INIZIATA LA COP29 A BAKU

Raddoppio del Tap: i CONTI non tornano. L’analisi del think tank Ecco

Secondo Giulia Signorelli, responsabile decarbonizzazione del think tank energetico, “l’accordo per portare da dieci a venti miliardi di metri cubi annui è assolutamente incompatibile con lo scenario Fit for 55”. Anche per le casse azere, sia nello scenario di massima produzione che di minima, saranno a rischio tra il 50 e il 70% delle entrate. Alla kermesse azera il vero obiettivo, intanto, è quello di rivedere il fondo globale da 100 miliardi l’anno per i Paesi in via di sviluppo. Ma chi lo pagherà?

11 Nov 2024 di Mauro Giansante

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Si è aperta ieri la ventinovesima edizione della Cop, la conferenza mondiale delle parti che ogni anno riunisce Stati e associazioni varie per rinnovare fino al 22 novembre il dibattito e gli impegni contro i cambiamenti climatici. “Il tema principale di quest’anno è la finanza climatica”, spiega a Diario Diac Giulia Signorelli, responsabile decarbonizzazione del think tank Ecco. “Il nuovo obiettivo è superare i 100 miliardi di dollari fissati alla Cop15 di Copenaghen del 2009 per il new collective quantified goal da destinare ai Paesi in via di sviluppo”. Si punta a passare dai miliardi ai triliardi. Lo scorso anno a Dubai si raggiunse un risultato definito storico sull’inserimento della cosiddetta formula transitioning away dai combustibili fossili verso le rinnovabili. Quale struttura dovrà avere questo nuovo impegno? “Il nuovo modello di finanza dovrà prevedere l’impiego di risorse pubbliche da banche multilaterali e privati”, dice Signorelli. Infatti, il vero problema di questo Ncqg è che non è stato rispettato il target previsto per il 2020 e soltanto nel 2022 sono stati raccolti 115 miliardi, sebbene secondo il Center for Global Development almeno 27mld fossero già previsti da altri fondi e dunque già messi in conto. In più, rimane ampia la distanza rispetto alle richieste dei Paesi destinatari, che chiedono almeno mille miliardi. Secondo l’Unctad, l’organo delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, occorreranno addirittura 1.100 miliardi di dollari per il 2025 e 1.800 miliardi di dollari per il 2030. Inoltre, se è vero che in base agli accordi di Parigi di nove anni fa i maggiori finanziatori dovrebbero essere i “Paesi sviluppati”, dall’altro lato va detto che parliamo di una definizione stilata nel 1992 dall’Unfcc, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, e da allora alcuni Paesi come la Cina e l’India non possono più restarvi fuori. Ma chi pagherà per raggiungere gli obiettivi di giustizia climatica? Secondo un’analisi di Ecco, “i ministeri delle finanze possono influenzare in modo significativo il successo dell’NCQG, anche nelle discussioni parallele all’interno del G20 e di altri forum finanziari internazionali, per arrivare ad allineare tutte le strutture finanziarie alle priorità climatiche, ottimizzando le risorse e definendo quadri normativi che incoraggino flussi di capitale verso i Paesi in via di sviluppo”.

“Malgrado uno scetticismo iniziale, sta pian piano scemando la negatività sulle possibilità di riuscita del nuovo accordo”, dice Giulia Signorelli. “Anche se da molti questa Cop viene considerata come transitoria verso l’appuntamento ben più atteso del prossimo anno a Belem, in Amazzonia”. Probabilmente perché ritenuta più credibile dalla località ospitante rispetto alle ultime sedi: Baku, Dubai, Sharm el-Sheikh. “Teniamo anche conto – aggiunge la ricercatrice di Ecco – che entro febbraio del prossimo anno gli Stati dovranno consegnare i rispettivi Ndc, acronimo di National Determined Contributions sugli obiettivi climatici al 2035-2040. Il riferimento dei target è Parigi 2015 con l’impegno a non superare gli 1,5 gradi di temperatura globale”. Come ricorda Signorelli, “Brasile ed Emirati hanno già presentato i loro, attendiamo quelli di Azerbaigian, Regno Unito e Stati Uniti. L’Unione europea, invece, consegnerà [non sappiamo se a Baku, ndr] un documento collettivo frutto della sintesi dei Piani nazionali energia e clima che farà fede all’obiettivo 2040 di riduzione del 90% delle emissioni”. Attualmente, però, mancano ancora dodici Pniec all’appello. Infine, in occasione della strategia 2050 è probabile che anche la Turchia presenterà alla Cop29 il suo Ndc. A complicare, però, il mood delle aspettative sulla conferenza, secondo la gran parte degli osservatori, c’è la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Dato pressoché per assodato un nuovo ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi, secondo un’analisi di Ecco “se la nuova amministrazione Trump rispettasse quanto dichiarato in campagna elettorale, lo sforamento dell’obiettivo sul clima di 1.5 sarebbe quasi una certezza. Questo è dovuto soprattutto al peso globale degli Stati Uniti, che vale ancora l’11% delle emissioni. Il Paese è inoltre il secondo maggior donatore di finanza per il clima dopo l’Unione europea e il primo contribuente alle casse delle Nazioni Unite”. Al momento il piano bideniano Ira è tornato ad essere un’incognita per gli investimenti green, così come al contrario tornato possibili nuove operazioni di fracking. Gli antidoti al rischio statunitense con The Donald di nuovo al potere, a detta del think tank, sono rappresentati: dal multilateralismo degli Usa; dalla cooperazione tra altri attori internazionali quali Europa, Cina ma anche Brasile, India, Sudafrica e Turchia e, infine, dall’opinione favorevole alla transizione verde di società e imprese anche in America.

Tornando all’Azerbaigian, come noto parliamo di un petro-stato. Il suo gigante energetico nazionale è Socar, dove per anni ha operato l’attuale ministro dell’ecologia e delle risorse naturali Mukhtar Babayev, l’uomo di governo che dovrà tirare le somme della Cop. Ma Baku ha varato anche una strategia per sviluppare le energie rinnovabili: il piano socio-economico 2022-2026 punta al 24% della produzione elettrica entro il 2026 e al 30% entro il 2030. Sui rapporti con l’Italia, Signorelli spiega che “siamo un partner molto importante perché importiamo il 57% del petrolio azero – rappresentando così il primo Paese di destinazione – e il 20% di gas”. Per la ricercatrice, “l’accordo sul raddoppio della capacità di esportazione di gas tramite il Tap – la pipeline greco-turca che è collegata alla tratta Tanap e arriva fino alle coste pugliesi passando per l’Albania – da dieci a venti miliardi di metri cubi annui è assolutamente incompatibile con lo scenario Fit for 55”. Tradotto, bastano le infrastrutture esistenti e i volumi attuali sia per svincolarsi del tutto dal gas russo, ed è un bene, sia in base alle prospettive future di domanda. “Basta leggere le proiezioni dell’Oxford Institute for Energy Studies e dell’Iea sui rischi di vednita delle quantità in più di gas da qui al 2030”, fa notare Giulia Signorelli. “Sia l’Italia che l’Azerbaigian, malgrado sia un Paese ancora basato sui combustibili fossili, dovranno tenerne conto”. Anche perché se da Bruxelles vi sarà sempre meno richiesta, Baku tenderà ad investire meno in nuovi giacimenti: si parla di un rischio tra il 50 e il 70% per le entrate pubbliche in caso di mancata diversificazione economica. “Il mancato rinnovo del contratto per le forniture di gas alla Turchia dal giacimento Shah Deniz – spiega l’analisi sui rapporti Italia-Azerbaigian di Ecco – e le richieste vincolanti raggiunte di soli 1,2 Mld mc/a rispetto ai 10 previsti dagli accordi tra Italia e Azerbaigian sono infatti una riconferma che le attuali condizioni di mercato non sono adeguate a sostenere gli investimenti necessari allo sviluppo di nuovi giacimenti e potenziamento di infrastrutture”. Intanto, però, più volte l’ad di Tap Luca Schieppati ha ribadito che in futuro il gasdotto potrà trasportare anche idrogeno.

Guardando, infine, a quale contributo potrà arrivare direttamente dal nostro Paese, per Signorelli “ci si aspetta il rinnovo del contributo da 100 milioni dal Fondo perdite e danni in virtù della leadership al G7 e del ruolo che ricopre Roma anche in senso al G20”. La scorsa settimana, il Parlamento italiano ha votato alcune mozioni sull’impegno del Governo Meloni alla Cop29. Tra queste figurano la fornitura dello 0,7% del Pil per gli aiuti allo sviluppo al 2030, destinando la metà delle risorse (cioè 7,9 miliardi in base al Pil 2023) al clima. E poi, il rinnovo del Fondo di adattamento con i proventi dagli Ets e soprattutto l’accelerazione sul piano TeraMed, l’iniziativa che punta a un obiettivo comune di 1 Tw di capacità installata di fonti rinnovabili nella regione del Mediterraneo entro il 2030. Tutte queste mozioni sono state approvate da maggioranza e opposizioni, come fa notare il direttore di Ecco Luca Bergamaschi “spetta al governo seguire il mandato del Parlamento o ignorarlo”.  Un rapporto di Oxera presentato ieri mattina alla Cop ha evidenziato che negli ultimi dieci anni gli eventi meteorologici estremi legati al clima sono costati all’economia globale più di 2 trilioni di dollari. L’Italia è al settimo posto nella classifica degli impatti economici con costi per 35 miliardi di dollari.

 

 

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