L'ARCHITETTURA VISTA DA LPP / 12
Un nuovo modo di fare mostre: meno rigore scientifico, curatori animatori e più libertà interpretativa al pubblico. Virtù e limiti del Padiglione italiano di Guendalina Salimei
La mostra al Maxxi di Roma, dal titolo Stop Drawing. Architettura oltre il disegno affronta, sino al 21 Settembre 2025, il tema della crisi del disegno di architettura. Cioè della tecnica che per molto tempo è stata lo strumento privilegiato dell’architetto. Oggi, infatti, si utilizzano con sempre maggiore frequenza collage, modelli tridimensionali, pittogrammi, filmati, immagini elaborate dal computer e gestite dalla Intelligenza Artificiale. Inoltre Stop Drawing fa vedere quanto la pratica artigianale del disegno a riga e squadra e a mano libera sia utilizzata come forma di resistenza alle nuove tecnologie considerate come omologanti e pervasive. La mostra nel suo insieme è però deludente se non innervosente. I bellissimi disegni, plastici, filmati non riescono a costruire una narrazione. E, oltre alla considerazione sulla perdita di ruolo del disegno, non si riescono a individuare altre tesi. A peggiorare questa sensazione è la scarsità dell’apparato informativo. Le didascalie, per esempio, non si trovano accanto ai quadri, sono poco leggibili, non forniscono particolari input di riflessione. È difficile capire chi sono gli autori delle opere in mostra, in che anno operano, perché sono stati selezionati, che ruolo hanno all’interno del discorso complessivo.

Luigi Prestinenza Puglisi
Si ha l’impressione di trovarsi davanti a un insieme di pezzi eterogenei alcuni dei quali presi dagli archivi del museo più per risparmiare sui costi che per partecipare attivamente al racconto. Sensazione che, a dire il vero, abbiamo provato in numerose altre mostre dell’istituzione romana. Per esempio, nel 2023 in quella sul rapporto tra gli architetti e gli artisti, dal titolo “Architetture a regola d’arte”. In mostra BBPR, Costantino Dardi, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, Luigi Moretti con oltre 400 tra modelli, documenti e disegni, progetti, allestimenti, fotografie, carteggi. In cui però mancavano solidi fili narrativi e a tratti sembrava di trovarsi in un fuori tutto per mostrare reperti che altrimenti sarebbero rimasti sine die nei depositi.
Potremmo liquidare queste iniziative come segno di uno stato di salute precario di una istituzione, il MaXXI, che non è mai riuscita a decollare per numerose ragioni tra quali la assenza di un adeguato rinnovamento. Ma il problema è anche più generale e va oltre il museo romano. Obiezioni del genere vengono mosse ad altre importanti mostre promosse da altre istituzioni, quali la Biennale di Venezia, per esempio al padiglione italiano curato dalla brava Guendalina Salimei o alla stessa biennale diretta da Carlo Ratti. Una polemica simile è scoppiata, inoltre, per la gigantesca mostra sul Futurismo che, per molto tempo, ha occupato gran parte della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Quest’ultima è stata accusata di essere mal fatta, perché carente di una riconoscibile curatela e nonostante la quantità e qualità delle opere in mostra: tra queste decine di Umberto Giacomo Boccioni e di Giacomo Balla.
Una grande mostra costa, richiede tempo ma soprattutto presuppone una regia autorevole. Oggi sarebbe arduo trovare studiosi come Bruno Zevi che organizzava mostre epocali quali quella critica delle opere michelangiolesche al Palazzo delle Esposizioni nel 1964 con Paolo Portoghesi e Corrado Maltese. Oppure Brunelleschi anticlassico del 1979 a Firenze, con Piero Sartogo e Francesco Capolei, dove si mettevano in discussione i miti classicisti della storiografia del Rinascimento. Ed è sempre più difficile pensare a grandi eventi pensati per mettere insieme reperti provenienti da tutto il mondo e fare il punto su un personaggio o un periodo storico, finalizzati alla pubblicazione di cataloghi, con contributi dei massimi studiosi, destinati alle biblioteche universitarie, come quella su Francesco di Giorgio Architetto tenuta a Siena del 1993 e che ha visto coinvolti Francesco Paolo Fiore e Manfredo Tafuri, cioè due tra i massimi studiosi dell’argomento.
Vi è oggi un cambiamento di ruolo del curatore. Il qual rifiuta di essere il portatore di un messaggio scientifico ben definito per diventare un suscitatore di emozioni e di dibattito. Non un professore che dice come le cose sono o dovrebbero essere, ma un animatore se non un intrattenitore.
A dare dignità e risonanza mediatica a questo nuovo atteggiamento è stata Cristiana Collu che ha diretto dal 2015 al 2023 la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Tra le tante iniziative di questa bravissima direttrice, la scelta di riorganizzare la Galleria mettendo insieme opere di periodi e di autori diversi, di ridurre al minimo le didascalie e l’apparato informativo, di lasciare spazio alle interpretazioni dei visitatori. Criterio di selezione e di affiancamento di opere diverse: credo poco più del buon gusto. Nonostante l’operazione abbia suscitato non poche lamentele critiche, i risultati, anche in termini di risposta del pubblico, sono stati eccellenti. La Galleria ha assunto un aspetto fresco e invitante e ci si è finalmente resi conto dell’immenso patrimonio di opere d’arte di scuola italiana in possesso dell’istituzione. Pazienza se capolavori dello stesso Lucio Fontana o di Alberto Burri stanno in stanze distinte in compagnia di quadri e sculture diversi. Anzi è proprio la caotica mescolanza di stili ed etimi che apre a nuove interpretazioni, o, comunque, serve a suscitare quelle di ciascuno.
La mostra, quindi, può essere un’opera aperta, riprendendo le indicazioni di un famoso saggio di Umberto Eco del 1962 che, come recitava il sottotitolo, si occupava di forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee.
E una mostra può diventare un work in progress che serve ad attivare processi. Si può anche utilizzarla per lanciare una call, cioè un veloce concorso aperto a tutti, attraverso la quale scoprire chi sono gli architetti, altrimenti sconosciuti, che si occupano di determinati temi. Oppure può essere il primo passo per proporre iniziative di utilità sociale attraverso la collaborazione di gruppi di lavoro. É accaduto per esempio con il Padiglione italiano della scorsa biennale (2023), affidato al collettivo Fosbury Architecture il quale ha messo in scena un allestimento socialmente impegnato dal titolo Spaziale, ognuno appartiene a tutti gli altri, che prevedeva, a seguire, attività da realizzarsi nel territorio italiano. Chiusa la mostra e private dalla luce dei riflettori mediatici, però, queste iniziative hanno perso intensità. È successo nel 2016 a TAMassociati, sempre nel padiglione italiano della Biennale. Nonostante le impegnative dichiarazioni, i promessi progetti partecipati e a forte impatto sociale hanno avuto scarso esito. Come era prevedibile. Ma pochi, per non passare da cinici reazionari, si erano sognati di farlo presente durante i giorni di vernice della Biennale, cioè i giorni in cui tutti possono fare i critici.
E veniamo al Padiglione italiano della Biennale di quest’anno, che come abbiamo accennato, è stato curato da Guendalina Salimei ed è stato oggetto di contestazioni, per esempio da parte del Giornale dell’Architettura con un circostanziato articolo di Laura Milan. Secondo Laura Milan, la scelta di Guendalina Salimei di lanciare una call nazionale e poi di non essere stata selettiva, è stata “l’elemento di debolezza di un padiglione deludente”, una specie appunto di rinuncia alla responsabilità della curatela, come sottolinea il titolo dello stesso articolo: Padiglione Italia, in fuga dalla curatela. Un attacco eccessivo che a mio avviso avrebbe dovuto essere articolato diversamente.
La prima osservazione da fare è che la curatrice sconta una colpa non sua. Oramai è costume assodato che queste mostre, nate sotto gli auspici dello Stato, ospitino il numero maggiore possibile di espositori. Così tutti possono dire di essere stati invitati nella più importante kermesse di architettura italiana. In questi giorni sui social era, infatti, tutto uno spettacolo di post, provenienti dai più disparati studi di architettura italiani, che dicevano orgogliosi: “sono stato selezionato”, “sono stato scelto”, “onorato di rappresentare l’Italia”, dimenticando che ad essere scelti erano diverse centinaia.
Guendalina Salimei è stata brava a trasformare questa necessità di ampio coinvolgimento in virtù, organizzando la call e, grazie a questa, ricavando un quadro articolato dei molti progetti per le coste italiane, che era il tema -TERRÆ AQUÆ- da lei proposto. Ha trascurato però due mosse, forse per essere una progettista più che una curatrice, forse a causa del poco tempo a disposizione e degli scarsi fondi assegnati. La prima, di organizzare una chiara tassonomia che permettesse di inquadrare meglio le molteplici strategie messe in campo da tanti diversi studi di architettura. Insomma, una chiave di lettura, comprensibile anche al non addetto ai lavori.
La seconda, di organizzare un buon sistema di didascalie e di ricerca degli autori. È difficile, se non impossibile, ritrovare il proprio video di un minuto all’interno di una giungla di oltre 500. Molti degli architetti, andati al Padiglione italiano per vedere la propria opera (tutti amano vedere la propria opera) non l’hanno trovata facilmente.
L’idea di trasformare una mostra in una call non è, a causa di questo esito non completamente soddisfacente e comunque sperimentale, da buttare. Ma, se si vuole proseguire con mostre che vanno in questa direzione, come sembra nell’ordine delle cose, la strategia deve essere sicuramente affinata. Per quanto riguarda la selezione dei progetti, ma soprattutto per quanto riguarda il processo da attivare. Una mostra che non si prefissa la completezza scientifica, infatti, deve diventare uno strumento per parlare di architettura, per mettere insieme persone diverse, per proporre progetti alle amministrazioni competenti. Insomma – a costo di ripeterci – la sua finalità non è statica ma dinamica, non è più costruire un catalogo scientificamente organizzato e destinato agli studiosi ma di aiutare a costruire proposte operative destinate alla comunità. E solo sul successo di queste ultime si potrà valutare quello della mostra.
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