L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 13

Luigi Pellegrin, il genio dimenticato che inseguiva la perfezione della Natura e si scandalizzava degli accostamenti alle furbizie estetizzanti dei decostruttivisti

Luigi Pellegrin è stato uno dei grandi architetti del dopoguerra. Era artisticamente tanto dotato che persino il severo critico Manfredo Tafuri, il quale amava tutt’altro genere di architettura, dovette riconoscerlo. E lo fece individuando in questo “solitario sperimentatore” una  lezione wrightiana addirittura superiore a quella di Carlo Scarpa, perché priva di soluzioni di maniera e mirata alla qualità dello spazio e degli oggetti. Nonostante le numerose opere – edifici, progetti, dipinti, scritti e persino un trattato a schede – che Pellegrin ha prodotto nel corso della sua esistenza, di lui si sta perdendo traccia.

08 Giu 2025 di Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Pellegrin, il genio dimenticato che inseguiva la perfezione della Natura e si scandalizzava degli accostamenti alle furbizie estetizzanti dei decostruttivisti

Luigi Prestinenza Puglisi

Non vi sono libri sulla sua opera, se si esclude una  monografia oramai introvabile, pubblicata nel 2001, poco prima della morte dell’architetto, dall’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia. E nemmeno studi approfonditi sul suo importante contributo a quella scuola romana che negli anni sessanta e settanta era stata una delle più rilevanti fucine di artisti e architetti del Paese.  Una immensa mole di documenti, plastici e disegni, suddivisa tra il Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) di Parma e il MaXXI a Roma attende ancora di essere catalogata e studiata.

Il centenario della nascita (1925-2025) può essere quindi una buona occasione per meglio conoscere questo straordinario personaggio che fu allo stesso tempo un poeta dell’architettura, non meno bravo di Luigi Moretti, Giovanni Michelucci, Leonardo Ricci, e un maestro della prefabbricazione e della industrializzazione in grado di costruire oltre trecento scuole a diverse latitudini di cui numerose in Arabia Saudita addirittura inviando l’intero kit dei componenti edilizi dall’Italia. Le celebrazioni del centenario, coordinate da un profondo conoscitore ed estimatore di Pellegrin, Sergio Bianchi, e da un comitato appositamente costituito, prevedono alcune mostre tra le quali una al MaXXI di Roma e una articolata pubblicazione che raccoglie la gran parte dei progetti.

Personalmente ho avuto la fortuna di conoscere in maniera non superficiale Luigi Pellegrin nel 2000 in quanto ero l’autore di quella monografia promossa dall’Ordine degli Architetti di Roma che ho appena citato. Erano gli anni in cui emergevano nel panorama architettonico internazionale personaggi quali Frank O. Gehry, Zaha Hadid e Rem Koolhaas.  E tutto faceva credere che gli architetti degli anni Sessanta italiani quali appunto Pellegrin (ma potrei citare Maurizio Sacripanti, Francesco Palpacelli, Aldo Loris Rossi, Massimo Pica Ciamarra, Leonardo Ricci, Leonardo Savioli) li avessero anticipati. Penso per esempio al complesso scolastico Marchesi di Pisa che, con la copertura, a forma di piazza inclinata, sarebbe potuta essere un edificio di Rem Koolhaas o della prima Zaha Hadid.

Luigi Pellegrin, quando accennavo a questa parentela formale, cambiava discorso. Fino a che un giorno decise di prendermi di petto per mostrami che si trattava, a suo giudizio, di un accostamento superficiale, se non offensivo. Mi fece vedere un documentario di National Geographic sui modi di vita delle popolazioni primitive ai quali si ispirava. Per farmi comprendere che per lui la progettazione era un modo di tornare indietro a un passato più vicino alla Natura di cui occorreva carpire i segreti. E che la forma non poteva essere, come in Gehry e soci, un gioco estetico ma doveva rappresentare una soluzione, anzi la soluzione. Un osso o una foglia, mi spiegò, hanno una geometria complessa non perché alla Natura piace giocare ma perché quella forma è la migliore risposta al problema. Da qui l’interesse di Pellegrin per l’architettura organica e per le ricerche più avanzate nel campo del calcolo delle strutture. Tra queste quelle del suo amico Sergio Musmeci che ideava magnifici organismi come il Ponte sul Basento o il il Ponte sullo Stretto di Messina. Tutti progettati seguendo il principio del minimo strutturale, esattamente come faceva Madre Natura. L’ immagine inconsueta di questi manufatti non era dunque il risultato di una ricerca di spazialità originali ma di forme originarie.

Ecco perché Pellegrin il decostruttivismo non lo voleva neanche sentire nominare. Lo vedeva come una moda, un formalismo. E non riusciva a capire perché Bruno Zevi, uno dei pochi critici che lui stimava, si era infatuato di questo movimento vuoto ed estetizzante. Proprio quel Bruno Zevi che, quando Pellegrin era giovane, lo aveva supportato, pubblicando sulla rivista Architettura, cronache e storia i suoi principali progetti. Pellegrin insomma non poteva essere un decostruttivista ma, semmai, era un costruttivista, uno che carpiva i segreti al Cosmo, per costruire in base ai suoi più razionali presupposti.  Conseguentemente l’architetto, se non proprio un Dio, diventa un suo facente funzione, un demiurgo responsabile della perfezione del Creato. Per il quale la stessa ricerca del piacevole passa in secondo ordine. E così, nonostante Pellegrin fosse straordinariamente dotato nel progettare magnifici edifici organici e ville che avrebbero suscitato l’ammirazione dello stesso Wright, si dedica per un lungo tempo della sua carriera a immaginare l’utopia, senza timore di essere emarginato o considerato come un sognatore da una categoria, come quella degli architetti, ammalata di compiacimento formale. Da qui la progettazione di giganteschi falansteri in cui i bisogni dell’uomo reale e concreto passano in secondo piano rispetto a una più alta esigenza di ordine e di aderenza alle leggi del cosmo. Leggi le quali, lo ricordiamo, vanno ben oltre i desideri dei singoli.

Una visione autoritaria che lo portava a competere con i giganteschi formicai di Paolo Soleri o le mastodontiche città mobili degli Archigram. E che noi oggi vediamo con sospetto e distacco perché, invece, crediamo nell’importanza dell’individuo e della sua priorità rispetto al collettivo. E non riusciamo certo ad immaginare che ognuno debba vivere come un’ape nell’alveare.

Dicevamo che Pellegrin per la sua utopia è disposto a rinunciare alla sua bravura. Ma solo nel senso che evita di perdersi nella trappola della bella scrittura, nel bel dettaglio, nell’esecuzione affettata.

Nei suoi progetti visionari vi è sempre una tensione estetica tra il rigore dell’idea e la visione fantastica di habitat meravigliosi che letteralmente volano sopra al terreno, per non sprecarlo.

Progetti la cui carica ideale è bilanciata da una profonda padronanza tecnologica ed ingegneristica: come dimostrano i numerosi sistemi costruttivi che brevettò nel corso della sua vita. Con un bisogno di realismo che lo porta persino a scrivere un trattato dal titolo “Luigi Pellegrin, un percorso nel potenziare il mestiere del costruire” per spiegare che la sua utopia è costruibile, e che i suoi progetti sono disegnati e pensati sino al particolare della vite.

L’utopia, non finiva di ripetere, si può realizzare. Rifiutandosi di accettare la astuzia dei decostruttivisti che era, invece, proprio quella di evocarla a parole ma poi realizzarla solo come forma superficiale, come puro gioco, ben attenti a non mettere mai in discussione la realtà del mondo.

 

 

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