticale, più che i tentativi – spesso decorativi – di Gabetti & Isola o di Emilio Ambasz, 25 Verde è un progetto che mette in crisi la nozione stessa di edificio, che ci racconta che si potrebbe vivere diversamente. Un ambiente poroso, mutevole, dove il verde non maschera, ma costruisce.
Luciano Pia è, senza dubbio, uno dei progettisti italiani più interessanti degli ultimi decenni. Come Stefano Pujatti o Gianluca Peluffo, lavora fuori dal coro, lontano dalle mode di facciata. Ma non senza apprezzamenti che gli vengono sia dall’Accademia che dai suoi colleghi che in lui riconoscono un coraggio e un’ansia sperimentale che a loro spesso manca.
La sua produzione è limitata, anche per una questione di scelte: Pia non è commerciale. Preferisce il controllo totale alla moltiplicazione di incarichi. Punta sullo spazio e non sulla immagine instagrammizzabile. Il risultato è un’architettura che non si capisce nelle fotografie, che va vissuta, attraversata, toccata, un architetto da esperienza diretta e in cui, per di più, serve tempo per coglierne le sfumature. Ma chi lo fa, capisce di trovarsi davanti al lavoro di un poeta che sa costruire, pensare, comunicare emozioni in modo non aggressivo, insomma, di un pacifico avanguardista del nostro tempo.
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