“L’accordo recente tra Francia e Commissione Europea sull’idroelettrico può rappresentare una chiave molto utile anche per l’Italia”. L’ultimo, ennesimo, tentativo è stato srotolato al Forum di Cernobbio di inizio settembre dal neo presidente di Utilitalia e già numero uno di Iren, Luca Dal Fabbro. Il mondo energetico, a braccetto con quello politico, cerca da tempo di forzare ancora una volta la mano con Bruxelles e ottenere il rinnovo automatico delle concessioni degli impianti idroelettrici, l’86% dei quali è in scadenza da qui al 2029 in tutta Italia. E, appunto, l’appiglio più recente con cui argomentare la necessità di questa via è arrivato da Parigi. La Francia passerà da un regime di concessioni ad uno di autorizzazioni, mantenendo intatto il ruolo di primo piano dei grandi e storici operatori. In cambio il colosso nazionale Edf metterà a disposizione del mercato 6 gigawatt di propria capacità. Di qui il tentativo italiano rilanciato da Dal Fabbro: “Anche in Italia quindi è fondamentale che si arrivi, in accordo con il Governo e con le associazioni di settore come Utilitalia, a una soluzione sulle concessioni idroelettriche che permetta la continuità gestionale. Una continuità che ha dimostrato di essere efficiente, sicura e sostenibile nel tempo”. Questo perché “l’idroelettrico è un bene strategico del Paese, da preservare e difendere. Le realtà che possono gestirlo al meglio sono quelle che lo fanno da decenni, con competenza e responsabilità: le multiutility. La difesa degli interessi nazionali deve prevalere su una liberalizzazione estrema senza controllo”.
E, dunque, l’opzione francese è replicabile in Italia? No. E vediamo perché. Partendo dagli argomenti mossi dagli operatori del settore, la difesa della sovranità degli impianti è uno di quelli cardine mosso dalla paura di vedersi sfuggire di mano un asset storico e strategico come questo con l’arrivo di offerte di nuovi soggetti stranieri, specie se non propriamente addetti del settore. Paure legittime, contestualizzate nello studio Ambrosetti-Enel presentato sempre poche settimane fa a Cernobbio. “La garanzia di continuità degli investimenti e un relativo piano di sviluppo mirato, secondo le stime di Teha, consentirebbero di efficientare e aumentare la produzione di energia da idroelettrico del +5% (+2,3 TWh) in uno scenario conservativo e del +10% (+4,5 TWh) in uno scenario ottimistico entro il 2049″, spiega il paper.
I numeri del settore, d’altronde, parlano chiaro: potenza efficiente netta di 22,9 gigawatt; 550 impianti di grande derivazione; 52 TWh di produzione nel 2024 (il 46% del mix rinnovabile, il 15% dei consumi nazionali). Come Pniec comanda, invece, il consumo lordo di elettricità raggiungerà entro la fine del decennio circa 359 TWh, con il 63,4% coperto da fonti rinnovabili. L’idroelettrico contribuirà con 46,9 TWh, confermandosi terza fonte rinnovabile.
Altre argomentazioni usate per confermare la leadership del settore idroelettrico riguardano l’ampia programmabilità della produzione, il grande accumulo su scala industriale, la capacità di mitigare i rischi idraulici. In termini tecnologici, spiega infine il paper Teha, l’Italia riporta un valore di produzione di 37,2 miliardi di euro – seconda in Ue solo alla Germania (47,4 miliardi di Euro) – e superiore alla somma di Francia (16,4 miliardi di Euro) e Spagna (16,1 miliardi di Euro)”.
Venendo, poi, al quadro concessorio: è vero che l’Italia ha una durata della gestione degli impianti tra le più basse in Europa, con un range di 20-40 anni (e 30-50 per i rinnovi) contro nessun limite in Norvegia e Svezia e 75 anni in Francia, Spagna e Portogallo. Di qui la necessità, insomma, secondo il settore, di procedere con la famosa quarta via. Riassegnare le concessioni agli operatori storici. Al massimo mettendo sul mercato una quota di capacità, come accordato in Francia. Con, secondo le stime Teha, l’abilitazione di 16 miliardi di Euro di potenziali investimenti che porterebbero a un beneficio anche in termini di maggiore efficienza degli accumuli, la riduzione delle emissioni di CO2 (fino a 4,5 milioni ton CO2-eq., pari al 65% delle emissioni del Trentino-Alto Adige), per risparmi fino a 1,1 miliardi, 18,5 miliardi di Euro di pil aggiuntivi e la creazione fino a 20.800 posti di lavoro.
Tutto bello ma non si può fare, seguendo il Pnrr. Già, perché proprio il piano nazionale di ripresa e resilienza approvato nel 2021 (a dieci anni dall’archiviazione della procedura d’infrazione Ue seguita al cursus honorum del decreto Bersani e le sue modifiche dal 1999 in poi) prevede lo svolgimento delle gare stabilendo “criteri generali e uniformi a livello centrale, imporre alle regioni di definire i criteri economici alla base della durata dei contratti di concessione, eliminare gradualmente la possibilità di prorogare i contratti (come già stabilito dalla Coste costituzionale italiana), obbligare le regioni ad armonizzare i criteri di accesso ai criteri di gara (per creare un contesto imprenditoriale prevedibile)”. Un impegno per cui l’Italia ha ottenuto il pagamento della terza rata da 18,5 miliardi e quindi impensabile da non rispettare, a maggior ragione per questioni politiche e non tecniche, pena la sospensione o riduzione delle successive erogazioni da Bruxelles (cosiddetto reversal).
Come spiega un paper dell’Istituto Bruno Leoni, quella delle procedure competitive – ovviamente se ben regolate – è l’unica via per “stabilire l’equilibrio nella ripartizione della rendita fra remunerazione del capitale, reinvestimento nell’impianto e gettito a favore della collettività (oltre ovviamente ad altre componenti fondamentali quali quelle legate all’ambiente o all’uso delle acque)”. E anche in termini di investimenti, impedire la quarta via per aprirsi al mercato comporterebbe investimenti ben più importanti, pari almeno ad un range di 18-23 miliardi (contro i 16 sopra citati). Anche ragionando sui prezzi, secondo stime accademiche citate dal paper dell’Ibl scritto da Carlo Stagnaro e Serena Sileoni, oltre la metà della rendita degli impianti viene catturata dai concessionari. Dunque, un ulteriore vantaggio colto da un contesto normativo evidentemente fragile e distorto. Paragonare, poi, l’Italia alla Francia è impraticabile per il regime concessorio a carattere statale dei cugini d’oltralpe, con Edf unico operatore. Mentre da noi sono molteplici gli operatori e, come richiamato sopra, le gare sono a base regionale. Di più: Parigi ha il nucleare come fonte energetica principale, noi no.
E’ chiaro, insomma, che dal lato dei grandi operatori c’è la voglia e la necessità di dare seguito a un cursus gestionale storico. Ma l’Italia deve uscire da questo impasse altrettanto pluridecennale. Una volta per tutte. Una situazione, inoltre, che coinvolge tanto gli impianti idroelettrici quanto le autostrade, gli stabilimenti balneari. Dunque, replicare l’eccezione vorrebbe dire ancora una volta estenderla anche ad altre situazioni altrettanto incancrenite agli occhi di Bruxelles.