L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP /26

Le cento stagioni di Michele De Lucchi: profeta e imprenditore, radicale e funzionalista, artista e produttore

Michele De Lucchi è uno di quei personaggi che sfuggono alle definizioni. Non è solo un designer, né soltanto un architetto. È, piuttosto, una figura in bilico tra il profeta e l’imprenditore, tra il radicale e il funzionalista, tra l’artista e il produttore. Come molti dei suoi colleghi internazionali più noti e di qualche anno più anziani– da Rem Koolhaas a Daniel Libeskind, dai Coop Himmelb(l)au ai membri di Archigram – anche lui si è formato in un contesto fortemente politicizzato: quello della Firenze post-sessantottina, sotto la guida di Adolfo Natalini, fondatore di Superstudio. È lì che De Lucchi assorbe la lezione della critica radicale all’architettura moderna: l’idea che l’architetto debba smettere di costruire oggetti esclusivamente funzionali e cominciare invece a immaginare scenari alternativi, utopie, visioni, rotture. (…)

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Non sorprende, allora, che agli inizi della sua carriera De Lucchi si collochi nel solco di quell’architettura che non vuole più fare edifici, ma manifesti. Che si interroga sul ruolo dell’autore, sulla possibilità di spazi effimeri, emozionali, disobbedienti. È la stagione dell’architettura come critica dell’architettura.

Come diversi altri architetti italiani – e qui il parallelo con Ettore Sottsass, Alessandro Mendini e anche con Gae Aulenti e Mario Bellini è inevitabile – De Lucchi trova nella pratica del design un campo d’azione immediato, concreto e redditizio. Mentre i grandi progetti urbani sono lontani o irrealizzabili, il design offre la possibilità di testare idee, dare forma a visioni, ma anche lavorare direttamente con l’industria e la produzione. È proprio questo doppio binario – sperimentazione concettuale e produzione industriale – che caratterizza la sua traiettoria.

Il primo grande catalizzatore del suo talento è Ettore Sottsass. L’incontro tra i due è determinante. Sottsass riconosce in De Lucchi un giovane compagno di viaggio, un radicale che non disdegna la forma, un ribelle che astutamente capisce il valore del mercato. Insieme partecipano all’avventura di Alchimia, poi a quella più nota di Memphis. Due esperienze che segnano una svolta nella storia del design internazionale. Se Alchimia è una provocazione, una ribellione contro il buon gusto borghese, Memphis diventa il brand che consacra l’estetica del kitsch come linguaggio globale. Colori accesi, forme giocose, materiali poveri accostati senza gerarchia: tutto concorre a distruggere l’ideale modernista di purezza, funzionalità, sobrietà.

Eppure De Lucchi non si ferma qui. Il suo percorso è già orientato verso un’integrazione, seppur problematica, con il sistema produttivo. Lo dimostra la sua lunga collaborazione con Olivetti, azienda che ha fatto della mediazione tra industria e cultura una delle sue cifre distintive. Qui De Lucchi affina un linguaggio diverso: più controllato, più rigoroso, potremmo dire post-bauhaus. Ma non è un ritorno al razionalismo, quanto piuttosto un tentativo di coniugare funzionalità ed emozione. Di rendere umani i prodotti della tecnica, vicini, empatici. È in questo contesto che nasce la famosissima lampada Tolomeo, progettata nel 1987 con Giancarlo Fassina per Artemide, diventata uno dei prodotti di design più venduti al mondo. Un oggetto che riesce a essere al contempo tecnico ed emozionale, semplice e sofisticato, universale e familiare.

Il radicalismo degli anni Settanta non viene accantonato, ma metabolizzato. Non è più l’opposizione frontale al sistema, ma la sua trasformazione interna. Il design smette di essere un’alternativa alla produzione industriale e diventa il suo sviluppo. Se un tempo la funzione era sufficiente – una sedia serviva a sedersi – ora il prodotto deve emozionare, raccontare, coinvolgere. Come dice De Lucchi stesso, il design radicale, una volta entrato nel circuito industriale, perde il suo spirito antagonista, ma acquista una nuova funzione: quella di stimolare il desiderio.

In questa logica, il design diventa moltiplicazione, varietà, differenziazione. Non ci basta un orologio che funziona: ne vogliamo venti, ciascuno con una storia, una forma, un’identità. Ecco allora che l’anima ribelle diventa anima commerciale. Non si è più l’avanguardia della rivoluzione, ma quella della moda. Non si lotta contro il sistema: lo si anticipa, lo si alimenta. Come è accaduto a tanti protagonisti del design e dell’architettura contemporanea: da Philippe Starck a Rem Koolhaas, da Alessandro Mendini a Zaha Hadid.

Ma mentre molti si fermano a questo punto – al successo, alla consacrazione, alla serialità – De Lucchi sceglie una direzione diversa. Decide di interrogarsi nuovamente. Di riscoprire il senso del progetto. Di tornare all’intimità dell’atto creativo. Nel 1990 fonda Produzione Privata: un laboratorio autonomo, una piccola utopia, uno spazio per progettare oggetti “senza committenza”. Un gesto controcorrente, in un’epoca in cui tutto è marketing, brand, target. Produzione Privata è l’atto di chi rifiuta la logica del “cliente ha sempre ragione” per tornare a un’idea quasi mistica del fare: progettare per il piacere di farlo, per la necessità interiore, non per la domanda del mercato.

È qui che il De Lucchi designer cede il passo al De Lucchi architetto. Non nel senso della semplice scala progettuale, ma in quello più profondo dell’atteggiamento mentale. Nasce AMDL CIRCLE, studio multidisciplinare in cui si sperimenta un approccio umanistico al progetto. Al centro non c’è più il prodotto o l’oggetto, ma l’uomo, la comunità, la relazione tra individuo e ambiente. Le sue architetture recenti abbandonano i segni eclatanti per farsi post-ecologiche. Dominano il legno, la luce naturale, le forme semplici ma evocative. Edifici che non vogliono stupire, ma accompagnare. Che non cercano la spettacolarità, ma il raccoglimento. Che sembrano usciti da un sogno infantile o da una fiaba.

La sua cifra stilistica si può definire come un equilibrio, o forse un disequilibrio, tra nostalgia e innovazione. Un’architettura che stimola la fantasia, che non teme il racconto, l’allegoria, il simbolo. Che non si accontenta di essere efficiente o sostenibile, ma vuole parlare all’anima. In questo senso, De Lucchi si inserisce in una tradizione tutta italiana, che unisce la metafisica di Giorgio De Chirico alla visionarietà di Federico Fellini, il senso del sacro laico di Franco Battiato alla poetica urbana di Aldo Rossi. Una linea che predilige la memoria alla tecnica, la suggestione all’algoritmo, la cultura all’ideologia.

Non sorprende, dunque, che oggi ci sia un crescente interesse per la sua figura. La recente pubblicazione a lui dedicata nella collana “I Maestri dell’Architettura” del Corriere della Sera, scritta da Cristina Moro, cerca di rendere conto della complessità di questo percorso. Non sempre ci riesce, forse perché De Lucchi, “semplice come una colomba, astuto come un serpente”, sfugge a ogni tentativo di riduzione.

È un progettista difficile da incasellare: non è un tecnocrate né un artista puro, non è un puro visionario né un funzionalista. È, semmai, uno che ha saputo cambiare pelle senza perdere sé stesso. Che ha saputo attraversare le stagioni del progetto – dal radicalismo alla produzione industriale, dal design d’autore all’architettura etica – mantenendo viva la tensione creativa.

Con la sua barba da santone e lo sguardo da sognatore, De Lucchi oggi appare come una figura fuori dal tempo. Ma proprio per questo attuale. In un’epoca in cui l’architettura rischia di diventare una performance da social, la sua proposta lenta, meditata, artigianale, ha il sapore della resistenza ma anche l’appeal dell’ultima moda. È un invito a ripensare il senso del nostro fare. A progettare non solo per costruire, ma per comprendere, per immaginare, per vivere meglio e, insieme, per essere aggiornati come gli intellettuali che si dividono tra il bosco e le aree urbane ZTL. E forse per questa adesione allo spirito più profondo della nostra contemporaneità, di Michele De Lucchi architetto sentiremo parlare ancora a lungo.

 

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LA MESSA IN MORA SUL CODICE APPALTI

di Giorgio Santilli

di Walter Tocci

Pubblichiamo l’intervento tenuto da Walter Tocci, ex vicesindaco di Roma e oggi consigliere del sindaco Gualtieri per il coordinamento del Piano di riqualificazione del Centro archeologico monumentale, nel corso del panel di Città nel futuro 2030-2050 dedicato alla presentazione di “Roma Consolari – Un progetto visionario per la città”, a cura dell’IN/ARCH.

 

A Roma è tornata la fiducia nel cambiamento. Abbiamo ormai alle spalle lo spirito depressivo degli anni passati. Ci sono tanti progetti in corso e tanti altri in discussione, per iniziativa della giunta – l’assessore Veloccia ha appena presentato il piano per il Tevere – e anche per l’impegno della società civile, come si vede in questo convegno. A mio avviso, però, tra le tante, l’idea delle consolari proposta da IN/ARCH è la più preziosa, la più efficace e la più nuova.

1. Più preziosa perché antica: la loro raggiera è la più duratura forma territoriale di Roma, dalla protostoria ai giorni nostri.
In una lotta infinita tra l’uomo e l’ambiente, ogni secolo ha impreziosito i tracciati con nuove opere e ha modificato il paesaggio, le infrastrutture, le produzioni, le case.
Ciascun itinerario è come un rotolo di papiro che basta srotolarlo per leggere nelle diverse direzioni la plurimillenaria trasformazione della Campagna Romana.
Il Novecento è stato il secolo più ingeneroso, poiché ha sfiancato le consolari, senza mai prendersene cura; le ha utilizzate nella grande espansione edilizia per sostenere almeno due cambi di scala, quello urbano e quello metropolitano, le ha logorate, le ha stravolte e in alcuni tratti perfino cancellate: la Tiburtina a ponte Mammolo non c’è più, è stata sostituita da un viadotto sopra un parcheggio.
Occorre dimenticare il Novecento per riconciliarsi con la lunga durata di Roma.

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