Salva Milano/Italia: il discrimine tra “nuova costruzione” e “ristrutturazione edilizia” dell’articolo 3, comma 1, lettera d) del TUE.
Le principali novità introdotte alla nozione di ristrutturazione edilizia dal Dl 76/2020 e prima ancora dal Dl 69/2013 hanno fatto sorgere una serie di dubbi interpretativi ed incertezze applicative, dovuti essenzialmente ad alcune criticità del testo normativo.
Tra le varie problematiche oggetto di aperta discussione, particolare attenzione meritano le questioni inerenti alla esatta delimitazione del perimetro della ristrutturazione c.d. “ricostruttiva”. Ci si è chiesto, invero, quali siano le innovazioni, in termini di volumetria ed area di sedime, che possono essere apportate al patrimonio edilizio esistente affinché si possa ragionevolmente rimanere ancorati ad un concetto di ristrutturazione


IN SINTESI
Il Ddl Salva Milano/Italia, approvato dalla Camera dei Deputati il 21 novembre e in attesa del voto in Senato, rappresenta un intervento normativo di grande rilevanza per il settore edilizio e urbanistico nazionale. Negli articoli precedenti abbiamo ricostruito la storia delle indagini ed inchieste della magistratura che è intervenuta adottando una serie di ordinanze di sospensione dei lavori con innumerevoli sequestri dei cantieri in cui sono stati realizzati interventi di presunta natura abusiva: https://diariodiac.it/milano-capitale-delle-costruzioni-in-italia-storia-e-cronistoria-del-caso-milano/. Al fine di fornire un quadro normativo chiaro, che consenta di superare le ambiguità interpretative e di rilanciare lo sviluppo urbanistico della città, il governo ha deciso di introdurre una serie di disposizioni aventi il carattere di interpretazione autentica. Ne ho parlato in questo articolo: https://diariodiac.it/labirinti-9/. Per comprendere l’evoluzione normativa della tipologia ricostruttiva in Italia e del perché si è arrivati al Ddl “salva Milano/Italia”, abbiamo ripercorso la storia delle definizioni di “ristrutturazione edilizia conservativa e ricostruttiva” in Italia (Relazione Unitel 2021-2024 a cura del sottoscritto e dell’Avv. Roberto Ragone, depositata in sede di audizioni all’8° commissione ambiente e territorio del Senato e della Camera sui Ddl rigenerazione urbana e TUE). https://diariodiac.it/il-salva-milano-e-salva-italia-evoluzione-normativa-del-concetto-di-ristrutturazione-edilizia-conservativa-e-ricostruttiva/.
L’articolo di questa settimana continua questo excursus storico concentrandosi sull’innovazione sostanziale introdotta con il Dl 76/2002, con la nuova definizione di ristrutturazione edilizia dell’art. 3 comma 1 lettera d) del TU dell’edilizia.
Il discrimine tra “nuova costruzione” e “ristrutturazione edilizia ricostruttiva”
Le principali novità introdotte alla nozione di ristrutturazione edilizia dal Dl 76/2020 e prima ancora dal Dl 69/2013 hanno fatto sorgere una serie di dubbi interpretativi ed incertezze applicative, dovuti essenzialmente ad alcune criticità del testo normativo.
Tra le varie problematiche oggetto di aperta discussione, particolare attenzione meritano le questioni inerenti alla esatta delimitazione del perimetro della ristrutturazione c.d. “ricostruttiva”. Ci si è chiesto, invero, quali siano le innovazioni, in termini di volumetria ed area di sedime, che possono essere apportate al patrimonio edilizio esistente affinché si possa ragionevolmente rimanere ancorati ad un concetto di ristrutturazione.
Un corretto approccio interpretativo non può non riflettere la profonda modifica, financo concettuale, che la definizione della ristrutturazione edilizia ha subito tra la precedente codificazione e quella ora vigente, espressione di un concetto elastico di ricostruzione. Nondimeno, la premessa indefettibile dell’analisi delle caratteristiche proprie di tale categoria di intervento non può discostarsi oltremisura dai principi generali elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche in vigenza della precedente formulazione normativa.
Ci si riferisce, soprattutto, a quell’orientamento della giurisprudenza, invero prevalente, che ha posto l’accento sulla ratio della ristrutturazione edilizia, che non può che essere il recupero del patrimonio esistente, ossia la necessità di salvaguardare, quantomeno nelle sue caratteristiche fondamentali, un qualcosa di preesistente.
In applicazione di tale criterio ermeneutico, è stato evidenziato, a fondamento della possibilità di ricomprendere nella “ristrutturazione” la “demolizione e ricostruzione”, che non necessariamente si devono conservare tutti gli elementi esistenti, nella loro individualità fisica e specifica, ma che comunque, pur nella possibilità di modificare aspetti anche sostanziali, non possono essere stravolti del tutto la consistenza, l’aspetto e soprattutto la collocazione degli edifici esistenti (tra tutte: Tar Abruzzo, sez. I – L’Aquila, 30.04.2018, n. 179).
La giurisprudenza amministrativa più recente (il cui rilievo sopravvive alle ultime modifiche del testo dell’art. 3 T.U.E.) nel definire finalmente i tratti caratterizzanti della ristrutturazione edilizia, con particolare attenzione a quella ricostruttiva, in coerenza con la progressiva liberalizzazione voluta dal legislatore, ha ribadito che « L’elemento che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella trasformazione del territorio già compiuta, che può avvenire con due modalità operative, una conservativa e una sostitutiva della preesistente struttura fisica, mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente » (Consiglio di Stato, sez. IV, 4.02.2020, n. 907).
Secondo questa interpretazione, il discrimine tra nuova costruzione e ristrutturazione edilizia deve essere individuato nella compromissione (per la prima) o no (per la seconda) di un territorio diverso (cfr: Tar L’Aquila n. 179/2018, cit.). Appare evidente, infatti, che una eccessiva dilatazione del perimetro della ristrutturazione edilizia ne comprometterebbe natura e finalità, portando, nei casi estremi, ad una inammissibile sovrapposizione con la nuova costruzione, se non addirittura ad interventi di radicale trasformazione del territorio che trascendono l’aspetto puramente edilizio.
Per tale ragione, anche con l’impianto normativo vigente si dovrebbe operare con cautela riguardo alle modifiche, ad esempio, dell’area di sedime, evitando di includere in tale tipologia di intervento le delocalizzazioni volumetriche o i trasferimenti di diritti edificatori, che possono essere governati soltanto attraverso processi di pianificazione urbanistica. Ciò anche sulla scorta dei principi desumibili dalle numerose pronunce della giurisprudenza (che non concernono, per ovvie ragioni, il nuovo recentissimo testo, ma che sono perfettamente valide almeno per quanto riguarda il sedime).
D’altronde, l’espresso riferimento operato dal legislatore al “sedime” (che, nelle definizioni uniformi approvate dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni-Comuni del 20.10.2016, costituisce “Impronta a terra dell’edificio o del fabbricato, corrispondente alla localizzazione dello stesso sull’area di pertinenza”) non consente interpretazioni estensive, slegate dal testo letterale della norma, che difatti non contiene alcun riferimento ai concetti di “delocalizzazione” o di “trasferimento di diritti edificatori” (c.d. “dematerializzazione” dello ius aedificandi).
Ristrutturazione edilizia e nuova costruzione: le differenze
“Gli interventi di demolizione e ricostruzione che comportino la realizzazione del nuovo edificio in un’area di sedime differente da quella su cui insisteva il manufatto precedente non può essere qualificato come intervento di ristrutturazione ai sensi dell’art. art. 3, co. 1, lett. d), D.P.R. n. 380/2001.”
Sono queste le conclusioni della giurisprudenza recente che hanno evidenziato che la ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione comporta la realizzazione di un intervento su un’area il cui suolo è già stato consumato dall’esistenza di un edificio e che l’obiettivo degli interventi di cui al D.L. n. 76/2020 in materia edilizia è stato quello di consentire la “rigenerazione urbana” e di scongiurare, pertanto, il consumo di nuovo suolo, anche tramite il riuso di suoli già urbanizzati.
È, alla luce di tali considerazioni, che deve essere inquadrata la ratio della ristrutturazione consistente nella demolizione e ricostruzione con diversa area di sedime: la modifica normativa non ha affatto inteso ricomprendere in questo ambito il caso della demolizione di un edificio sito in un luogo, da ricostruire in un luogo del tutto diverso (più o meno distante dal primo); essa, piuttosto, ha ampliato la possibilità di riutilizzare, anche in modo particolarmente ampio, il suolo già consumato. Diversamente opinando, andrebbe quasi a svanire il confine tra ristrutturazione edilizia e nuova edificazione, distinzione che, invece, rimane ferma anche nel sistema definito dalle recenti modifiche al testo unico dell’edilizia.
“Di conseguenza, il concetto di ristrutturazione non può ontologicamente prescindere dall’apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, in assenza della quale non si ravvisa il tratto distintivo e fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione, atteso che la ristrutturazione è strumentale alla sempre più avvertita esigenza di contenere il consumo di suolo.”
Quindi, la conclusione cui perviene la magistratura è che non è possibile ricomprendere la fattispecie della traslazione dell’edificio ricostruito su un’area diversa da quella in cui insisteva l’immobile demolito nella tipologia della ristrutturazione, essendo la medesima inquadrabile nell’ipotesi di nuova edificazione.
Anche alcune sentenze della Cassazione si orientano nel senso più restrittivo, nonostante l’ampliamento della definizione di ristrutturazione operato dal decreto Semplificazioni del 2020, e affermano che permane comunque la ratio qualificante l’intervento edilizio di ristrutturazione che, postulando la preesistenza di un fabbricato, è comunque finalizzata al recupero del medesimo, pur con le ammesse modifiche. Dunque, la ristrutturazione edilizia, quale intervento sul preesistente, non può fare a meno di una certa continuità con l’edificato pregresso.
Conclusione? Per la Cassazione, pur con le ampie concessioni legislative in termini di diversità tra la struttura originaria e quella frutto di “ristrutturazione” l’unico modo per distinguere l’intervento di ristrutturazione da quello di nuova costruzione è che l’operazione di recupero non può prescindere dal conservare traccia dell’immobile preesistente. Ciò equivale a dire che, con riguardo alla ristrutturazione, non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente.
Per la giurisprudenza, dunque, seppure la recente novella del 2020 abbia contribuito a delineare la possibilità di interventi di ristrutturazione fortemente innovativi rispetto all’organismo preesistente, tanto che alcuni criteri prima utilizzati dalla legge e giurisprudenza, per sancire la corrispondenza tra i due organismi interessarti appaiono via via sfumati o scomparsi …permane il requisito, insuperabile, per cui deve pur sempre trattarsi di interventi di recupero del medesimo immobile ancorché trasformato in organismo edilizio in tutto o in parte diverso. Da ciò discende che va esclusa la moltiplicazione, da un unico edificio, di plurime distinte strutture o, di converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio.
Nel caso in esame si trattava di una palazzina realizzata in sostituzione di un fabbricato ad uso artigianale-deposito situato all’interno del cortile di un super condominio. L’amministratore del condominio ed alcuni proprietari di appartamenti contestavano l’intervento, sostenendo tra l’altro, che non potesse essere considerato alla stregua di intervento di ristrutturazione, ma avrebbe dovuto essere ascritto alla categoria della nuova costruzione.
Un ultimo esempio proprio su uno dei casi oggetto delle indagini della magistratura a Milano
Il TAR Lombardia-Milano 07/08/2024, n. 2353 ha evidenziato che l’art. 10 del D.L. 76/2020 ha modificato l’art. 3 del D.P.R. 380/2001, lett. d), stabilendo che: “nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.”
Il citato art 3 lett. d) ha sottolineato che rientrano nell’ambito concettuale della ristrutturazione edilizia anche quegli interventi che comportano la realizzazione di un edificio diverso, rispetto a quello demolito, per sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, ma la medesima norma deve essere letta alla luce dei principi sopra enunciati, anche per la evidente necessità di delineare un discrimen tra ristrutturazione e nuova costruzione.
Il TAR ha inoltre rilevato che anche la legislazione previgente dava della ristrutturazione una definizione molto ampia posto che l’articolo 3 del Dpr 380/2001, lett. d), nella formulazione antecedente alla novella del 2020, poneva quale unico limite, per poter considerare un intervento di demolizione e ricostruzione alla stregua di un intervento di ristrutturazione edilizia, quello del rispetto della precedente volumetria (in tal senso disponeva il terzo periodo della citata lett. d), derogato, per gli interventi su immobili soggetti a vincoli paesaggistici, dall’ultimo periodo che, per questo specifico caso, imponeva anche il rispetto della sagoma).
Il TAR Lombardia ha quindi sottolineato che, secondo la giurisprudenza, nonostante l’ampia formulazione delle suindicate norme, “si fuoriesce dall’ambito della ristrutturazione edilizia e si rientra in quello della nuova costruzione quando fra il precedente edificio e quello da realizzare al suo posto non vi sia alcuna continuità, producendo il nuovo intervento un rinnovo del carico urbanistico che non presenta più alcuna correlazione con l’edificazione precedente” (cfr. C. Cass. pen. 18/01/2023, n. 1669). Il Collegio ha ritenuto che “il nuovo edificio, sia per le sue caratteristiche strutturali che per la funzione cui era adibito – la quale introduceva un rinnovato carico urbanistico del tutto diverso da quello prodotto dal precedente edificio – non poteva che essere considerato alla stregua di una nuova costruzione.” Per procedere alla sua realizzazione, la controinteressata avrebbe dunque dovuto munirsi di permesso di costruire ai sensi dell’art.icolo 10 del Dpr 380/2001, comma 1, lett. a), e dimostrare che l’area sulla quale esso insiste esprime la necessaria volumetria.
Conclusioni
Dopo aver illustrato, nei precedenti articoli, la storia evolutiva della normativa sull’edilizia demo-ricostruttiva in Italia, la settimana prossima andrò a concludere l’excursus storico trattando della ricostruzione degli edifici nelle aree di rispetto stradale di cui all’art. 2 bis 1 ter TUE ed analizzare i motivi “tecnici/giuridici” che hanno portato i magistrati penali ad emettere le ordinanze di sospensione lavori e sequestri e che hanno portato alla formulazione del Ddl 1987 di interpretazione autentica di precedenti norme di legge.
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