Con il racconto della scrittrice e regista teatrale ricordiamo la tragedia delle morti sul lavoro

Due ciliegie

«Due chili di ciliegie, prendo oggi, due.
Rosse due volte, così rosse che quando le mordi ci si colora le labbra, ti ricordi? Prendevo due ciliegie, quelle che rimangono attaccate col picciolo, io una e tu l’altra, e il morso tirava fuori il rosso che mi tingeva le labbra, quanto ti piaceva… Piaceva a te e pure a Gino

15 luglio

15 Lug 2024 di Emilia Martinelli

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Due ciliegie

«Due chili di ciliegie, prendo oggi, due.
Rosse due volte, così rosse che quando le mordi ci si colora le labbra, ti ricordi? Prendevo due ciliegie, quelle che rimangono attaccate col picciolo, io una e tu l’altra, e il morso tirava fuori il rosso che mi tingeva le labbra, quanto ti piaceva…

Piaceva a te e pure a Gino. Piaceva a tutti e due, a te e a Gino, padre e figlio, marito e amore di mamma, belli uguale, forti tutti e due, lavoratori assai, sempre, pure la domenica.

Allora io, appena le vedevo, a maggio, le prendevo al banco di Filippo o dove capitava, al Mercato di piazza Vittorio. L’importante era prenderle rosse e col picciolo che le teneva unite, come eravamo uniti noi, come eravate uniti voi.

Quella domenica tu volevi fare gli straordinari, perché era giugno e volevi mettere i soldi da parte per andare tutti al mare, ad agosto. Volevi prima andare dai tuoi a Napoli, a salutare tutti i cinque fratelli tuoi e poi a Praia a Mare, una casetta, la spiaggia, il gelato il pomeriggio. E la vita era tutta qua per noi.

“La famiglia e il lavoro al primo posto” mi dicevi sempre, e perciò stavamo a Roma. Ci eravamo trasferiti da Napoli, appena dopo sposati, perché c’era più lavoro. Eri il carpentiere chiuù bell’ch c’steva a Roma; gli occhi neri, le spalle grandi, il cuore buono. “Il lavoro nobilita l’uomo”, dicevi, “chi sei se non fatichi?”, e così hai fatto sempre, hai lavorato, per farci stare bene, per portarci al mare, farci i regali di Natale, farci mangiare e per darci l’esempio, perché i nostri figli, Gino e Francesco, capissero che nella vita bisogna faticare per portare avanti una famiglia, per vivere, per avere dignità.

Dignità, m’ fa rivolta’ oggi ’sta parola, ancora m’ fa ’ncazzà.

Quando vado al Mercato guardo la gente che fa la spesa, le mamme che passeggiano con i loro figli, come facevo io con i miei, che scherzano con Filippo del banco di frutta e verdura, e io sto in fila, aspetto il mio turno, gli occhi sulle ciliegie, e il pensiero a te, a voi, a tutte le volte che mi mettevo le ciliegie a orecchino, quelle col picciolo unito a due, e tu e i bimbi ridevate mentre sfilavo come una modella,  poi tu correvi a me, con un morso ti mangiavi l’orecchino e mi lasciavi un bacio rosso di ciliegia sopra al collo. Mi prendevi la vita con le mani tue forti e mi stringevi a te, ma io ti cacciavo ridendo e ti dicevo: “E dai Sandro, ora no, ci sono i bambini”; allora tu ancora con la ciliegia in bocca, prima di allontanarti mi mangiavi un po’, masticavi pure la carne mia insieme alla polpa rossa, appassionato con gli occhi e con il corpo, ridevi e dicevi: “E mandiamoli dai nonni ’ste creature, o mettiamoli a dormire”; e i bambini anche se non capivano niente ridevano, Gino rideva assai, figlio mio bello ancora non sapeva niente.

Quella domenica ti eri svegliato all’alba, eri partito per il cantiere, faceva caldo, era il 30 giugno, le ciliegie rosse erano sul tavolo, ne hai prese due, una te la sei mangiata insieme al caffè l’altra l’hai data a Gino che aveva 5 anni, si era svegliato perché ti voleva salutare, e gli hai detto: “Questa mangiala tu”; e lui l’ha mangiata stando in braccio a te, lasciandosi coccolare dal dolce tuo e da quello della ciliegia.

Sei uscito, quella mattina non mi hai baciato, lo facevi sempre, ma quella mattina no, perché un po’ non ti andava di uscire, avresti voluto rimanere a casa con noi, fare una passeggiata e prendere un gelato. Ma al lavoro non si può dire di no. Eccola qua la dignità del maschio lavoratore.

Mi ricordo solo il tuo “tornate a dormire che è presto” e il tumulto della porta chiusa.

Si è riaperta solo ore dopo, solo per venire a vedere te, io a lavoro da te.

Mi avevano chiamato dal cantiere: “Signora, è meglio se viene lei qui oggi, suo marito non si sente bene”; ho attaccato il telefono, chiamato la vicina per farmi guardare i bambini e sono corsa in macchina, fino all’Eur. E mentre guidavo pensavo: “Ecco qua so le ciliegie, chissà quante ne ha mangiate ieri sera e ora gli è venuta la colica”, e più me lo dicevo, più in realtà mi venivano pensieri brutti, quando mai tu non eri tornato a casa da solo, figurati se ti fermava un mal di pancia, dovevo correre, dovevo vederti, volevo solo arrivare e togliere i pensieri brutti. E arrivai.

Stavi sdraiato a terra, c’era un rosso che ti era uscito dalla testa, stavi lì immobile, tutto storto, in mezzo al rosso. Stavi lì, ma non c’eri più, era il 30 giugno e avevi 35 anni. Pure io stavo lì, mi sentivo morta, ma ero viva, il sangue mio rosso scorreva ancora nelle vene. E dovevo essere viva, dovevo tornare a casa e dire ai nostri figli che papà loro era morto sul lavoro. Caduto da una scala di due metri, senza casco di protezione.

Perché senza casco? Mille risposte ho sentito in questi anni, nessuna che valga la pena di essere ricordata.

Sono tornata a casa e abbiamo ricominciato io e i figli miei, Gino e Francesco, che avevano cinque e otto anni, Gino e Francesco che son cresciuti con l’idea del padre che lavorava sempre, perché era giusto lavorare, Gino e Francesco, che abbiamo superato tante cose insieme, siamo stati pure felici ancora. Sono cresciuti, Gino elettricista e Francesco impiegato, Gino che voleva essere proprio come papà suo, Francesco che voleva vivere e basta per dimenticare un po’ di dolore.

E io, io continuavo ad andare a fare la spesa al Mercato, che prima stava all’aperto in piazza e poi è passato al chiuso, dentro la caserma Sani, come un po’ si è chiuso il cuore mio. E cercavo sempre le ciliegie perché Gino le voleva, piacevano pure a lui, gli ricordavano il tempo in cui papà tornava a casa. Sono stati forti i figli nostri, mi hanno dato forza.

E la forza la devo trova’ pure oggi. E ci devo andare pure oggi al Mercato, oggi fanno 29 anni che sei morto tu, e come ogni anno le devo comprare le ciliegie, e devo correre che è tardi perché Filippo a quest’ora le ha già finite.

È tardi ma non ho la forza.

Stamattina mi sono svegliata all’alba,  avevo tutta casa da rimettere a posto.

Ieri ho visto Gino e Francesco con mogli e figli, abbiamo fatto festa, era san Pietro e Paolo, e abbiamo approfittato per stare tutti quanti assieme. Ho fatto la spesa il giorno prima e ho cucinato tanto: il ragù, la parmigiana di melanzane, le cotolette, l’impepata di cozze. Francesco ha portato il vino e Gino ha portato il millefoglie.

Pareva un pranzo di quelli che facevamo a Napoli coi fratelli tuoi. E abbiamo fatto tardi, abbiamo giocato coi bambini, Gino li rincorreva come facevi tu con loro, correvano per tutta casa, hanno pure rotto la statuetta di Capodimonte che ti piaceva tanto, ma non fa niente, che c’importa di una statuetta che si è rotta, era festa, eravamo tutti e sembrava ci fossi pure tu con noi a ridere e scherzare. Francesco mi ha riempito di baci, ha sempre detto che mi doveva dare i baci suoi e i tuoi. Sono stata così contenta che non mi andava neppure di pulire, me li volevo godere i figli nostri, i nipoti nostri che tu non li hai visti, ma sono quattro capolavori, uno chiù bell’ e n’altro.

Mi devo sbrigare a mettere a posto, ma non mi sbrigo perché ho saputo una cosa, Sandro, e te la devo dire.

C’ha ragione Francesco. Non vuole più neppure attaccare un quadro, lui lavora in ufficio e non ne vuole sapere di lavorare con le braccia, non ne vuole sapere di morire.

Stamattina è passato di qua, non passa mai la mattina. Erano le 10.30 e lui di solito lavora a quell’ora. Ma non aveva il coraggio di dirmelo, l’ho capito io, dalla faccia che aveva.

E i piatti che stavo mettendo a posto sono finiti a terra, e stanno ancora là, a terra scamazzati sotto i piedi miei, come si è scamazzata la vita mia, un’altra volta, uguale uguale.

E te lo devo dire. Posso aspettare ancora un po’ per uscire, tanto Filippo le mette da parte le ciliegie per me.

Ma te lo devo dire: Gino è morto. Sì, il figlio nostro è morto.

Gino oggi è andato a lavorare, aggiustava l’impianto elettrico di un’abitazione privata, il proprietario ha dimenticato di dirgli che non aveva il salvavita, è morto fulminato il figlio nostro, a terra come te. Trattato da animale, come te.

Padre e figlio tutti e due sul lavoro, che a raccontarlo non pare vero a nessuno, non pare vero neppure a me, neppure a te.

“Morti bianche” le chiamano, ma quando penso a te e al figlio nostro, mi torna solo il rosso, del sangue e delle labbra mie di ciliegia che vi baciavano.

Ma io oggi voglio andare ancora a comprare le ciliegie, come una pazza, col dolore in petto forte, perché oggi le mangiamo insieme, tutti e tre, io tu e Gino.

Ve ne siete andati, padre e figlio, attaccati come le ciliegie, a due… a due».

 

dal libro di  Emilia Martinelli e Angela Rossi, “Al di là dei frutti”, Iacobelli Editore, 2015

 

Emilia Martinelli, nata a Napoli nel 1974, storyteller nell’ambito della valorizzazione di beni culturali, regista e autrice, insegnante di teatro, educatrice. Il lavoro di autrice parte sempre da ricerche sul campo, dall’ascolto di storie vere. Collabora e ha collaborato col Teatro Brancaccio, il Teatro di Roma. Ha lavorato anche in contesti “al limite” come carceri, centri di accoglienza, periferie, e poi con donne vittime di violenza, persone disabili, minori a rischio. È fondatrice e direttrice artistica della compagnia fuori contesto dal 2005 e dal 2013 del Festival “Fuori Posto. Festival di Teatri al limite”. Dal 2020 è socia della società̀Hubstract Made for art e cura i contenuti, le installazioni e performance site specific.

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