L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 17
Il pop sofisticato di Cino Zucchi lavora sulle contraddizioni per diventare evanescente. Il capolavoro della Casa D all’ex Junghans di Venezia
Possiamo considerare che il fenomeno delle archistar nasce il 18 ottobre 1997 quando si inaugura il museo Guggenheim di Bilbao. È da quel momento che politici e costruttori cominciano a rendersi conto che il tocco di alcuni architetti può fare la differenza e determinare la fortuna di un luogo.
L’archistar non è quindi solo un progettista famoso. È un personaggio mediatico la cui firma garantisce il successo di una iniziativa. Le archistar italiane sono due: Renzo Piano (1937) e Massimiliano Fuksas (1944). Entrambi hanno cominciato a costruire la loro fama all’estero, in Francia, per poi essere apprezzati in Italia. Con il tempo se ne sono aggiunti altri.

Luigi Prestinenza Puglisi
IN SINTESI
Sono: Antonio Citterio (1950) in coppia con Patricia Viel (1962), Michele De Lucchi (1951), Cino Zucchi (1955), Stefano Boeri (1956), Mario Cucinella (1960) e Marco Casamonti (1965). Si tratta di personaggi interessanti dei quali sui prossimi numeri mi farebbe piacere delineare i profili. Attraverso le loro opere ritengo, infatti, che sia possibile tratteggiare un quadro convincente dell’architettura italiana di successo, o almeno di ciò che noi percepiamo essere tale.
Comincio con Cino Zucchi perché, a mio giudizio, di tutti gli architetti prima citati è il più artisticamente dotato e perché su di lui recentemente è stata pubblicata una monografia nella collana Imprinting della quale avevo parlato in un articolo precedente.
Zucchi si fa conoscere a livello internazionale per un’opera che costruisce a Venezia alla Giudecca, nell’ex area Junghans, tra il 1995 e il 2003. Venezia è una città ambita ma quasi proibita agli architetti contemporanei. Due magnifici progetti, uno di Frank Lloyd Wright e l’altro di Le Corbusier, furono bocciati e mai iniziati. Altre opere sono state realizzate con infinite polemiche e interminabili mediazioni: dalla casa alle Zattere di Ignazio Gardella ai capolavori di Carlo Scarpa, sino alle più recenti sistemazioni di Tadao Ando a Punta della Dogana, all’intervento di David Chipperfield alle Procuratie Vecchie e a quello di Rem Koolhaas al Fondaco dei Tedeschi. Con non minori difficoltà e cautele sono stati costruiti alcuni complessi di edilizia economica, tra i quali uno firmato da Vittorio Gregotti e uno da Gino Valle.
Il progetto di Cino Zucchi prevede cinque edifici residenziali. Quello contrassegnato con la lettera D appare particolarmente convincente, un capolavoro. Si integra, infatti, perfettamente nel pittoresco veneziano grazie alla libertà della composizione delle bucature e alle grandi cornici che ricordano le antiche costruzioni popolari della laguna.
Nello stesso tempo ha una immagine fresca, astratta e decisamente contemporanea.
Le bianche e varie cornici sono quindi un richiamo alla tradizione e la negazione della tradizione stessa. Un discorso apparentemente incongruo ma poeticamente risolutivo tanto che la casa piace a tutti, conservatori e progressisti. Ed è pubblicata su diverse copertine di riviste e libri tra le quali quella della Storia dell’architettura italiana (1985-2012) di Marco Biraghi e Silvia Micheli.
A chi gli chiede spiegazioni sulla genesi dell’opera, Zucchi risponde con misurato understatement che ha preso l’idea da un progetto di Gabetti e Isola. Sottolinea cosī che l’edificio si rifà a una visione accademica dell’architettura italiana ma, nello stesso tempo, nega la venezianità di un’opera che tutti passano come veneziana e che invece si scopre avere antenati piemontesi.
Zucchi si accorge che la casa D può darsi solo come apparizione, quindi come eccezione. Gli altri quattro edifici seguono binari stilistici diversi, più essenziali, più asciutti.
Questo lavorare sulle contraddizioni è quasi un imperativo categorico per l’architettura italiana oggi. E Zucchi riesce più degli altri a trasformarlo in poesia. A presentarci un mondo che sembra in equilibrio e non lo è più. È lui stesso che ci invita a vedere come le cose che appaiono ben strutturate abbiano un punto dal quale scoprire la loro precarietà. “Anche se riempio i miei discorsi o scritti di citazioni, esse – afferma Zucchi – non sono ai miei occhi strumenti per donare a essi autorevolezza, ma semplici ‘mattoni’ scelti per costruire l’edificio di un ragionamento”.
Da questo atteggiamento deriva una continua curiosità intellettuale che lo porta a sperimentare, variandoli, forme, immagini, colori. Una sorta di pop sofisticato che si fonda su una ampia cultura che, a sua volta, si tramuta in erudizione. E una altrettanto forte volontà di fare i conti con il gusto popolare, il gioco, il non senso, e anche la carne e il sesso. Motivo per il quale quando parlate con lui potete passare indifferentemente dall’architettura di Wittgenstein, ai libri di Umberto Eco, alle tecniche erotiche giapponesi, dalla musica popolare americana al suo amato Paul Valéry. Noterete che, attraverso questi argomenti, Zucchi sfuggirà a ogni domanda precisa sulle sue opere (forse perché la risposta è proprio in questo suo continuo divagare).
Leggete come si autopresenta in un libro in cui sono raccolti disegni erotici di Javier Mayoral alias Pulpbrother da lui collezionati: “Laureato al M.I.T. e al Politecnico di Milano – dove è professore ordinario – … è stato visiting professor ad Harvard e all’Etsam… è un collezionista seriale di oggetti e quadri politically incorrect e nel poco tempo libero è richiesto da figli e studenti come valente DeeJay di Indie music’.
Per la sua capacità onnivora di avvicinarsi alla cultura alta e bassa, all’etica del lavoro e a quella del peccato, credo che Zucchi rassomigli a un altro grande affabulatore dell’architettura italiana: Italo Rota. Ma, a differenza di Rota, che nella sua produzione non disdegnava il kitsch, Zucchi lavora sempre sull’eleganza, sull’abito disegnato su misura, sulla buona educazione sia pure portandoli al punto limite dell’eccesso. I suoi riferimenti sono prevalentemente i grandi professionisti degli anni del dopoguerra: Luigi Moretti, Figini e Pollini, Pietro Portaluppi, Gio Ponti, Asnago e Vender, Luigi Caccia Dominioni. Tutti architetti milanesi o che a Milano hanno lasciato importanti tracce.
Per sfuggire all’arbitrio dell’assenza di regole occorre, infatti, darsi delle altre regole. Sono certamente il bon ton di chi è bene educato e la voglia di innestare il moderno nel cuore della tradizione. Un moderno che è reso vivo attraverso pattern decorativi, con una particolare attenzione al ritmo delle facciate trattate come se fossero tessuti o capi di moda.
Credo che questa predisposizione per la decorazione geometrica derivi dalla sua formazione musicale, che lo porta a concepire in termini ritmici la figura architettonica.
Non mancano tuttavia edifici dove a essere valorizzati, oltre alle superfici, sono i volumi e quindi gli spazi. Per esempio il centro Lavazza a Torino e il complesso Salewa a Bolzano. Quasi a suggerire che la soluzione va, volta per volta, inventata e negoziata, senza dimenticare che comunque si tratta sempre di un gioco. Per l’intelletto puro, notava Paul Valéry, niente è futile, niente è importante.
In ogni caso, le opere di Zucchi, forse proprio per questo carattere giocoso e musicale, per i molti riferimenti eruditi e popolari e per questa mai ingessata autorialità, come dicevamo prima, piacciono anche al gusto comune. Segno che la buona architettura può interessare i non addetti ai lavori e che per renderla appetibile occorre saper giocare su numerosi e compresenti livelli di discorso.
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