L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 20
Minimalismo
Da diversi anni il rigorismo sembra essere tornato di moda. I concorsi di architettura, come per esempio quello del grande Maxxi o del museo della Scienza a Roma sono vinti da edifici semplici, al limite della laconicità. La rivista Casabella pubblica progetti sempre più austeri: utilizza per il titolo del numero 969 di maggio 2025 la parola frugalità e, nel numero successivo, pubblica con gran risalto un paio di lavori di Paolo Zermani ispirati al monumentalismo di Louis Kahn e al minimalismo di Mies van per Rohe. In Svizzera spopola Valerio Olgiati, con la sua architettura nuda e asciutta. Progettisti di talento e critici aggiornati sostengono che l’architettura debba essere più rigorosa, nella sostanza e nella forma. E, se non vogliono scomodare la parola minimalismo, usano, come abbiamo visto con Casabella, il termine frugalità.

Luigi Prestinenza Puglisi
IN SINTESI
Così, per esempio, Valerio Paolo Mosco che alla parola dedica un libro ricco di preziose argomentazioni. “Quella frugale – sostiene il critico – è un’architettura rappresentativa nel senso che oltre a se stessa mette in mostra una condotta etica e dei riti ad essa connessi: mette in mostra uno stile di vita”.
La stagione decostruttivista e postdecostruttivista, iniziata negli anni Novanta sembra, insomma, essere definitivamente esaurita. E anche se alcune archistar continuano a proporre forme complesse e stupefacenti, le vediamo più come concessioni al cattivo gusto di qualche committente culturalmente fuori dal tempo, che come strade percorribili dall’architettura più aggiornata e impegnata.
La storia ci insegna però che non c’è parola più scivolosa del termine minimalismo e che anche la parola frugalità non lo è da meno.
Mies van der Rohe, che possiamo considerare il santo protettore di questa tendenza, non era certo un architetto che amava la povertà. Per casa Tugendhat usò il legno d’ebano e marmi preziosi tra i quali l’onice e progettò infissi che attraverso un costoso meccanismo studiato ad hoc, quando venivano aperti scomparivano alla vista, posizionandosi nella cantina al piano inferiore. Il Seagram Building, considerato un capolavoro di semplicità, costò un occhio della testa perché i profili degli infissi erano in bronzo. E Mies litigò con una committente, Mrs. Farnsworth, perché, tra le varie incomprensibili richieste, pretendeva che nella abitazione ci fosse un armadio. Armadio che, secondo Mies, avrebbe turbato il raffinato disegno della abitazione e che comunque non era essenziale in una casa di vacanza.
Se il less is more di Mies van der Rohe, per questi e altri motivi, più che frugale lo definiremmo maniacale, non di meno si può dire per le poetiche funzionaliste di altri importanti maestri del Movimento Moderno. Le Corbusier, per esempio, fu accusato di eccessivo formalismo da Karel Teige. Infatti, secondo il critico cecoslovacco, il grande architetto, che tanto predicava la funzionalità, il rigore e i materiali poveri, si faceva prendere troppo la mano dall’arte, contraddicendo così i propri assunti di partenza. Critiche non minori furono avanzate da Hannes Meyer, il secondo direttore della Bauhaus, che denunciava quanto estetismo ci fosse dietro il funzionalismo di molti architetti contemporanei, a partire dal suo predecessore al Bauhaus, Walter Gropius.
Il minimalismo non è quindi sinonimo di povertà, anzi spesso è esattamente il contrario. Per rendere minimalista un particolare costruttivo occorrono soluzioni costose. E per avere uno spazio minimalista occorre fare ricorso a materiali pregiati, trattati e tagliati con processi ad hoc. Si pensi, per esempio a quanto siano difficili da realizzare infissi con grandi vetrate supportate da esili profilati. Evitare sporgenze e scalini. Nascondere alla vista accessori quali gli elementi radianti o le centraline degli impianti.
Occorre poi notare che il minimalismo e il lusso si fondano su un medesimo imperativo: rinunciare alla confusione del mondo per goderne i valori più profondi. E quindi, in un certo senso, la loro è una visione ascetica non diversa da quella suggerita dalla religione.
Da qui alcuni divertenti equivoci. Si racconta, per esempio, che un paio di monaci trappisti casualmente entrano in un negozio londinese, opera dell’architetto inglese John Pawson e, conquistati dal minimalismo di questa struttura di alta gamma, contattano l’architetto per realizzare con una spazialità simile il loro convento, a Nový Dvùr nella Repubblica Ceca. Il seguito della storia è che, una volta realizzata l’opera, qualche monaco protesta perché gli spazi e gli arredi, nonostante il loro elevato costo (il minimalismo di Pawson è tutto fuorché economico), sono troppo astratti e non particolarmente comodi. Insomma: anche i trappisti minimalisti, quando sono trattati con eccessiva frugalità, protestano.
Esistono altre forme di minimalismo. Per esempio quello che persegue la semplicità Dove l’architettura, concepita per schemi geometrici elementari, ha funzione di lenimento spirituale, di contrappunto alla caoticità del mondo. In una società sempre più disumanizzante, permette di riscoprire la pulizia e la leggerezza delle idee. Architetti come Kazuyo Sejima o Yun’ia Isghigami stanno sperimentando poeticamente questa dimensione. Proponendo edifici chiari, rilassanti, composti con logiche quasi elementari. Lo ripetiamo: non bisogna però confondere la semplicità della forma con la complessità costruttiva che serve per realizzare strutture così esili, vetrate così ampie, spazi così continui. Anche in questo caso di minimale, dal punto di vista della costruzione e dei relativi costi, c’è poco.
Minimalista e frugale è, infine, l’architettura a vario titolo ecologicamente impegnata. L’obiettivo è consumare di meno, riciclare, vivere sani. Lo slogan di questi progettisti si trasforma da lessi is more a more with less, cioè costruire e vivere con poco. Ma, come spesso accade con gli architetti, i temi funzionali sono trasformati in brillanti esercizi di estetica. In pretesti per ridisegnare in forma calvinista il mondo. Molto legno, forme elementari, un voluto compiacimento pauperista. E tanto regionalismo. Trionfano le forme chiuse. Se il decostruttivismo frammentava i volumi e li apriva allo spazio circostante, adesso si pensa per volumi elementari delimitati da cortili e recinti, che non disdegnano matrici circolari per abbracciare e racchiudere.
In uno scritto del 2013 Pier Vittorio Aureli, uno dei critici di punta di una visione neo consevatrice e, allo stesso tempo, marxista dell’architettura, propone una parola d’ordine che può sostituire il celebre ma consumato less is more. È less is enough, il meno è abbastanza. Vuol dire che i nuovi comportamenti, che siamo costretti ad assumere a causa del disastro ecologico e della perdita, da parte di molte persone, del potere di acquisto, non sono un ideale da perseguire. Ma una necessità. Con la quale fare i conti. Minimalisti e frugali lo dovremo diventare non per scelta ma per costrizione. A questo punto occorre che la necessità si trasformi in valore ma non certo in un mito. Insomma: occorre abituarsi e adeguarsi, non aderire entusiasticamente. E allora, per parafrasare una famosa frase di Benedetto Croce, non potremo non dirci minimalisti.
Diario DIAC: qui tutte le gare e i concorsi di progettazione della settimana
Tutti gli altri articoli di Luigi Prestinenza Puglisi
LPP/7 Singolarità italiana o una nuova semplicità che sta diffondendosi in Europa?
Leggi gli altri articoli della rubrica "L'Architettura vista da LPP"