La digitalizzazione tra narrazione e operatività

03 Ago 2025 di Angelo Ciribini

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Vi sono temi che, pur nell’immediatezza della cronaca, evidenziano tematiche strutturali di più ampia prospettiva e portata, come nel caso delle vicende urbanistiche milanesi, per cui l’incognita risiede sulla effettiva possibilità che all’attualità delle notizie segua una azione efficace di medio periodo, estesa al territorio nazionale.
In altri casi, come per alcune procedure di natura fiscale, gli operatori economici percepiscono l’urgenza di metterne in risalto le criticità e di agire conseguentemente, accentuando, talvolta, la drammaticità del caso ovvero spiegandone i risvolti negativi.
Per altri argomenti ulteriori, come quelli legati al fenomeno della digitalizzazione, al netto di qualche scadenza cogente dettata dalla legislazione, l’interrogativo da porsi è come esso potrà progredire lontano dalla luce dei riflettori, una volta archiviata anche qualche impellenza cronologica sugli obblighi.
La digitalizzazione, che si tratti di BIM o di altro, non è, invero, recente e ha generato una letteratura scientifica ovvero una pubblicistica sterminate da ormai due lustri, ma, scontando le debite eccezioni, inizia a parere esausta, nei termini della ripetizione del racconto, senza essere davvero in grado di valutarne, a un livello generale, l’effettivo avanzamento.
A una sensazione epidermica si dovrebbe affermare che una sua diffusione capillare e una sua interiorizzazione siano assai distanti dall’essere conseguite.

Beninteso, si sono registrati nel tempo molteplici impieghi virtuosi, specie a opera delle organizzazioni più attrezzate in senso lato, cosicché non sia possibile disconoscerne i benefici.
Tutto sommato, però, questi vantaggi rientrano, in un modo o in un altro, nella sfera delle logiche tradizionali (col BIM, si dice, è possibile far meglio ciò che già si faceva), legate alla dimensioni del documento e alle occasioni strettamente circoscritte.
Ciò che non si riscontra è, invece, un utilizzo, prima di tutto semantico, del dato per assicurare una continuità dei flussi informativi nelle varie fasi temporali del ciclo di vita di una commessa o di un bene, costringendo gli attori a riposizionarsi lungo le catene di fornitura.

Nell’ambito della narrazione il passaggio dall’Information Model al Digital Twin probabilmente significa una traslazione dalla rappresentazione alla simulazione, dalla reazione alla predizione, in un’ottica strategica.
Nonostante vi siano, quindi, elementi concreti per riconoscere una diffusa immaturità digitale, non si dispone, tuttavia, di studi sistematici per confermare questa tesi, né sono disponibili metriche utili a valutarne i ritorni sugli investimenti.
Esistono, però, due elementi, per certi versi contrastanti, che inducono a prime riflessioni.

La prima, negativa, è che, valutata su larga scala, la digitalizzazione nel settore non abbia agito sullo stato di necessità della vita quotidiana degli operatori e dei loro processi decisionali, restando alla superficie.
Detto altrimenti, a differenza di altri settori economici, parrebbe che essa non si sia imposta come indispensabile per affrontare la crescente complessità dei processi, in maniera autonoma dai disposti legislativi, la cui funzione non può che essere complementare alla natura intrinseca dei bisogni dei soggetti coinvolti.

La seconda constatazione che si può avanzare è che gli attori, pubblici e privati, si siano, per così dire, rassegnati a farvi fronte, con gradualità, senza, peraltro, indagarne sino in fondo le implicazioni.
Ovviamente, tale accezione potrebbe limitarsi al piano meramente formale della conformità, svuotando progressivamente il fenomeno dei suoi tratti trasformativi, tanto più che anche il tema gemello della sostenibilità conosce oggi un certo allentamento.
Naturalmente, se si accantona l’idea che la digitalizzazione possa costituire un fattore della riconfigurazione del mercato, i suoi risvolti più banalizzanti potrebbero, comunque, contribuire a migliorare le prassi consolidate.
È in questa occasione che oggi si dovrebbe porre con forza il quesito attinente alla attuale natura del settore.
L’impressione, infatti, è che nessuna teoria, nessuna ideologia, nessun metodo e alcuno strumento possano realmente modificare gli assetti vigenti sulla scorta di un valore di novità puntuale.
Di fatto, a cominciare dal governo britannico, il BIM, a suo tempo, è stato utilizzato internazionalmente dai governi come elemento di strategie industriali, anche se è difficile stimarne ora gli esiti sostanziali a distanza di lustri.
Indubbiamente, l’innovazione digitale ha oggi raggiunto anche i Paesi Europei sinora meno sensibili, come, ad esempio, alcuni di quelli balcanici, ma, soprattutto, il fenomeno è riscontrabile in contesti extraeuropei, con una parabola molto simile a quella originaria: di consolidamento di un’idea, ma anche di una lenta diffusione capillare.

Quello che è mancato, e perdura nella assenza, è, invece, il domandarsi tanto quale debba essere il tessuto più esteso entro cui innestare il tema quanto per quale motivo esso non sia stato considerato come necessario, a prescindere dalla cogenza esterna.
Nel primo caso, gli assetti radicati delle identità e delle relazioni che concernono gli operatori sono percepiti come immutabili, per certi versi, a dispetto delle disfunzionalità ammesse.
È come se la configurazione al fondo fosse così, appunto, necessaria, da impedire processi di cambiamento profondo.
La digitalizzazione diviene, perciò, un elemento addizionale, a condizione che non muti il contesto.
Nel secondo caso, l’essenza stessa del settore, tutt’altro che statico, ha sempre, però, rifuggito da una normalizzazione del dato, entità immateriale dalle conseguenze sempre più profonde: l’esito del Passaporto Digitale del Prodotto dirà qualcosa ulteriormente.
In altre parole, quale che sia l’evoluzione della digitalizzazione nei prossimi anni (non si dimentichi che essa sia stato proposta quale questione esistenziale per gli operatori), persiste l’opportunità di chiedersi quali debbano essere le condizioni di natura non estemporanea affinché il fenomeno agisca radicalmente.

In altre parole, benché il nuovo ciclo dell’ambiente costruito abbia mostrato notevoli cambiamenti recenti, quali sono gli aspetti che gli attori ritengono tali per cui un cambio di paradigma possa essere adottato?
È realmente possibile, ad esempio, ridurre la parcellizzazione degli operatori, rafforzare le reti, incrementare le soluzioni integrative organizzative interprofessionali oppure dovremmo seguitare a proporre argomenti come questo decontestualizzati, pensando che innovazioni come l’Intelligenza Artificiale siano in grado di evitare considerazioni impegnative per i protagonisti?
Possiamo davvero per legge rendere la domanda pubblica motore della rivisitazione del settore, senza tenerne in conto le debolezze intrinseche, o, al contrario, vedere le organizzazioni finanziarie solo come estrattori di valore?
Affinché la digitalizzazione sortisca esiti significativi occorrerebbe andare alla radice dei contesti.

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