L'INTERVISTA DEL LUNEDì
Robiglio: Homes4All disinnesca processi degenerativi, finanza in cerca di impegno sociale. “Rigenerare è rendere abitabile un territorio”

Matteo Robiglio, architetto, professore ordinario al Politecnico di Torino, uno dei massimi esperti di rigenerazione urbana in Italia, nel 2019 decide di impegnarsi su un terreno nuovo, più sociale che professionale, costituendo la Fondazione Impact Housing e la società benefit Homes4All.
Da quale visione è nata, architetto Robiglio, questa iniziativa e quali risultati ha prodotto finora?
Homes4All nasce un po’ per caso e un po’ per destino. Ci siamo trovati con un carissimo amico, che si occupa di finanza, a osservare da vicino, per ragioni personali, uno sfratto esecutivo. L’ingresso nell’emergenza abitativa è un meccanismo che ricorda la macchina della tortura della colonia penale di Kafka: produce un’infinita fatica e sofferenza con scarsissimi risultati economici. Non ci sono ricchi che rubano ai poveri, perché perdono tutti, perde la banca, perde la famiglia che in genere esplode, perde anche la città. Allora cominciamo a chiederci ‘cosa si può fare?’. La prima risposta è istintiva: raccogliamo risorse, compriamo alloggi e iniziamo a sostenere le azioni della città di Torino sull’emergenza abitativa, cioè forniamo quegli alloggi che né la città né gli ex IACP riescono a produrre.
Siamo già nel cuore della questione abitativa.
Una delle cose che ha messo molto bene in chiaro Lorenzo Bellicini nel suo articolo di qualche giorno fa su Diario DIAC è proprio questa: abbiamo smesso di produrre case. I programmi di riqualificazione urbana sono stati manutenzione del patrimonio esistente a saldi invariati. (cliccare qui per leggere l’articolo di Bellicini)
A cosa porta la vostra riflessione di allora?
Costituiamo un veicolo di capitale che è anche una Srl benefit. È un soggetto interessante perché attrae capitali, ma non completamente libero, perché come benefit è sottoposto a valutazioni e certificazioni periodiche, almeno annuali: uno strano ibrido che non piace a destra, ma neanche a sinistra, perché, a differenza di un’impresa sociale, può distribuire utili. Comunque risolviamo il caso personale. E, avendo un background di ricerca e di riflessione sulle forme abitative, ci chiediamo se questa soluzione si possa generalizzare.
Come fate il primo salto di scala?
Il Presidente del Consiglio di allora, Conte, lancia i fondi per l’innovazione sociale e noi vinciamo, in partner con Città di Torino e il gruppo Unicredit, un grant di un milione e mezzo di euro. Questo ci dà la convinzione di avere benzina per arrivare dall’altra parte dell’oceano, quindi partiamo. Poi scopriamo, nel mezzo della traversata, che non abbiamo tutta la benzina che servirebbe, perché, per esempio, un terzo di quel grant è ancora oggi da incassare. Nel frattempo, però, si sono mosse tante cose e ce la facciamo ugualmente.
Ma come vive questa esperienza l’architetto Robiglio impegnato nel settore abitativo?
Nella motivazione a costituire Homes4All c’era anche un po’ della frustrazione dell’architetto, maturata nel periodo della crisi immobiliare 2009-2011, quando vedevamo “morire” i nostri clienti a cui da anni dicevamo bisogna lavorare sull’abitare, intercettare nuove domande, capire come cambia la demografia e ci sentivamo rispondere che è andata sempre bene così, che a Milano non va il trilocale, che loro, gli immobiliaristi, sanno come si fanno le case e gli architetti al più possono metterci una forma accattivante. Homes4All è stata, quindi, anche il modo per ricreare un nuovo centro, per riguadagnare il controllo sul processo di produzione, sia pure con le semplificazioni drastiche che si devono fare quando si lavora su patrimoni acquisiti a costi molto bassi. Non ti dai mirabolanti obiettivi di santità energetica, non pensi di risolvere tutti i problemi in un colpo, esci dal film del progetto pilota su cui il mondo dell’architettura naufraga sempre molto volentieri e provi invece a parlare al mondo della finanza.
Quali risposte avete avuto?
Abbiamo raccolto 6 milioni di euro di capitale che non servono a finanziare operazioni, ma a far andare la nostra macchina. I nostri 175 azionisti, che per grandissima parte non sono investitori delle costruzioni o dell’immobiliare, entrano nell’operazione attraverso club territoriali e ci raccontano una verità sorprendente per un architetto (forse meno per l’altro fondatore Mario Montalcini che già lavorava con la finanza): se costruisci un trend di azione credibile, scopri che c’è una finanza molto motivata a produrre impatto sociale che spesso non trova attività su cui scaricare il proprio potenziale.
È una verità confortante.
Sì e anche uno straordinario moltiplicatore di relazioni. Ci chiama “Presa diretta” per partecipare a una trasmissione, ci cominciano a offrire immobili di tutte le taglie e in tutte le città e scopriamo cose che sono fuori dei radar. Per esempio, tocchiamo con mano una domanda drammatica di alloggi che arriva dall’industria manifatturiera, pronta a investire nell’housing perché oggi l’abitazione è il vincolo principale all’attrazione di lavoratori che mancano.
Il piano casa di Confindustria.
Sì, riscontrato sul campo, nelle Langhe o nella Marca trevigiana o nel basso Appennino romagnolo, territori di grande produttività. Fa impressione che realtà aziendali fino a qualche tempo fa chiuse nei loro stabilimenti a produrre occhiali o tondini, ora si rendono conto della loro interrelazione con il mondo fuori e con i problemi fuori.
Prima di affrontare il tema di questa consapevolezza nuova dell’impresa, vorrei sapere quale sarà il vostro prossimo salto di scala. Cercate ancora una risposta finanziaria oppure organizzativa?
Entrambe. Stiamo lavorando su tre ordini di ragionamenti. Primo, la costituzione di un fondo immobiliare, per cui siamo in fattibilità molto avanzata, con una proposta presentata prima dell’estate ai nostri azionisti e la valutazione di due Sgr. Questo servirà a stabilizzare in modalità non occasionale la finanza necessaria per le operazioni immobiliari. Secondo, per crescere abbiamo bisogno di altra finanza e stavolta la stiamo cercando anzitutto presso i gruppi bancari, in forma di partecipazione al capitale di rischio, non in forma di debito, ma è un salto che passa anche attraverso l’azionariato diffuso, il crowdfunding. Terzo, la costruzione di una struttura di disseminazione territoriale decentrata, una sorta di franchising, cercando di replicare questo metodo di attivazione di cellule di reti locali. Una rete territoriale di Homes4All.
In quali territori state lavorando?
Il nostro patrimonio al momento è localizzato in Piemonte e in Liguria, ma due anni fa era solo a Torino. Prima dell’estate abbiamo acquisito un edificio di 43 unità a Genova che stava andando in dismissione. Avevamo un’iniziativa in Lombardia che è stata vittima innocente del caos di Milano. Ci stiamo spostando a guardare la mappa, che alcuni hanno intelligentemente suggerito, di una grande Milano collegata al trasporto pubblico ed è vero che come ti allontani di qualche stazione dai nodi, cominci a trovare aree interessanti. Stiamo lavorando in Puglia, in Emilia-Romagna, in Toscana, in Veneto, ci hanno invitato in Alto Adige. A Palermo abbiamo iniziato a collaborare con alcuni soggetti locali del gruppo di Paola Viganò. Insomma, abbiamo molte piste aperte.
Avete incontrato criticità date dal contesto, dalle leggi, dalla cultura, dalla diffidenza del mondo delle imprese?
Direi di no. C’è la criticità di chi ti guarda e dice “tanto non funziona”, ma è un classico nei racconti dell’innovazione. Una criticità viene dalle proprietà che ti vengono proposte perché non sono mai pronte per essere lavorate, mancano sempre elementi di conoscenza. Ma questa è una criticità che riguarda tutto il mercato. Non vedo criticità sulla selezione delle persone perché ci vengono indicate dai servizi sociali delle città in cui lavoriamo. Ci occupiamo dell’accompagnamento sociale con cooperative sociali partner, che seguono le famiglie insediate. Non mi preoccupo neanche della riforma urbanistica perché una delle cose che mi piace di questo modello è che lavori su un oggetto che esiste de iure condito e non su un oggetto benaltrista, su quello che potrebbe diventare.
Però uno dei quattro output di cui parla la vostra Relazione di impatto è la rigenerazione urbana.
Noi lavoriamo su piccole dimensioni e nella stragrande maggioranza su immobili esistenti. Il nostro contributo alla rigenerazione urbana è operare sul tessuto abitativo. Facciamo disinnesco di processi di degenerazione urbana, come quando falliscono i condomini: pezzi di città che percorrono quella strada discendente, si comincia con lo spazio pubblico, poi lo spazio commerciale, ancora l’infrastruttura di welfare, ma si arriva anche alla proprietà immobiliare. Noi interveniamo acquistando, stabilizziamo condomini, evitiamo fallimenti, rimettiamo persone all’interno di abitazioni inutilizzate: questo è il nostro contributo alla rigenerazione urbana.
C’è anche il tema dello sviluppo di modelli innovativi dell’abitare?
Stiamo concludendo un lavoro finanziato dalla Fondazione con il Sud nel centro storico di Taranto, in cui abbiamo provato a costruire modelli di sviluppo ibridi per valorizzare il potenziale di riqualificazione a fini turistico-ricettivi. L’obiettivo non è innescare processi selettivi, ma anzi retrocedere una parte della plusvalenza alla creazione di housing sociale e alla stabilizzazione della popolazione residente. Stiamo parlando di un quartiere dove nel 1940 abitavano 40mila persone, oggi non arrivano a quattromila. Oppure cerchiamo, con altri progetti ibridi, di costruire modelli di housing intergenerazionale, con un ampio coinvolgimento degli studenti.
Dicevamo di una diversa consapevolezza dell’impresa. Anche nel mondo delle costruzioni sono sempre più frequenti imprenditori che capiscono come la rigenerazione urbana sia rigenerazione umana, che il contenuto è importante quanto e forse più dei contenitori, che il sociale è ormai un aspetto decisivo nel loro lavoro. Condivide questa impressione?
C’è sicuramente più consapevolezza che è diventata fondamentale non solo l’abitabilità dentro la casa, la residenza, ma anche l’abitabilità intorno alla casa. La rigenerazione urbana è favorire l’abitabilità di un territorio, rendere un luogo accessibile all’abitare. Ci sono i servizi di prossimità, anche se poi non tutto si riduce alla città dei 15 minuti. Se voglio andare a teatro o all’università o al museo, entrano in gioco connessioni metropolitane che richiedono investimenti la cui regìa non può che essere pubblica. Abitabilità è anche mobilità perché altrimenti si ricostituisce quella condizione di segregazione spaziale che, sommata alla segregazione etnica, è un grande produttore di marginalità, per fortuna da noi meno che in altri Paesi, come la Francia. E, a proposito di spazi pubblici, sta diventando fondamentale l’abitabilità dello spazio pubblico aperto. Penso a Edoardo Zanchini che con il Piano di adattamento climatico di Roma affronta una sfida sul benessere dello spazio aperto, sull’ombreggiamento, sul rinverdimento. Abbiamo lavorato con Land al restauro del Parco del Valentino a Torino, con fondi PNRR. Abbiamo riforestato, ripavimentato con asfalto drenante, la temperatura degli spazi aperti si è abbassata di 2-4 gradi rispetto a prima. Abbiamo costruito un prototipo buono per i prossimi cinquant’anni.
Che lezione trae dalle inchieste di Milano?
Penso che si sia scambiato un problema di policy con un problema di reati. Il rischio molto alto è che passata la tempesta – quando si scoprirà che i reati non ci sono o sono molto inferiori a quello che si è ipotizzato – non avremo fatto passi avanti. Perché il dibattito è stato spostato su un piano pan-penalista su cui si è innestato pure un tema di disuguaglianza, mal posto, mentre sarebbe utile un dibattito non radicalizzato sulle policy. Il tema dell’uguaglianza non si gioca tra piazza Duomo e Parco Sempione, ma si gioca sulla scala metropolitana larga. In una città che vuole essere globale, alcune parti di territorio non hanno il compito di rispondere alla domanda residenziale, ma devono essere il luogo dove la città dialoga con una rete sovralocale di scambio e di connessione internazionale. Penso che il compito della policy sia connettere e rendere belli altri luoghi, oltre il confine comunale di Milano, dove la casa costa la metà di quanto costi a Milano. Questo non per gentrificare Rozzano ma per dire che rigenerazione urbana è diffondere qualità abitativa rendendola però connessa. Milano ha cominciato a farlo perché è la città italiana che ha di gran lunga la miglior rete di servizio pubblico, ma è solo l’inizio. Riprendiamo un discorso di policy uscendo dall’atteggiamento per cui lo Stato deve fare tutto o che serve una legge per tutto. Il pubblico deve fare reti di trasporto e farle bene, costruire una bella città pubblica. E deve ricominciare a produrre case. Poi ci sono tanti soggetti innovativi che possono innestare la loro proposta su questo senza bisogno che faccia tutto lo Stato. Non siamo più al tempo in cui esistevano solo le tre gambe, sviluppatori privati, cooperazione classica e Iacp.
Spostando il discorso dal penale alle policy, si evidenzia, però, un limite delle policy perseguite finora, soprattutto nell’urbanistica.
Possiamo dare dello stesso fenomeno due diverse descrizioni: può esserci stato un limite di policy, è vero, oppure non siamo ancora riusciti a fare il salto di scala che una fase di crescita ci chiede. C’è una colpa del nostro apparato legislativo urbanistico. La trasformazione sul singolo lotto è diventata via via negli anni più facile, grazie alle norme di semplificazione, che hanno consentito di ricostruire sullo stesso lotto in sagoma diversa, con una Scia in alternativa al permesso di costruire. Puoi non essere intellettualmente d’accordo, ma sono operazioni che sono state legittimate dal punto di vista amministrativo. Il punto però è un altro: non si può immaginare di costruire una grande città globale lavorando lotto su lotto. Al netto dei grandi progetti come Expo, che hanno però altre difficoltà, mi pare che il tema centrale sia capire come riusciamo a rendere efficace la scala pianificatoria superiore a quella dell’intervento semplice, che, anche se è molto grosso, non modifica l’assetto fondiario o addirittura lo rafforza. Il salto di scala necessario in funzione della fisiologia della città non lo riescono a gestire né i meccanismi semplificatori introdotti dal PGT di Milano né la legge regionale lombarda che sono andati a sbattere contro un ordinamento nazionale vicino a festeggiare il secolo.
Si è evidenzato un limite di pianificazione, comunque.
Direi piuttosto limiti degli strumenti di pianificazione e di una macchina urbanistico-amministrativa molto complicata, pesante, disegnata negli anni della crescita, che funziona male per processi di rigenerazione e di riuso, nel senso che sovrastima questioni come il calcolo delle superfici, la definizione degli standard e il cambiamento di destinazioni di uso che in una città esistente sono di fatto regolati e normati dal funzionamento della città stessa, perfettamente in grado di decidere quale funzione va in un certo edificio. Abbiamo semplificato il riuso nelle leggi regionali, lasciando però la scala superiore, che è quella dei piani attuativi o dei piani esecutivi, del tutto inefficace. Il risultato è che questa scala superiore è stata evitata come fosse la peste, ce lo dicono tante storie milanesi, anche perché il piano attuativo, oltre a essere inefficace nel passaggio dalla scala edilizia alla scala urbanistica, è pure un incubo sul piano amministrativo.
Lei è sempre attento a quel che accade oltre le Alpi, a Marsiglia, a Parigi, Che sta succedendo?
È interessante vedere tutto il lavoro di trasformazione dello spazio pubblico che si sta facendo in due modalità. La prima è il rinverdimento e la demineralizzazione della città. Per esempio nelle strade parigine abbiamo la costante erosione dello spazio pavimentato e minerale a favore di uno spazio di prossimità, vegetale e permeabile. Su questo c’è molto da imparare anche perché non è una politica ad alto intensità di capitale, ma una manutenzione che spesso può contare su una mobilitazione spontanea dei cittadini. A Marsiglia un’associazione di questo tipo, i Giardinieri del Panier, il quartiere storico delle lotte per la casa, ha conquistato le strade con piccole foreste urbane. È un progetto che si è lasciato fare, non si è voluto fare come politica esplicita, ma è importante anche imparare a lasciare fare bene, un passaggio molto difficile per la nostra cultura amministrativa che ha il terrore del lasciar fare. Questa mescolanza intelligente di atti amministrativi e stimolazione o accoglimento di energie civiche è una via che dobbiamo imparare a perseguire.
E il secondo fenomeno francese da segnalare?
Il secondo fenomeno è la riconquista dello spazio con gradualità, con misure variabili. Marsiglia non è pronta per una pedonalizzazione integrale della Cornice, che ai fini della mobilità ha un po’ la stessa funzione del Lungotevere a Roma, eppure nei weekend viene completamente pedonalizzata e diventa l’esplosione dello spazio pubblico e delle relazioni. In questo modo gli usi temporali fanno un salto di scala e diventano vera e propria politica urbana.
Usi temporanei?
Se Marsiglia avesse immaginato di fare un dibattito su come pedonalizzare permanentemente la Cornice, ci avrebbe perso le elezioni qualsiasi sindaco. Con l’uso temporaneo ma radicale di quello spazio pubblico, solo nei week end, ci si abitua piano piano e si allarga il perimetro del possibile.