MATERIE PRIME CRITICHE

Iren-Ambrosetti: 1,2mld per non DIPENDERE più dall’estero

Urso: “L’Italia è seconda solo alla Germania per contributo delle Mpc alla produzione industriale ma ora diventa prioritario mappare i fabbisogni nazionali”. Le quattro vie da seguire: esplorazione mineraria; partnership con i Paesi africani; raffinazione e trattamento; recupero delle materiali e utilizzo delle materie prime seconde nelle produzioni industriali

04 Nov 2024 di Mauro Giansante

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Con 1,2 miliardi di euro di investimenti, l’Italia può ridurre la dipendenza dall’estero per le materie prime critiche di quasi un terzo generando oltre 6 miliardi di euro di valore aggiunto per la filiera al 2040. Numeri grandi per una grande sfida che riguarda l’Italia e più nel complesso tutta l’Europa nel confronto con Stati Uniti e Cina. A metterli in fila in un nuovo studio sono stati il Gruppo Iren e il centro studi The European House – Ambrosetti (Teha).

Il tema è caldo da anni, oggi è bollente nel contesto della transizione verde e blu (ambientale e digitale) e delle sfide geopolitiche e tecnologiche. L’Italia e l’Europa rincorrono i grandi del mondo sui binari della competitività industriale: quindi, della ricerca e della produzione, del commercio. La Cina produce il 56% delle materie prime critiche importate in Ue, ricordano Iren e Teha. Da qui, il gap di investimenti tra Europa e il Dragone è enorme: 2,7 miliardi di euro di investimenti nel Vecchio Continente contro i 14,7 miliardi della Repubblica popolare (dati riferiti al 2023). Eppure, soltanto in Italia le materie prime critiche sono già oggi un elemento chiave per la competitività nazionale contribuendo a 690 miliardi di euro di produzione industriale del Paese, pari al 32% del Pil nazionale. La più alta incidenza sul prodotto interno lordo rispetto agli altri Paesi. Un altro dato interessante snocciolato dallo studio è quello della crescita del 51% del contributo delle materie prime critiche alla produzione industriale in Italia negli ultimi 5 anni. Come valorizzarlo? Per esempio, percorrendo la strada del recupero dei materiali elettronici (i cosiddetti Raee). Che in Europa ammontano a 16,2kg per cittadino ma che in Italia pecca per cattiva gestione del 70% dei raccolti data la mancanza di centri di raccolta e di una cultura civile avanzata sul tema. Ma più in generale sono quattro le direzioni da intraprendere, secondo la ricerca: l’esplorazione mineraria, le partnership con i Paesi africani, la raffinazione e trattamento e infine, come già evidenziato, il recupero delle materiali e utilizzo delle materie prime seconde nelle produzioni industriali.

Secondo altri numeri forniti ieri, poi, un altro propulsore di sviluppo per l’economia circolare è l’utilizzo delle materie prime seconde nelle produzioni industriali. Su questo, l’Italia perde ogni anno più di 1,6 miliardi di euro di Mpc destinate all’industria. Nel periodo compreso tra 2018 e 2022, il valore di export delle materie prime seconde è cresciuto del 75% a fronte di un aumento limitato dei volumi importati (+13%). Oltre, però, al tema gestionale dei processi ce n’è anche uno infrastrutturale. Oggi, il 90% delle componenti dei Raee da cui estrarre materie prime critiche viene esportato ma da noi solo 47 impianti su 1.071 risultano accreditati, pari al 4,3%. “Nei prossimi anni, lo sviluppo di filiere domestiche per la transizione energetica aumenterà il fabbisogno italiano di materie prime grezze del 320%, evidenziando la necessità per l’Italia di valorizzare fin da subito il potenziale contributo dell’Economia Circolare”, ha fatto notare Valerio De Molli, Managing Partner & Ceo di The European House – Ambrosetti e Teha Group. Il ministro Adolfo Urso, intervenuto in video-messaggio, ha ricordato invece che “l’Italia è seconda solo alla Germania per contributo delle Mpc alla produzione industriale, con un’incidenza rispetto al Pil che è aumentata di oltre il 50% in soli 5 anni: questi pochi dati sono già sufficienti per giustificare la grande attenzione che meritano nelle analisi e nelle policy nazionali ed europee”. Ecco perché serve “mappare i fabbisogni nazionali, con un’analisi sia macro che riferita alle imprese strategiche. Un lavoro di approfondimento che porterà a orientare le politiche di approvvigionamento, anche ricorrendo al Fondo Nazionale Made in Italy”.

 

 

 

 

 

 

 

 

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