LE INTERVISTE DEL LUNEDì

Maria Cristina Fregni (Politecnica): “Il progetto di rigenerazione costruisce un’azione corale, non è il gesto estetizzante di un architetto a garantire il successo”

06 Apr 2025 di Giorgio Santilli

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Maria Cristina Fregni (Politecnica): “Il progetto di rigenerazione costruisce un’azione corale, non è il gesto estetizzante di un architetto a garantire il successo”

Uno dei compiti che Diario DIAC si è dato, in quanto giornale della rigenerazione urbana, è di non limitarsi a sostenere questa attività, a premere perché sia definito un quadro di regole stabili e propizio, a raccontare progetti e operatori che vanno in quella direzione, ma anche di contribuire a definire – in un quadro molto confuso – che cosa sia oggi rigenerazione urbana e a selezionare ciò che è buona rigenerazione urbana, individuandone gli aspetti fondamentali, da ciò che non lo è. Di questo parliamo con Maria Cristina Fregni, modenese, laureata in Architettura nel 2000 al Politecnico di Milano dove ha conseguito anche il dottorato in Architettura, Urbanistica e Conservazione dei luoghi dell’abitare e del paesaggio, socio dal 2013 di Politecnica Ingegneria ed Architettura Soc. Coop., in cui oggi è responsabile del gruppo di lavoro di Urban Design and Planning. Si occupa di Masterplanning, processi negoziali di trasformazione territoriale e rigenerazione urbana. Diario DIAC l’ha incontrata la prima volta nell’Atlante Oice sulla rigenerazione urbana in cui ha raccontato tre progetti. L’articolo che abbiamo pubblicato il 31 marzo sull’iniziativa Oice (che si può leggere qui) non ha taciuto il forte apprezzamento per il suo lavoro ed è allora che le abbiamo chiesto questa intervista.

Architetto Fregni, dai dibattiti, dalle rassegne di progetti, dalle leggi in discussione in Parlamento, dai giornali si direbbe che tutti stiamo cercando la nuova rigenerazione urbana, come fosse l’araba fenice. A oggi esiste una nuova filosofia e, soprattutto, esiste una nuova generazione di progetti di rigenerazione urbana?

Direi che una nuova rigenerazione urbana in Italia non esiste ancora. Nel senso che nel panorama italiano viene appellato come rigenerazione un buon progetto che preveda una trasformazione fisica, con edifici nuovi e tanti alberi, su un’area mediamente vasta, non vergine, inserita in un tessuto urbano. Questa è oggi l’immagine diffusa della rigenerazione urbana. Ma i progetti di rigenerazione urbana sono altro. Ne esistono, ma c’è ancora tanto da fare per avere una prima generazione di buoni progetti di rigenerazione urbana.

C’è, quindi, un concetto molto banalizzato di rigenerazione urbana. I suoi progetti, classificati come rigenerazione urbana, lo sono effettivamente?

Tutti i progetti identificati come rigenerazione urbana, i nostri di Politecnica e quelli di altri, in realtà hanno al proprio interno alcuni elementi dei progetti di rigenerazione urbana, quasi mai sviluppati in modo compiuto. Quindi non sono rigenerazione fake, nel senso che si prova a spacciare per rigenerazione tutt’altro, ma sono tentativi di avvicinamento a ciò che dovrebbe essere rigenerazione urbana. Hanno aspetti che rientrano a pieno titolo nella rigenerazione e aspetti di stampo più tradizionale, che non sono propri di questa categoria, se vogliamo fare i puristi della rigenerazione.

Ci fa un esempio di cosa non si può considerare rigenerazione urbana?

La trasformazione edilizia è una possibile componente della rigenerazione urbana, ma non è, di per sé, rigenerazione urbana. La rigenerazione urbana è un processo, non è un fatto autoriale, è un fatto corale che richiede più sguardi, più discipline, più elementi che si intrecciano tutti con pari dignità. I progetti che vengono presentati come rigenerazione urbana vedono spesso nella componente di trasformazione fisica l’elemento preponderante, a volte l’unico. Magari anche molto ben fatti e con una grande attenzione al contesto, ma dove la dimensione fisica e autoriale tende ad essere prevalente. Allora quelli sono buoni progetti che si avvicinano, vanno nella direzione di una rigenerazione urbana, ma non mi sento di dire che siano rigenerazione urbana.

Lei sta andando verso l’obiettivo principale di questa intervista: individuare le componenti fondamentali, costitutive, necessarie della rigenerazione urbana. La coralità è la prima. Quali sono gli altri?

Mi lasci ancora dire che la coralità è fatta dalla necessità per la rigenerazione di intrecciare competenze diverse. Quindi coralità non vuol dire tanti soggetti generici, ma tanti soggetti portatori di uno sguardo specifico sul contesto da rigenerare. Serve la componente tecnica di trasformazione dello spazio fisico, ingegneri, architetti, geologi, esperti di ambiente, di mobilità. Ma servono anche coloro che conoscono e maneggiano la dimensione socio-economica, storici, economisti, sociologi. E servono tutti coloro che sono in grado di mediare e far dialogare le varie istanze, facilitatori, mediatori culturali, soggetti con competenze molto diversificate. Poi in alcune esperienze vedo che è molto interessante lo sguardo dell’arte all’interno dei progetti di rigenerazione urbana, perché a volte l’artista vede opportunità dove il tecnico vede solo problemi. Infine, è importante lo sguardo di chi poi gestirà e si prenderà cura di quegli spazi, di quei luoghi. Lo sguardo delle comunità.

Le comunità o la comunità?

Ci tengo a usare il plurale perché spesso leggo che c’è rigenerazione urbana quando viene coinvolta la comunità, come se un luogo fosse attraversato, vissuto e reso ricco di significato da una comunità omogenea. I luoghi, quando sono vitali, è perché sono in grado di accogliere più comunità, dare risposte a più comunità che possono essere geolocalizzate in quel luogo oppure altrove e in quel luogo trovare un aggregatore o un significante. Quindi, tornando ai requisiti, non c’è rigenerazione se non c’è il coinvolgimento di tutti questi attori. Questo vuol dire, ed è il tassello forte dei processi di rigenerazione urbana, che serve una regìa molto strutturata, molto capace, molto flessibile che sia in grado di trovare un linguaggio comune per tutti questi soggetti, mediare tra le diverse istanze, trovare un equilibrio, portarle a sintesi.

Coralità e regìa forte, ma per fare cosa? Quali sono gli elementi di contenuto della rigenerazione urbana da cui non si può prescindere?

Io parto dall’etimologia delle parole, sono una classicista mancata. Rigenerare vuol dire ricostruire un organismo nelle parti lesionate o mancanti. Rigenerarsi vuol dire riprendersi, recuperare energie. Quindi la prima cosa che fa la rigenerazione urbana è andare in un contesto, agire su un organismo vivente per riattivarne le energie. Può essere rigenerazione urbana un grande progetto di trasformazione fisica degli spazi, ma anche un grande processo di riattivazione di forze economiche e sociali del territorio, con una componente spaziale che si limita a dare un supporto a queste dinamiche, con trasformazioni a volte anche minimali. I progetti che implicano trasformazioni fisiche di grande impatto sono più scenografici, ma non è detto che siano più rilevanti come impatto positivo e duraturo nel tempo. Quindi l’azione vera della rigenerazione è andare a riattivare un luogo per una durata temporale lunga. Il progetto e il processo di rigenerazione urbana non finiscono quando si chiude il cantiere.

Questo della durata degli impatti è un altro discrimine. Il progetto di rigenerazione urbana non si ferma con la fine del cantiere, ma neanche un anno dopo.

Questo è il motivo per il quale difficilmente un buon progetto di rigenerazione urbana può essere affrontato e gestito in autonomia da un tecnico della progettazione architettonica. È da una visione diversa della progettualità che nascono i buoni progetti di rigenerazione urbana. È vero, il progetto è centrale, ma questo è vero se con progetto intendiamo la progettualità, la progettazione e la pianificazione del processo nella sua interezza, l’intreccio di competenze. Aggiungo l’accettazione dell’incertezza e della variabilità, due parametri che camminano di pari passo con la rigenerazione e che tutti i soggetti di natura più tecnica e legati a un’idea più tradizionale di trasformazione dei luoghi fanno molta fatica ad accettare.

Importanza del cronoprogramma, quindi. Ma processo duraturo vuol dire anche capacità di innescare processi ulteriori a intervento già avviato.

Il cronoprogramma è importante, come il quadro conoscitivo di partenza che deve essere costruito al meglio, incrociando tutti questi sguardi diversi. Ma bisogna sempre ricordare che agiamo su un organismo urbano vivo, non andiamo a disegnare una storia su un foglio bianco o a riempire un vuoto. Bisogna accettare che il progetto, per quanto ben pianificato e strutturato, a un certo punto può prendere direzioni inattese o attivare spin off che vanno compresi, gestiti e sostenuti, se ritenuti coerenti con la mission generale. Questo è difficile da accettare per chi fa parte della cabina di regìa ed è abituato a concepire il progetto come un disegno. Spesso noi architetti visualizziamo la trasformazione di un luogo e poi facciamo fatica a fare un passo indietro e a modificare elementi di cui continuiamo a vedere la bontà e l’efficacia, mentre magari la comunità, l’utente finale no. E bisogna avere la forza di cambiare, rinunciare, modificare, adattare pur insistendo sulla qualità.

Torna sempre anche il tema della qualità, oltre che della centralità, del progetto. Ma lei è molto polemica con la qualità che coincide con un ottimo progetto architettonico.

Non credo che la qualità del progetto sia il gesto estetizzante che finisce con il prevalere su tutto. La qualità del progetto per me passa dalle cose che ci siamo detti, cioè dal saper mettere insieme tante istanze diverse. Il bravo architetto progettista è colui che riesce a dare una forma a queste istanze mediando tra le varie voci e dando una propria interpretazione che non è solipsistica, ma riesce a fare un vestito a tutti coloro che hanno da dire qualcosa di valido e coerente con la mission finale. Non so quanti miei colleghi siano d’accordo su questo approccio al progetto. Capisco però anche la frustrazione del progettista che intravede la possibilità di fare un bel progetto – nel senso della bellezza come madre dell’etica e non in senso appunto estetizzante – ma poi si scontra con una serie di norme e balzelli assurdi che vanno a definirti quanto deve essere grande lo sgabuzzino, quanto non può essere grande il terrazzo per ragioni effettivamente poco comprensibili, Quel tipo di frustrazione la capisco e la condivido. Molto più difficile per me da comprendere è l’idea del gesto autoriale dell’uomo illuminato che chiede gli siano messi a disposizione tutti gli aspetti conoscitivi e poi pensa, con la propria visione, di risolve tutto.

Uomo solo al comando contro forza della squadra, molto chiaro. Ma colgo anche un aspetto di genere.

Io vivo la progettazione come un’attività di servizio. Non sto sminuendo me stessa o la categoria, la considero un’attività nobile. Ma se fai una cosa perché ti senti uno strumento della collettività, non cerchi le luci della ribalta o la pubblicazione a tutti i costi e sei pronto a fare anche opere che hanno un impatto percettivo minore, se è quello che quel luogo ti sta chiedendo. In questo forse è vero, c’è una questione di genere. Le donne, per ragioni storico-culturali sbagliate, tendono ad avere un’indole di servizio. Io, poi, vengo dal mondo dell’urbanistica e del paesaggio che sono da sempre considerate discipline per coloro che non sono stati capaci di fare gli architetti. Io invece ne vado fiera. Chiaro?

Chiarissimo. Torniamo ai contenuti della rigenerazione urbana che ha a che fare comunque con spazi, siano edifici, spazi aperti, parchi. Una frase che legge spesso su Diario DIAC è che “il contenuto è diventato più importante del contenitore”. È così?

Questo è un dibattito che, a partire dagli anni 90, ha attraversato tutte le scuole di architettura senza arrivare a una conclusione finale. Io sono una grande sostenitrice della fusione delle dimensioni e diffido di chi viene dal mondo della progettazione architettonica e a un certo punto rifiuta tutto e comincia a dire che il mattone e la trasformazione fisica sono assolutamente secondari, perché quello che conta è il coinvolgimento della comunità e la dimensione soft.

Perché diffida?

Noi esseri umani abbiamo un’anima e un cervello, ma anche un corpo e il nostro corpo entra in relazione con la dimensione fisica dell’ambiente, in modo consapevole o meno, influisce sulla capacità di relazione. Quindi, è vero, il contenitore non è il protagonista, è un supporto ai contenuti, ma, nella rigenerazione, è esso stesso uno stakeholder del processo di rigenerazione perché l’edificio o l’area in cui si va ad agire sono portatori di una propria storia, di una narrazione, di valori che le persone gli hanno attribuito nel tempo. Quindi, in questa visione un po’ più vasta, il contenitore entra come attore all’interno del processo anche se non ne è l’elemento dominante. Dopodiché, quando prevalga il contenuto e quando il contenitore, dipende caso per caso dagli obiettivi, dalle opportunità, dal contesto.

Un altro tema decisivo nei progetti di rigenerazione è il rapporto fra interessi privati e interessi pubblici.

Sono convinta che non possa esistere un processo di rigenerazione se non c’è un partenariato pubblico-privato. Uso questa espressione andando oltre la sfera contrattuale e amministrativa e intendendo, invece, un’efficace interazione e un’alleanza. Non è solo un tema di soldi. Non ci serve il privato perché è quello che investe.

Oppure ci serve il privato perché accelera le procedure, altra cosa che si sente dire spesso.

È una chiave assolutamente limitativa. Pubblico e privato sono, nella realtà, i rappresentanti di quella comunità che dobbiamo coinvolgere, che possono investire nel progetto in senso economico, ideativo, gestionale, di rifunzionalizzazione, di energie da mettere in campo. Ma non c’è dubbio che, se confronto le esperienze italiane con quelle che ho fatto all’estero, da noi c’è qualcosa che non funziona.

Che cosa non funziona?

Dobbiamo uscire da certe dinamiche consolidate secondo cui il pubblico è il burocrate che non sa progettare e il privato è l’investitore che vuole solo il profitto. Se restiamo ancorati a questi bias, non riusciamo ad attivare una relazione efficace. Ci sono dei ruoli da rispettare, non è che tutti fanno tutto. I ruoli devono essere definiti, chiari, ma devono anche essere innovativi rispetto a quanto pubblico e privato hanno fatto finora. Il pubblico deve saper essere proattivo e fidarsi del privato. Il privato deve fidarsi del pubblico e deve capire che ha una responsabilità civica nelle proprie azioni. Questi sono presupposti efficaci per una relazione pubblico-privato. C’è anche da fare una importante riflessione, a livello normativo e disciplinare, su cosa sia il beneficio pubblico che è poi l’obiettivo ultimo della rigenerazione.

Io l’ho portata, con le mie domande, su un livello abbastanza astratto. Poi quando si gestisce un progetto si ha a che fare con interessi, pubblici e privati, molto concreti che pressano, stringono, devono chiudere, rendere conto. Come si conciliano, in concreto, i comportamenti del funzionario pubblico che deve rendere conto ai suoi superiori o alla politica, del progettista che ha una parcella, del costruttore che deve realizzare?

La conciliazione richiede, anzitutto, lo sviluppo di professionalità nuove da entrambe le parti, C’è un tema di competenze sia nel pubblico che nel privato: entrambe le parti devono attrezzarsi con professionalità che sappiano lavorare alla mediazione e trovare la conciliazione fra interessi diversi. Poi, c’è un secondo tema che è temporale.

In che senso?

Dobbiamo imparare a immaginare un processo di rigenerazione urbana che non abbia solo l’esito finale ma che possa contare anche su esiti positivi parziali o temporanei. In questo modo potremmo evitare fenomeni aberranti che recano danno al progetto.

Un esempio di fenomeno aberrante?

Prendiamo la politica. Sappiamo che quello che conta è il taglio del nastro per dimostrare che si sono fatte cose. Questo porta a finire in fretta e furia e male oppure in modo incompleto. Se ci fosse un uso migliore di quel luogo mentre il cantiere va avanti, potremmo avere risultati tangibili intermedi senza dover fare il rush finale che non porta risultati ottimali. Penso, per esempio, allo strumento formidabile degli usi temporanei dei luoghi, che possono dare un segnale di riattivazione di quel bene e al tempo stesso possono raccogliere nuove istanze, nuove idee, nuove energie, nuovi investitori.

Torniamo al rapporto pubblico-privato che è il banco di prova principale di verifica di interessi concreti.

Anche in questo caso faccio un esempio. L’interesse pubblico è spesso che in un progetto di rigenerazione sia prevista una certa quota di residenza. Questo deve essere messo nero su bianco in un masterplan, così come altri aspetti: dove va collocata, che relazione deve avere con lo spazio pubblico, che relazioni architettoniche deve avere con il contesto quanto a materiali e percezioni. Definiti questi aspetti, però, il pubblico deve lasciare che il privato sviluppi il progetto residenziale e decida di quanti metri quadri sono gli appartamenti, che taglio hanno, come sono disposti nella planimetria. Sembra una banalità, ma a volte il pubblico, anche per eccesso di zelo, entra in queste dinamiche che non conosce, prefigura soluzioni che poi diventano vincoli. È il privato che deve fare il privato, è lui che fa l’investimento e conosce il mercato.

Ha accennato al bisogno di nuove professionalità. Come si formano, nell’attività professionale o in quella accademica e formativa?

Quando parlo di professionalità della mediazione parlo anche di mediazione tecnica. Non credo sia necessario inventare professionalità ex-novo, quanto piuttosto ricavare occasioni di formazione all’interno dei percorsi di accademica o esperienze professionali fatte sul campo all’interno di percorsi lavorativi. In ambito accademica bisogna sviluppare anche la capacità di dialogo interdisciplinare. Così come sono fondamentale le professionalità esperte della raccolta di dati preliminari. Si tende sempre più spesso a demandare gli approfondimenti conoscitivi alla fase di progetto successiva. Nella rigenerazione urbana il quadro conoscitivo di tutte le discipline va fatto da subito. Sono così tante le esigenze che un progetto non può che prevenire e provare a mettere sul piatto da subito tutti gli elementi che è possibile raccogliere: rilievi, analisi, elementi conoscitivi di cosa c’è sottoterra. Altrimenti, puoi fare il progetto più bello del mondo, ma rischia di non reggere all’impatto con la realtà.

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