L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 4
L’AI nella progettazione architettonica ci porterà a città frutto della sovrapposizione incontrollata di immaginari individuali?
Diamo per scontato che gli edifici siano progettati dagli architetti o, comunque, da professionisti specializzati per rispondere a bisogni umani oramai abbastanza consolidati: abitare, lavorare, godere del tempo libero. Con l’avvento dell’intelligenza artificiale (AI), non ne saremo più certi.
Che gli edifici siano progettati dagli architetti o da professionisti probabilmente varrà ancora per pochi anni. Dobbiamo prevedere, infatti, che la AI assumerà un ruolo sempre più importante nel processo progettuale sino a porre i progettisti in una posizione marginale.
Che la progettazione sarà centrata sui bisogni dell’uomo varrà anch’essa ancora per poco. Infatti dobbiamo cominciare a pensare che si estenderà l’utenza. E accanto a noi ci saranno gli androidi. Una nuova specie che abiterà nel pianeta determinando rilevanti cambiamenti del nostro modo di vita. E che, conseguentemente, porteranno alla richiesta di nuove configurazioni edilizie ed urbane.

Luigi Prestinenza Puglisi
Per quanto riguarda il primo aspetto, che concerne la produzione dell’oggetto architettonico, dobbiamo immaginare che la progettazione sarà in gran parte delegata alla AI e non solo per le parti più ripetitive, quali relazioni e computi metrici. È stupefacente, infatti, vedere con quanta velocità e facilità i computer appositamente addestrati sappiano districarsi tra dati e norme tecniche, anche quelle deliranti italiane. È prevedibile che con altrettanta velocità risolvano altre e più complesse questioni, compreso il disegno degli spazi e la scelta dei materiali.
L’apporto dell’AI non sarà solo strumentale, un mezzo in più per farci progettare meglio.
Come già negli anni Sessanta aveva notato Marshall McLuhan, ogni medium influenza il nostro modo di vedere la realtà e di progettarla.
Possiamo in proposito fare tre osservazioni. La prima é che la AI ha una capacità sorprendente di lavorare per metafore. Riesce a individuarle anche dove noi facciamo difficoltà e riesce a rappresentarle in spazi tridimensionali. La seconda osservazione è che il computer gestisce perfettamente i parametri e sa metterli in relazione con le forme. Diventa quindi facile costruire volumi o spazi che variano in relazione alle condizioni ambientali, ai costi o a qualsiasi altro parametro si scelga. La terza osservazione è che, attraverso macchine a controllo numerico, è abbastanza semplice ed economico realizzare componenti edilizi con forme geometriche complesse, per esempio quelle rispondenti a logiche parametriche di cui al punto precedente.
Un po’ come è già successo all’industria, si pensi per esempio alle automobili in cui la carrozzeria è oggi divisa in tante parti facilmente realizzabili e sostituibili. Prima, se si ammaccava il paraurti, si andava dal carrozziere che doveva fare un intervento complesso, compresa stuccatura e verniciatura. Oggi lo si smonta, lo si butta e lo si sostituisce in pochi minuti con uno nuovo che potrebbe essere stampato all’occorrenza con una macchina a controllo numerico, eliminando così il magazzino.
Con la diffusione e lo sviluppo della AI diventeremo tutti metaforici alla maniera di Steven Holl? Oppure, diventeremo tutti parametrici alla maniera di Patrick Schumacher? E, infine, cercheremo di organizzare la costruzione degli edifici in funzione dell’ottimizzazione dell’output delle macchine a controllo numerico?
Non lo sappiamo, perché, come sempre succede quando si aprono nuovi scenari, scopriremo anche altre strade inaspettate e originali.
Ma il punto è: fino a che punto sarà la AI a progettare? A decidere la forma del progetto chi sarà? Sarei tentato di rispondere: saremo noi. Vedo, però, che le immagini generate con la AI sono sempre meno del progettista e sempre più della macchina: sempre più accattivanti e precise e disponibili in molte varianti. E la velocità con la quale il mezzo evolve è sorprendente. Credo che in un paio di anni al massimo sarà prassi diffusa chiedere alla AI di fare il progetto in un certo modo in un certo stile (che potrebbe essere anche il nostro). Di mostrarcelo con immagini fotorealistiche. E, una volta accettato, di passare a progetti esecutivi rispettosi di normative e vincoli esistenti. Per arrivare, infine, alla costruzione anche attraverso apposite stampanti tridimensionali.
Certamente resterà il controllo dell’architetto che selezionerà le forme e direzionerà il processo.
Almeno per un po’ di tempo.
Anche se la tecnologia, in linea teorica, con il passare degli anni, potrebbe rendersi sostanzialmente autonoma una volta che le siano delegati i rapporti con il cliente e le scelte tra le opzioni diverse.
È uno scenario questo inquietante perché una cosa è pensare che la tecnologia possa essere direzionata da uno specialista, un’altra è che sia indipendente e possa procedere autonomamente mettendo in crisi il sistema di controllo, dialogo e verifica che sinora proprio le figure professionali hanno garantito.
Nel campo della medicina, dove si registrano problematiche analoghe, questo vorrebbe per esempio dire che i pazienti potranno, in linea teorica, curarsi da sé facendo a meno dei dottori. D’altronde la domanda è: se il medico per capire il mio problema si rivolge alla AI, perché non dovrei farlo io direttamente?
Nel campo del design il cliente, evitando l’architetto e senza ricorrere a figure specializzate, può progettare il proprio habitat. Il problema non è solamente tecnico (cioè relativo al come si fanno le cose, garantendo il rispetto di standard in primo luogo di sicurezza) ma concettuale: per un buon progetto occorre avere un bagaglio di cultura estetica e formale. Il pericolo può essere infatti l’anarchia delle scelte progettuali, di città frutto della sovrapposizione incontrollata di immaginari individuali, da una miriade di soggetti ciascuno dei quali procede da solo supportato dalla propria AI.
Si tratta di uno scenario probabilmente eccessivo e catastrofista. Ed è parimenti ipotizzabile che, alla fine, prevarrà il buon senso. Anche perché la stessa AI può servire a livello pubblico per favorire scelte che, invece di andare in direzione individualistica, rispettino criteri generali, rendendo più effettiva la pianificazione del territorio.
Tuttavia, occorre notare che l’elettronica ricorre a un concetto di ordine diverso da quello al quale siamo abituati. È l’esempio, che ripeto spesso, del car sharing. Se la posizione delle auto è monitorata elettronicamente, un certo caos può essere utile per trovarne una a me vicina. Similmente un navigatore come Google Map mi permette, dato un sistema di strade, di ottimizzare il percorso in relazione al traffico effettivo. Insomma, l’ordine non lo si cerca nella forma dello spazio ma nel comportamento del sistema. E si lavora sulla plasticità del software più che sulla geometria dell’hardware.
Prima ancora che la AI sia in grado di progettare o riorganizzare la città del futuro facendo a meno degli architetti, occorre premettere che, comunque vadano le cose, la AI cambierà il nostro modo di utilizzare le città. Le rivoluzioni tecnologiche infatti ci costringono a vivere secondo direzioni insieme impreviste e obbligate. Pensate per esempio all’introduzione delle carte di credito e dei bancomat. Hanno cambiato le nostre relazioni spaziali. Dalla forma e ubicazione delle localizzazioni degli sportelli delle banche al boom del commercio in rete e delle vendite per posta. Non sarebbe esagerato dire che la chiusura di molti negozi e la loro trasformazione in altre attività è legata proprio a queste tessere di plastica.
Tutto questo indipendentemente da quello che progettano urbanisti e architetti, dal fatto che in uno studio di architettura a disegnare il progetto sia un progettista umano o digitale.
Possiamo a questo punto porci la domanda. Cosa cambierà a livello urbano con la crescente diffusione della AI?
La risposta più inquietante è che cambierà quello che sta già cambiando e cioè la progressiva eliminazione del lavoro umano. Già oggi i taxi di Dubai e le metropolitane di alcune linee delle principali città sono guidate dalla AI. Le fabbriche ricorrono a robot soprattutto per le lavorazioni più pericolose. I sistemi di risposta e prenotazione sono automatici: ci sembra di parlare con una persona e invece è un algoritmo. Non ci vuole molta preveggenza ad immaginare che gli automi ci sostituiranno nella maggior parte dei lavori. Forse anche nella gestione dei sentimenti, come racconta efficacemente Her, un film del 2013 scritto e diretto da Spike Jonze. Ci saranno automi badanti, automi militari, automi poliziotti, automi metalmeccanici, automi tutor. Saranno intelligenti, sapranno volare, processeranno in pochi istanti milioni di dati, avranno il coraggio che noi non abbiamo per affrontare i pericoli. Potranno anche essere programmati per fare i delinquenti. Forse i mafiosi saranno circondati da una cinquantina di automi picciotti. I problemi che genererà un così radicale cambiamento non riusciamo a immaginarli tutti e in dettaglio.
Certo è che si lavorerà di meno. O forse diversamente perché, a dire il vero, vedo che tutte le tecnologie che ci hanno promesso di renderci la vita più facile, alla fine ce la hanno complicata perché richiedono maggiore controllo e precisione (prima, per esempio, si scriveva una brutta e poi si faceva una bella copia e basta, mentre oggi un articolo scritto al computer lo si volta, rivolta, lo si legge e corregge mille volte. Insomma ci prende più tempo, promettendoci in cambio maggiore accuratezza e qualità). In ogni caso, avremo sempre più tempo libero o magari quelle nuove forme di tempo libero in cui si lavora rispondendo al telefono o all’e-mail. E che dedicheremo alla cura, alla salute e alla bellezza del corpo.
Faremo, insomma, come gli antichi romani che delegavano il lavoro agli schiavi e la guerra ai mercenari e andavano alle terme ( in realtà non era proprio così, ma spero abbiate capito lo stesso cosa intendo dire).
Vivremo, conseguentemente, in città sempre di più organizzate su questo sia pur sui generis tempo libero, diverse da quelle attuali che sono pensate, invece, per accentrare il lavoro. Si pensi per esempio alle downtown delle città americane.
Dobbiamo, a questo punto, evidenziare un possibile equivoco: non è detto che le città del futuro debbano avere una immagine fantascientifica, assomigliare a grandi astronavi un po’ come immaginavano gli architetti degli anni sessanta e settanta: pensiamo per esempio agli Archigram in Inghilterra o ai metabolisti giapponesi.
Non è assolutamente detto. Anche perché oramai abbiamo capito che la tecnologia ha velocità diverse. La casa invecchia più lentamente di una automobile o di un computer. Se ha forme troppo avveniristiche, nel giro di una decina di anni tende a diventare obsoleta e non la si può sostituire facilmente come si fa per un telefonino.
Inoltre, mentre a un dispositivo portatile poniamo domande tecnologiche avanzate, in un ambiente domestico cerchiamo tranquillità, protezione e un minimo rapporto con la natura. E, forse, una certa opacità rispetto alla trasparenza dell’elettronica che mette costantemente in crisi la nostra privacy.
Motivo per il quale le città con buona probabilità eviteranno effetti da fantascienza tranne in qualche quartiere o area con destinazione diversa da quella residenziale.
Per gli stessi motivi credo che la gran parte delle costruzioni saranno realizzate con materiali dall’apparenza solida e durevole. Per compensare il senso di precarietà che l’elettronica comunica. E che all’High Tech si preferirà l’High Touch.
La crescente globalizzazione, che tecnologie come la AI favoriranno, non porterà a luoghi tutti uguali ma all’esaltazione della diversità e del caso particolare. Nessuno, infatti, vuole vivere in un mondo senza sorprese. E la tradizione, il fatto a mano, l’artigianalità saranno valorizzati, anche per generare plusvalore e venderli ad alto prezzo. In questo panorama globalizzato, l’Italia, con la sua capacità di produrre qualità, continuerà ad avere un ruolo non irrilevante.
La disponibilità di automi a buon mercato cambierà probabilmente il modo in cui sono organizzati gli spazi del lavoro e delle abitazioni. Nei primi si registrerà una diminuzione degli standard spaziali. Non serviranno più le decine di metri quadri ad addetto che oggi si richiedono e probabilmente non serviranno più alcuni standard di aerazione e illuminazione oggi pensati per gli umani. Mentre nelle abitazioni l’introduzione degli automi provocherà cambiamenti di distribuzione degli ambienti di portata simile a quelli che si registrarono nella metà del novecento a seguito dell’introduzione degli elettrodomestici. Per esempio nella forma e localizzazione della cucina e degli spazi di servizio.
O forse no. Dico “forse no” perché la gran parte delle previsioni di coloro che nel passato hanno voluto interpretare i segni dei tempi si sono rivelate sbagliate. Il futuro ha sempre delle sue astuzie che a noi, abitatori del passato, sfuggono. Ma una cosa comunque sappiamo per certa: se non riusciremo a farcela alleata, la AI sarà la concorrente che ci manderà a gambe in aria.
Leggi gli altri articoli della rubrica "L'Architettura vista da LPP"