L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 11

Non esiste uno stile Fuksas, al bando formalismo e ripetizione. La prima idea è quella buona, progettare involucri e prospetti rende ostile l’edificio al contesto

La recente autobiografia di Massimiliano Fuksas, edita da Mondadori, è un libro che vi consiglio di leggere. Per tre ragioni. La prima è che non è uno di quei testi soporiferi che girano nel mondo delle pubblicazioni di architettura, ma è una storia ben scritta che si divora in pochi giorni. La seconda ragione è che ci propone una visione chiara e ben definita, un po’ romantica ma, forse proprio per questo, attuale: l’architettura ha a che fare con la vita, non con regole e precetti.

La terza è che ci permette di conoscere alcuni retroscena: tra questi gli incontri e scontri con Francesco Rutelli, con Silvio Berlusconi, con Paolo Baratta. Anche se senza mai cadere nel gossip come capita con altre celebri autobiografie, per esempio quella di Daniel Libeskind, Breaking Ground, che sembrano essere state scritte apposta per levarsi i sassolini dalle scarpe.

25 Mag 2025 di Luigi Prestinenza Puglisi

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Non esiste uno stile Fuksas, al bando formalismo e ripetizione. La prima idea è quella buona, progettare involucri e prospetti rende ostile l’edificio al contesto

Luigi Prestinenza Puglisi

Si tratta di una scelta astuta e avveduta. Fuksas ha fama di essere un personaggio di difficile carattere, sanguigno. La sua autobiografia, serve così ad aggiustare il tiro, a mostrarne il lato umano e generoso, a raccontare una storia dove la fortuna e il caso giocano un ruolo fondamentale (da qui il titolo: È stato un caso) e in cui gli scontri, le tensioni, le avversità sono messe in secondo piano. Scordatevi inoltre di trovare riferimenti, se non fugaci, alla prima moglie Anna Maria Sacconi  e alla seconda moglie Doriana Mandelli e ai quattro figli, pur riconoscendo a Doriana un ruolo importante nella formazione e gestione dello studio, a cominciare dagli anni parigini. I familiari più citati sono il padre come assenza (muore quando l’Architetto ha sei anni) e la madre come presenza, per il suo carattere forte e deciso.

Naturalmente, occorre evitare di credere che il libro racconti solo la verità dei fatti. Come tutte le buone autobiografie, è un racconto di un abile narratore che riesce a dare unità a avvenimenti e episodi tra loro molto diversi, delineando così, anche a costo di qualche forzatura, un personaggio, una direzione chiara, una morale con la quale confrontarci. Del resto, le cose succedono solo fino a un certo punto per caso. E dal caso dipendono più gli insuccessi che i successi, che, invece, vanno pazientemente costruiti.

Quale è questa morale? Proverei a riassumerla in sette punti.

Il primo punto è che tutto è architettura. Nel senso che tutto può contribuire a rendere migliore o peggiore il nostro habitat. Chi si accanisce su una presunta separazione disciplinare, su una ricercata specificità è destinato a fallire. Ogni pretesto, anche una nuvola può, invece, diventare un motivo importante per generare un’opera, aiutandoci a vedere il mondo attraverso nuove prospettive.

Il secondo punto è che l’architettura è strettamente legata all’arte e alla poesia. Fuksas ci racconta, in proposito, quanto queste due discipline siano state importanti per lui. A partire dall’amicizia con il poeta Caproni e dalla frequentazione del pittore Giorgio de Chirico. Inoltre Fuksas sottolinea il fatto che lui stesso si sia sentito più pittore e che la scelta di fare l’architetto sia stata determinata dall’insistenza della madre che non voleva che il figlio diventasse un artista senza arte né parte.

Il terzo punto è che l’architetto deve vivere una vita intensa e impegnata. Occuparsi di questioni sociali, anche a costo di farsi prendere la mano, come per esempio è successo con l’impegno politico durante la stagione del Sessantotto. Se, infatti, non è un sensore della società, difficilmente potrà avere l’ispirazione per progettare spazi che offrano nuovi orizzonti.

Il quarto punto è la condizione nomade. Una condizione che lo ha portato a viaggiare e a fare esperienze di lavoro con i migliori architetti operanti in Europa: dagli Archigram in Inghilterra  a Jørn Utzon in Danimarca. E che infine lo ha portato a Parigi, dove erano presenti maggiori opportunità di lavoro e dove, grazie a una intuizione della moglie Doriana, conosce il direttore della rivista che lo lancerà. In proposito è interessante notare che la Francia ha offerto occasioni di lavoro anche all’altro grande architetto italiano, Renzo Piano. Quasi che sia difficile, se non impossibile, essere profeti in patria.

Il quinto punto è evitare a tutti i costi il formalismo e la ripetizione. Più volte nel libro è sottolineato il fatto che i progetti sono diversi tra loro. Non esiste, insomma, uno stile Fuksas, un insieme di regole che ne caratterizzino l’opera. La regola è, infatti, la negazione dell’arte che è continuo superamento e capacità intuitiva. Fuksas racconta orgogliosamente che in un progetto la sua prima idea è (quasi) sempre quella buona. Ragionare troppo sulle cose vuol dire togliere loro quell’immediatezza che è propria dell’arte. Se, poi, l’idea ha difficoltà a concretizzarsi – aggiunge Fuksas – occorre eliminare dal progetto proprio quella parte a cui ci sentiamo più legati. È là che quasi sempre risiede l’impedimento a procedere.

Infine. non bisogna mai progettare i prospetti, gli involucri: chiudono l’edificio e lo rendono ostile al contesto. Mentre è proprio il rapporto con questo che determina il successo di un edificio.

Il sesto punto è l’etica. La parola è stata usata da Fuksas durante la Biennale del 2000 da lui diretta: Less Aesthetics, More Ethics. Frase male interpretata perché intesa in senso moralistico. L’etica dell’architettura non è l’essere povera e poco costosa, ma è la totale apertura al mondo. E, in questo senso, si contrappone all’estetica che implica, invece, una chiusura disciplinare. Dire apertura al mondo vuol dire fare i conti con il bello e il brutto, l’armonia e la disarmonia, i materiali pregiati e quelli poveri e poverissimi. Insomma con quel caos sublime che Fuksas ha teorizzato come ispiratore di una buona architettura .

Il settimo punto è il montaggio. Se un edificio non è fatto di statici prospetti ma di sezioni, queste dovranno pur essere legate tra loro. Il modo migliore per farlo è ispirarsi al montaggio cinematografico e organizzare la costruzione come una rapida successione di inquadrature.

I sette punti che ho elencato non erano certamente una novità per chi seguiva con interesse l’opera dell’architetto romano. Tuttavia, prima di questo libro non erano mai stati enunciati tutti insieme in forma sistematica, legandoli attraverso un racconto autobiografico.

A chi è particolarmente attento ai dettagli consiglio di osservare la  sovraccoperta. Molto in stile Fuksas: in bianco e nero, con un primissimo piano del volto dell’architetto e il cognome scritto in rilievo. In quarta la scritta “Anche se ancora non lo posso sapere, ho trovato la mia strada. E del tutto a caso. Ma forse il caso è solo un altro nome del destino”. Se, però, togliete la sovraccoperta, troverete una copertina bianca quasi immacolata. Come se ci fossero due anime. Una esplosiva messa in vista e una minimalista più nascosta. Forse, a ben pensarci, è proprio questo dualismo che Fuksas ci vuole comunicare con la sua autobiografia.

Massimiliano Fuksas, È stato un caso, Mondadori, Milano, 2025

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