L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 21

Vaccarini, la costiera Adriatica, la palazzina e l’abilità di relazionarsi con la tirannia dei linguaggi: luce e bellezza senza inseguire geometrie decostruttiviste

È da oltre trenta anni che l’architettura italiana sta vivendo una buona stagione. Probabilmente dal 1992 e grazie a Tangentopoli. Il vasto e inarrestabile fenomeno conosciuto come mani pulite ha messo infatti in crisi il vecchio e consolidato sistema di spartizione politica degli appalti. Mentre la così detta legge dei Sindaci, emanata l’anno successivo, nel 1993, ha stimolato le amministrazioni a puntare sull’architettura con opere significative. Certo, i tempi sono sempre più lunghi, la burocrazia opprimente, le norme sempre più indecifrabili e molti progetti rimangono sulla carta o sono realizzati solo dopo 10-15-20 anni. Ma ogni città bene o male ha promosso un  certo numero di concorsi che hanno lanciato giovani architetti i quali, negli anni delle spartizioni fatte col codice Cencelli alla mano, non avrebbero avuto occasioni per emergere.

03 Ago 2025 di Luigi Prestinenza Puglisi

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Vaccarini, la costiera Adriatica, la palazzina e l’abilità di relazionarsi con la tirannia dei linguaggi: luce e bellezza senza inseguire geometrie decostruttiviste

Luigi Prestinenza Puglisi

E sono occorsi almeno una decina di anni affinché i risultati fossero visibili. Precisamente dodici se consideriamo la data simbolica del 2005, cioè l’anno in cui 35 accademici scrivono un appello preoccupato al Capo dello Stato e al Presidente del Consiglio. I 35 protestano contro l’invasione delle star straniere alle quali sono affidati incarichi importanti sottratti agli italiani. Distratti dalle scorribande dei barbari, gli accademici non si sono però accorti che in Italia è nato e si è consolidato un nuovo fenomeno. E che un numero crescente di giovani e meno giovani talenti stanno svecchiando il loro modo di progettare e il modo di comunicare.

Architetti che capiscono che per contrastare gli stranieri occorre praticare lo stesso gioco: diventare star come loro. Alcuni ci riescono. Penso, per esempio, a Michele De Lucchi, ad Antonio Citterio e Patricia Viel, a Italo Rota e, anche, a quattro progettisti più giovani e, a loro modo, spericolati nell’uso delle tecniche più aggiornate della comunicazione: Mario Cucinella, Marco Casamonti, Stefano Boeri, Cino Zucchi. Protagonisti che d’ora in poi troveremo nelle principali cronache dell’architettura italiana (Carlo Ratti arriverà qualche anno più tardi).

Queste nuove star non sono, però, isolate. Accanto a loro, decine di progettisti producono opere di qualità non inferiore. Da Alvisi Kirimoto a Park, da Gianluca Peluffo ad Alfonso Femia (prima associati e poi separati), da Nemesi a Camillo Botticini, da Giulia de Appollonia a UFO, da Guendalina Salimei a Gnosis a Labics, da Stefano Pujatti a Daniele Corsaro solo per citare i primi che vengono in mente. Nonostante numerosi architetti siano domiciliati a Milano, un numero non meno consistente lavora in provincia perseguendo poetiche raffinate e personali. Si pensi per tutti all’isolamento autoimposto di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo nella cittadina siciliana di Vittoria.

Se passiamo nell’area adriatica, incontriamo Giovanni Vaccarini, al quale è dedicata una recente monografia molto ben scritta da Manuel Orazi  e che consiglio di leggere perché oltre che di Vaccarini ci parla diffusamente delle vicende architettoniche dell’intera area geografica.

Giovanni Vaccarini, nato nel 1966 a Orta Nova, è cresciuto a Giulianova. Ha studiato a Pescara dove proprio in quegli anni stava avvenendo una sorta di rivoluzione culturale. La facoltà di Pescara, infatti, nei primi anni di vita e cioè alla fine degli anni Sessanta era un baluardo del pensiero conservatore e della cosiddetta Tendenza, un movimento architettonico che si ispirava al post modern di Giorgio Grassi e Aldo Rossi. Durante il periodo in cui Vaccarini vi studia, alla fine degli anni Ottanta, si apre alla contemporaneità  per l’impulso dei nuovi professori Antonino Terranova, Aldo Aymonino, Paolo Desideri, Francesco Garofalo, Carmen Andriani, Giangiacomo d’Ardia e delle loro più o meno caute aperture (alcuni di loro sono fuoriusciti dalla Tendenza). Grazie al loro apporto, e soprattutto di Aldo Aymonino di cui diventa assistente, Vaccarini approfondisce l’architettura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, si infatua di personaggi carismatici quali Luigi Moretti, approfondisce l’opera di professionisti eccellenti quali Monaco e Luccichenti e Venturino Ventura. Lavora su una tesi di laurea incentrata sul tema della palazzina, una tipologia edilizia che i professori reazionari consideravano tabù, perché lontana dai casermoni dell’edilizia popolare e amata dalla borghesia.

Laureatosi brillantemente nel 1993 (che, lo ricordiamo, è l’anno della legge dei Sindaci), Vaccarini si fa conoscere attraverso opere di grande qualità, eseguite con mano ferma e con uno straordinario senso del volume, affiancato a un attento trattamento dei materiali e delle superfici.

Sono gli anni della tirannia del linguaggio. Nel senso che le opere dei più giovani progettisti, quale è il Nostro, si caratterizzano (quasi) sempre per i rimandi anche molto espliciti al linguaggio formale di architetti più noti. E difatti nei laboratori Rakotek (1999) non mancano riferimenti a Richard Meier e a Renzo Piano, nell’edificio a Giulianova (2001) a Luigi Moretti. Nella casa Capece Venanzi (2005) a Giulianova a  Rem Koolhaas. Con il tempo le citazioni tratte dai repertori linguistici dei Maestri diventano più vaghe e filtrate da una poetica della leggerezza e della trasparenza originale e personale. Anche se, per esempio nelle palazzine che si affacciano verso il mare, continuiamo a registrare più di un riferimento ai migliori progettisti delle palazzine romane degli anni cinquanta e sessanta.

Vaccarini non è, insomma, un inventore di linguaggio, ma è uno che attinge a quelli esistenti e con grande abilità creativa li seleziona e mette alla prova. Un’operazione questa che diventa sempre più accurata e selettiva. Ed è finalizzata alla ricerca di una bellezza chiara e quasi senza tempo. Si trova, infatti, poco a suo agio con estetiche che esasperano il movimento o che perseguono la decostruzione di figure, piani, volumi. È affascinato, invece, dalla luce e dal modo con il quale unisce il tutto relazionandosi con le superfici opache e trasparenti. Da qui anche il continuo confronto con Steven Holl, uno dei protagonisti della ricerca architettonica che più ama.

È interessante che nel libro, abilmente gestito da Manuel Orazi per capitoli che aprono a temi diversi, ci siano alcuni accenni alla questione della città adriatica, una metropoli caotica e senza confini che mette in crisi l’urbanistica tradizionale che dovrebbe, essere maggiormente strutturata. A una prima lettura sembra un tema non pertinente con la ricerca di Vaccarini, focalizzata sull’oggetto architettonico in particolare e non sul disegno urbano di insieme. In realtà la ricerca di oggetti così ben calibrati può essere vista come una risposta a una città territorio senza regole e senza confini, la ricerca di un ordine, sia pure ad una scala inferiore a quella territoriale, dal quale la buona architettura non può comunque derogare.

Manuel Orazi, Giovanni Vaccarini, LetteraVentidue, collana Imprinting, pag.144, Siracusa 2024, euro 20.

 

 

 

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