La forzatura sui subappalti senza un disegno industriale distrugge il sistema e non aiuta le piccole imprese
Abbiamo scritto, a più riprese, che il correttivo del codice appalti è un buon provvedimento e che il codice esce rafforzato dal correttivo, che agisce in continuità, risolvendo i due problemi più seri (equo canone e revisione prezzi per i lavori) e modificando con il cacciavite molti aspetti di funzionamento del sistema. Una valutazione guidata, come sempre, dai dati di fatto, fuori da qualunque pregiudizio politico.
Confermiamo quella valutazione. E in nome dello stesso pragmatismo apprezziamo le analisi svolte la scorsa settimana dai due “padri” del codice: il ministro Salvini e il coordinatore della commissione del Consiglio di Stato che elaborò il primo testo, Luigi Carbone (si veda l’articolo su Diario DIAC del 12 febbraio scorso).
Non apprezziamo, però, quella che appare come una deriva oltranzista di queste analisi che si può riassumere nel motto “blindare il codice”. Carbone lo ha detto esplicitamente al convegno Assorup, Salvini lo ha detto con i fatti bloccando tutti gli emendamenti al decreto Milleproroghe che intervenivano su norme del codice.
Il correttivo è complessivamente buono, ma non è esente da errori, anche gravi, che rischiano di fare danni seri se non si interviene a correggerli. Tralasciamo qui il tema molto complesso del partenariato pubblico-privato, su cui torneremo, e quello sulla revisione prezzi per forniture e servizi che ha il veto del Mef: concentriamoci invece sui certificati di esecuzione lavori nel subappalto.
Bisogna dare atto all’ANCE di aver suonato, anche questa volta, l’allarme per prima. Ma come avevamo detto e scritto già per gli aggiustamenti necessari alla revisione prezzi, il punto di vista da cui ragioniamo non è quello degli interessi “particolari” dei costruttori, ma quello degli interessi generali del Paese a creare un sistema industriale e una capacità di fare investimenti pubblici efficienti.
Dicemmo e scrivemmo che la revisione prezzi era la riforma più importante contenuta nel codice 36, non tanto e non solo perché le imprese appaltatrici recuperavano i margini persi con l’inflazione; ma perché solo una disciplina dell’esecuzione dei contratti di appalto capace di prevenire i problemi, anziché crearli, avrebbe sbloccato un sistema bloccato, rigido, di contrapposizione anziché di collaborazione fra committente e appaltatore. Fludificare il sistema è un mantra che non vale solo per la fase di gara, tanto cara al ministro Salvini. Deve valere anche per una fase di esecuzione che – ricordiamo dati ufficiali – mediamente richiede quindici anni per le grandi opere. Fluidificare una fase di sei mesi per arroccarsi su una di quindici anni non funziona proprio.
Sulla revisione prezzi il correttivo ha fatto un ottimo lavoro in questa logica di interesse generale. Anche per le varianti, il correttivo ha introdotto un elemento di flessibilità e buon senso, allentando la rigidità che si era venuta a creare per le varianti derivanti da fatti imprevedibili (buon senso significa anche che non sarà più necessario intervenire con norme ad hoc su singole opere o appaltatori come era successo con il Terzo valico). Di più non ha concesso.
Sia chiaro, però: né con la revisione prezzi né con le varianti in corso d’opera si deve e si può tornare all’uso spregiudicato che si è visto negli anni ’80 e inizio ’90. Occorre monitorare, vigilare, valutare se i nuovi sistemi funzionano e se ci sono correzioni da apportare in un senso o nell’altro. L’Anac dovrà fare la sua parte, con analisi puntuali. La politica dovrà ragionare sui dati. Si è fatto il correttivo, ma un rapporto complessivo su come ha funzionato il codice 36 non si è ancora visto.
Ma torniamo alla certificazione di esecuzione lavori nei subappalti. Si è passati repentinamente da un sistema che premiava eccessivamente gli appaltatori – anche se dobbiamo dire che non siamo più ai tempi delle scatole vuote che pure imperversavano negli anni ’80 – a un sistema a senso unico che premia solo i subappaltatori ed esclude gli appaltatori da qualunque riconoscimento del lavoro svolto. Non ci sono solo i profili di illegittimità europea e costituzionale che l’Ance ha sollevato e che sono collegati al fatto che l’appaltatore garantisce una regia, un coordinamento, un sistema di garanzie e comunque mantiene la responsabilità dell’appalto. C’è un tema industriale che è ancora più delicato. Sappiamo da anni – e anche dai molti tentativi falliti di riformarlo e ridimensionarlo – che i subappalti costituiscono un ganglio vitale del sistema – fisiologico sia per gli appaltatori che per i subappaltatori – e al tempo stesso ne sono stati spesso un elemento distorsivo, un freno a un’evoluzione nel senso di una maggiore strutturazione e di una crescita delle piccole imprese.
Il ministro Salvini – non sappiamo se di suo spontaneo ragionamento o su suggerimento di qualcuno – deve aver pensato proprio di difendere le piccole imprese subappaltatrici, ponendo il problema di un maggiore riconoscimento del lavoro che svolgono e di possibilità di scalare più facilmente le “classifiche” della qualificazione. Anche il riconoscimento della revisione prezzi ai subappaltatori va in quella direzione.
Non sappiamo se è il momento giusto per proporre queste soluzioni – quando è evidente che l’Italia oggi ha un problema enorme non ai piani bassi ma ai piani alti del sistema imprenditoriale e ancora di più ha il problema decisivo di far crescere un gruppo di medie imprese per farle diventare grandi e superare un regime di quasi-monopolio che è un elemento di fragilità del sistema – ma il ministro Salvini lo ha comunque voluto porre, atteggiamento legittimo per un ministro, che non può essere ignorato e va affrontato, magari tenendo insieme le due questioni, la spinta a una crescita più strutturata delle piccole imprese e la spinta alle medie imprese a diventare grandi.
La questione però è un’altra. Che Salvini non ha apertto un ragionamento complessivo di tipo industriale ma si è limitato a gettare il sasso nello stagno, anzi ha tirato una pietra enorme che rischia di mandare in pezzi il sistema. Azzerare la certificazione riconosciuta agli appaltatori significa mettere granelli di sabbia negli ingranaggi. Fra le imprese appaltatrici si ragiona già su come evitare il subappalto utilizzando sistemi alternativi “border line”, come i distacchi, per eseguire l’opera in proprio senza subappaltare.
Il vero rischio della norma del correttivo difesa da Salvini è che si mandi in frantumi anche quanto c’è di fisiologico nel subappalto. E l’altra norma del correttivo che elimina il “subappalto necessario” sembra prefigurare una battaglia ideologica che si sa dove comincia ma non si dove finisce.
L’auspicio è quindi che si superino le guerre di religione al grido “il correttivo non si tocca” e si apra invece un dibattito trasparente su quale evoluzione industriale si vuole favorire nel sistema, anche con un maggiore riconoscimento alle piccole imprese e ai subappaltatori. Serve un disegno industriale, atteso da anni, non serve sfasciare tutto. Perché sfasciare tutto non aiuterebbe neanche le centinaia di migliaia di piccole imprese che vivono di subappalti.