L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 15
I disastri delle Archistar sui monumenti storici raccontano la pochezza dei loro interventi, non l’inopportunità di intervenire. Tre condizioni
Sono passati oramai quasi venti anni dal settembre del 2005, quando trentacinque accademici, scrivono un appello diretto al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, alle Istituzioni e ai Ministeri competenti. L’ appello è pubblicato sul Corriere della Sera accompagnato da un articolo di Pierluigi Panza.
“L’architettura italiana – sostengono i trentacinque professori – attraversa una situazione drammatica. Mentre in altre nazioni europee, in particolare in Francia, in Germania, in Spagna, negli ultimi decenni sono state realizzate grandi opere di interesse sociale che hanno trasformato sensibilmente l’ambiente urbano mettendo a disposizione dei cittadini nuovi servizi che esprimono lo spirito del nostro tempo, in Italia iniziative del genere si contano sulle dita, mancano di una meditata programmazione e si devono quasi sempre all’intervento di architetti stranieri. Nel riconoscere il carattere positivo dell’apporto di forze culturali esterne non si può fare a meno di notare che una delle ragioni della preferenza loro accordata si deve alle realizzazioni compiute, realizzazioni per le quali in Italia sono mancate le premesse concrete, con la conseguenza di aver privato gli architetti italiani di quelle occasioni di lavoro che avrebbero permesso loro di offrire un contributo originale all’attuale stagione di rinnovamento della architettura”.

Luigi Prestinenza Puglisi

Il tono è pacato. L’appello è però interpretato come come una chiamata alle armi dell’accademia contro l’invasione straniera. E difatti il titolo dell’articolo del Corsera è: Architetti in rivolta. Invasi da progettisti stranieri. Tra i firmatari Augusto Romano Burelli, Francesco Cellini, Claudio D’Amato Gurrieri, Paolo Marconi, Antonio Monestiroli, Carlo Olmo, Franco Purini, Laura Thermes, Franz Prati, Vittorio Gregotti, Paolo Zermani, Marco Casamonti, Manfredi Nicoletti, Renato Nicolini, Ettore Sottsass.
A generare il malumore ha contribuito il concorso svoltosi l’anno prima (2004) per l’ex area fieristica milanese dove vince un progetto che coinvolge Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid. La forma del quartiere risponde a modelli nordamericani ed è lontana dalla tradizionale architettura milanese. Ciò che indigna la sia pur variegata comunità accademica italiana sono le linee bislacche delle tre torri presto soprannominate il Dritto (Isozaki), il Curvo (Libeskind) e lo Storto (Hadid). CityLife diventa un caso. Ma, sia pure con tempi lunghi, l’opera è realizzata, diventando un landmark di Milano. Probabilmente non sarebbe avvenuto se il progetto non fosse stato affidato a architetti celebri. I quali vengono d’ora in poi chiamati in tutta Italia con sempre maggiore frequenza per far passare ampi piani di edilizia speculativa o per ottenere con più facilità le autorizzazioni per intervenire in contesti anche molto delicati. Inizia l’epoca delle archistar. Una stagione che, vista retrospettivamente, ha portato l’architettura italiana a una certa anarchia formale ma anche notevoli benefici, svecchiandola e costringendola ad aggiornarsi.
Se questa considerazione vale per il nuovo, non si può estendere agli interventi che interessano aree e edifici di particolare valore storico e architettonico. Un campo questo dove gli architetti stranieri non sono particolarmente attrezzati e in cui, invece, la cultura architettonica italiana ha un indubbio primato. Basti pensare al magistero di personaggi quali Carlo Scarpa, Franco Albini, BBPR, Ignazio Gardella, Guido Canali, solo per citarne alcuni. E alla cultura delle Sovrintendenze e degli organismi preposti alla tutela del nostro patrimonio storico. Cultura che se ha dei risvolti eccessivi – pensiamo per esempio alle posizioni a volte ridicole prese da personaggi quali Vittorio Sgarbi, Salvatore Settis, Tomaso Montanari o da associazioni quali Italia Nostra – ha il merito di impedire operazioni avventate che potrebbero compromettere un patrimonio di valore inestimabile come il nostro.
Il libro di Cesare Feiffer, Il Monumento storico e l’archistar. Dramma in tre atti, affronta criticamente questa incapacità, quasi congenita negli architetti stranieri (ma anche in alcuni famosi italiani), di saper intervenire sul costruito, soprattutto se di valore storico e artistico. Il guaio nasce con la voglia di essere creativi, di operare non come restauratori, ma come architetti moderni che vogliono imporre la propria cultura tecnica e artistica a beni che invece hanno valore perché conservano gelosamente la propria.
Tra le opere realizzate in Italia da archistar e da segnalare per il loro infelicissimo approccio, Feiffer ne individua quattro.
La prima è l’intervento alle Procuratie Vecchie di Venezia di David Cipperlfield. Un restauro che sembra aver rispettato l’antico perché ne riprende alcuni aspetti formali ma che, in realtà, lo stravolge perché questo passato lo inventa. E, cosi facendo, rende entrambi, presente e passato, irriconoscibili. È la vecchia tentazione del presepe alla Eugène Viollet-le-Duc, sia pure aggiornata con qualche concessione minimalista al linguaggio moderno.
Il secondo è l’intervento nella chiesa di San Gennaro a Napoli ad opera di Santiago Calatrava che arbitrariamente la colora in azzurro e la rende oggetto di effetti speciali di luce. Alterandone così i valori cromatici e conseguentemente spaziali. Giustificando il tutto con la non particolare rilevanza artistica dell’opera, la quale invece, attraverso l’intervento dell’archistar, la avrebbe conseguita.
Il terzo è l’intervento di Rem Koolhaas al Fondaco dei Tedeschi sul Canal Grande a Venezia. Un progetto invasivo che ha previsto lo sfondamento di solai, la demolizione del tetto, l’inserimento di scale mobili, la realizzazione di altane e l’uso di materiali in contrasto con quelli storici.
Il quarto è l’intervento di Edoardo Tresoldi nell’area archeologia di Siponto. Spacciato come effimero ma che ha comportato la costruzione di una enorme struttura metallica con conseguenti problemi di aggancio con la preesistenza, per non parlare del cambiamento dell’aspetto del rudere.
Insieme a queste quattro operazioni, a parere di Feiffer, ognuna a suo modo fallimentare, numerose altre che hanno visto all’opera Mario Botta, Massimiliano Fuksas, Herzog & de Meuron, Andrea Bruno e altri.
La sensazione che si ha leggendo questo libro è duplice. Da un lato non si può che essere d’accordo, soprattutto esaminando la pochezza di alcune realizzazioni. Dall’altro si ha la sensazione che alla fine, qualsiasi opera che interviene sull’antico, non possa da parte di Feiffer che essere giudicata sbagliata. Mi chiedo quale sarebbe stato il giudizio se ad essere esaminati fossero stati i lavori di Carlo Scarpa o di Franco Albini, che nell’introduzione al libro sono elogiati. Anche questi maestri, infatti, sono intervenuti sulle preesistenze con determinazione se non con violenza. A momenti si ha la sensazione che per Feiffer l’unica soluzione possibile sia il “dove era e come era”. Ma, come abbiamo da tempo sperimentato, in Italia questa strategia produce opere non meno fasulle di quelle dove si sperimenta un intervento più contemporaneo.
Recentemente sono stato alla reggia di Caserta e ho potuto ammirare le opere di sistemazione dell’edificio promosse dal direttore Tiziana Maffei. Straordinarie nella loro semplice a asciutta modernità, utili per rendere funzionale le visite e le altre attività che si svolgono nel complesso ma, ovviamente, attente a non competere con la bellezza dell’opera del Vanvitelli.
Si può quindi intervenire, anche se a tre condizioni. La prima è la reversibilità dell’intervento. Siamo coscienti infatti dei guai che abbiamo fatto nel passato, anche se in buona fede, e quindi se oggi interveniamo dobbiamo essere in grado, tra dieci, venti o trenta anni, di poterci ripensare e annullare quanto abbiamo realizzato.
La seconda è che l’inserimento del nuovo non sia tale da compromettere l’antico, evitando il falso antico alla Chipperfield o il moderno aggressivo alla Koolhaas o alla Calatrava.
La terza è che il nuovo aiuti la lettura della preesistenza, offrendoci nuovi punti di vista dal quale guardarla, seguendo in questo la grande lezione di Calo Scarpa.
Bastano questi tre criteri? Ovviamente no. Occorre anche che a disegnare le opere siano scelti i più bravi, e quindi servono i concorsi.
Per non sbagliare troppo, tuttavia, il libro di Feiffer dovrebbe essere una lettura obbligata.
Cesare Feiffer Il monumento storico e l’archistar. Dramma in tre atti. Il Poligrafo casa editrice, Padova, dic.2024, euro 25.
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