PROGETTO CORALE / 11

Ripensare il commercio di vicinato: il caso Modena e la nuova residenza collettiva temporanea nell’area ex Corni

A breve inaugurerà a Modena, nelle aree ex Fonderie Corni, una residenza temporanea collettiva – leggasi studentato privato – che si configura come uno degli ultimi tasselli della Riqualificazione Urbana pianificata con il PRUSST Fascia Ferroviaria (e con altri strumenti di pianificazione e finanziamento, quali PSA, PREU, PRU, CQ II, PIPERS) sul finire degli anni ’90.

Alla costruzione dell’edificio si sono accompagnate le realizzazioni delle opere di urbanizzazione correlate, ovvero un parco pubblico attrezzato di 6.000 mq, parcheggi pubblici, piste ciclabili e riqualificazione degli attraversamenti pedonali, per connettere funzionalmente e percettivamente l’area dello studentato al contesto urbano circostante.

Ciò che però ci interessa è che il giorno dell’inaugurazione, ad un osservatore anche non troppo attento non sfuggirà che, tra il nuovo edificio e i parcheggi, permarrà un’ampia area recintata, non accessibile e non visibile, a delimitare un “pezzo” di comparto non finito.

Si tratta dell’area che, già nel Piano Particolareggiato del 2006, e poi nella sua variante del 2021, doveva ospitare il cosiddetto commercio di vicinato, quelle piccole attività di vendita al dettaglio e ristorazione, che chiunque “del mestiere”, oggi più che mai, ritiene essenziali per la vitalità, il presidio e il buon carattere urbano di un comparto rigenerato.

Il commercio di vicinato ritorna, come elemento strategico, in ogni pianificazione della Città dei 15 minuti, ritorna nelle visioni di riattivazione delle periferie, negli studi sulla mobilità urbana sostenibile e sulla sicurezza delle città.

09 Set 2025 di Maria Cristina Fregni

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Ma il commercio di vicinato è anche quella destinazione dell’uso che qualsiasi imprenditore o sviluppatore immobiliare ormai considera come “una tassa da pagare”, un costo, e non un ricavo, all’interno del proprio business plan. E che, alla fine, spesso, non riesce a vendere, lasciando piani terra vuoti e parcheggi desolatamente non utilizzati, oppure, se può, non realizza nemmeno, almeno finchè non è obbligato a farlo.

Questo non accade solo a Modena alle aree ex Corni, ma è un fenomeno leggibile in molteplici contesti italiani: nelle grandi città il commercio è sempre previsto ai piani terra degli edifici dei comparti di Rigenerazione, ma parliamo di locali di dimensioni medie, quasi sempre occupati da grandi catene e franchising, con un target di utenza che può contare sul turismo e sui city users ben più che sui residenti del quartiere. Ma nelle città medie e piccole, che sono la forza pulsante dei territori italiani, il commercio di vicinato in teoria è stato ed è sostenuto in tutt’altra chiave, ovvero da un lato come, appunto, presidio del tessuto urbano e riferimento per i residenti, dall’altro come opportunità per l’imprenditoria locale.

I numeri, però, raccontano una storia preoccupante. Secondo Confcommercio, negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso oltre 70mila negozi di vicinato. Non solo dati impressionanti, ma vuoti urbani, che si traducono in strade meno sicure, legami sociali più fragili, quartieri privati dei loro punti di riferimento. E se questo è vero per gli spazi che già esistono, si capisce la scarsa attrattività della costruzione e le conseguente vendita di beni immobiliari a carattere di piccolo commercio, che, in contesti di Rigenerazione, vengono comprensibilmente posti sul mercato a cifre che devono coprire non solo la realizzazione dei “muri” secondo standard sismici ed energetici altamente performanti, ma anche i costi indiretti delle demolizioni e delle bonifiche dell’area, delle dotazioni territoriali, delle manutenzioni delle aree pubbliche (che spesso restano in carico al privato per tempi anche molto lunghi). Tutto questo porta a cifre non abbordabili per il piccolo commerciante locale, che invece prova semmai a cercare uno spazio in affitto nell’immediato intorno, sperando in un “effetto volano” di rivitalizzazione derivante dall’intervento principale.

La riflessione che ne scaturisce è duplice.

Da un lato, è necessaria una azione forte di ripensamento del commercio di vicinato. Molte interessanti iniziative sono già in atto, una su tutte quella del progetto Cities e del Manifesto dell’Identità Commerciale di Confcommercio (https://www.confcommercio.it/-/cities), che, partendo dall’assunto che gli italiani vogliono vivere nei quartieri dove ci sono più esercizi di prossimità, perché questi rafforzano le comunità (per il 64% degli intervistati), fanno sentire più sicure le persone (57%) e fanno crescere il valore delle abitazioni (fino al 26% in più), indaga politiche, sperimentazioni e canali di finanziamento per fare dei piccoli negozi non solo luoghi di acquisto, ma anche spazi di incontro, di scambio culturale e di supporto reciproco delle comunità locale.

All’estero, ma ormai anche in Italia, i tentativi interessanti sono vari: le iniziative Bike to work e Torino Compra vicino sviluppate in Piemonte sono da monitorare ed evolvere. Le edicole che diventano hub e portinerie sociali nelle città francesi sono un altro esempio virtuoso. In generale, il piccolo commercio funziona se va verso l’ibridazione tra ambiti, se è gestito da più realtà o attiva relazioni di rete, se offre non solo merci, ma anche opportunità identitarie.

Dall’altro lato, le norme urbanistiche ed edilizie devono tenere il passo con l’evoluzione del mondo sociale ed imprenditoriale. Non si tratta di spingere su una deregulation; come ha molto ben chiarito Elena Granata nei giorni scorsi, è vero che le norme non devono essere un blocco allo sviluppo economico, ma le norme devono esistere, sono un essenziale strumento di tutela e beneficio per tutti. La sfida è prevedere un inquadramento di regole che sappiano accogliere il dinamismo dei modelli imprenditoriali del commercio e che sappiamo governare l’ibridazione che contraddistingue le nuove attività. Dopo anni di rigidismo, siamo riusciti ad avere negozi di alimentari che fanno anche somministrazione e librerie che ospitano eventi, ora dobbiamo provare ad avere poliambulatori con ristoranti healty e lavanderie che offrono corsi di cucito e babysitting.

Ma la grande opportunità è anche quella di definire i perimetri di una iniziativa di rigenerazione non facendoli necessariamente coincidere con i lotti di intervento e/o di proprietà del proponente, bensì ampliando lo sguardo e prefigurando una rigenerazione che permea l’intorno. Invece di obbligare alla costruzione di nuovi negozi, promuoviamo e rendiamo possibile la riqualificazione di quelli che esistono all’intorno, facilitiamo la logica di sistema con percorsi e connessioni che consentano ai luoghi “nuovi” e a quelli esistenti di agire sinergicamente, moltiplicando l’effetto rigeneratore. Luoghi e percorsi fisici, ma anche gestionali, di finanziamento, di sviluppo temporale.

A chi non è “del settore” possono sembrare banali riflessioni di buon senso, ma chi pratica progettualmente e imprenditorialmente la riattivazione di luoghi urbani capirà perfettamente la difficoltà delle azioni “fuori comparto”, l’innesto di soggetti terzi in accordi convenzionali, l’inadeguatezza normativa alla gestione del “fuori dall’ordinario”.

La sfida è aperta, i soggetti interessati sono molteplici, gli elementi per sperimentare e innovare e le occasioni per farlo sono lì che ci aspettano.

 

 

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