INTERVISTA AL PRESIDENTE DELL'ANAC
Busìa: “Ponte, il rischio è iniziare e poi fermare l’opera. Appalti, no a una digitalizzazione a metà. Demanio e Italferr diano una mano sul BIM”
L’intervista al presidente dell’Autorità anticorruzione. “Serve una banca di progetti digitali. Stretta sulle PAD che non faranno digitalizzazione integrale. Sulla qualificazione delle stazioni appaltanti, si apre la fase della libertà e della specializzazione. Ma non converrà a nessuno barare. Insisto sul rating di impresa: fa bene alla concorrenza. L’Italia ha bisogno di leggi rafforzate, come in Spagna, per dare stabilità alla programmazione. Sbagliato tornare alla modifica continua al codice”

GIUDIZIO DI PARIFICAZIONE DEL RENDICONTO GENERALE DELLO STATO PER IL 2024

Presidente Busìa, partiamo dal Ponte sullo Stretto e in particolare dall’articolo 72 della direttiva 2014/24. Nella relazione di accompagnamento al decreto legge Infrastrutture c’è un’interpretazione secondo cui il limite del 50% di incremento del prezzo dell’appalto originario si applica alle singole varianti, non alla somma. Lei condivide questa interpretazione?
Prima ancora della ripartizione interna rispetto alla spesa complessiva, il tema riguarda la cifra presa a riferimento per calcolare il limite del 50% fissato dalla normativa europea: nel decreto si fa riferimento non al contratto iniziale, che prevedeva un valore di circa 4 miliardi di euro, ma a quello, quasi raddoppiato, indicato nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2012. Nel caso in cui, invece, si facesse riferimento alla gara iniziale, il limite sarebbe già ampiamente superato. L’interpretazione sottesa al decreto potrebbe forse trovare un’argomentazione nel fatto che la direttiva è entrata in vigore dopo la gara iniziale, ma si tratta appunto di una delle possibili interpretazioni, tutt’altro che certa. La logica della direttiva richiederebbe infatti di basarsi sulla cifra iniziale, perché è l’unica sulla quale vi è stato un momento di evidenza pubblica.
Il Governo però sostiene da sempre che il riferimento sia quello del 2012.
E allora mi chiedo: perché bisogna autorizzare per legge quello che gli organi amministrativi avrebbero potuto decidere in autonomia? Si fa invece ricorso a quella che tecnicamente si chiama legge-provvedimento, regolando non fattispecie generali astratte, ma singoli adempimenti procedurali relativi a un’opera specifica. Questo può servire a svincolare da responsabilità singoli soggetti o organi chiamati a prendere certe decisioni, come il Cipess, ma non mette al sicuro l’opera, che resta soggetta alla normativa europea, non nell’interpretazione che ne dà lo Stato italiano, ma nell’interpretazione che ne danno la commissione Ue e la Corte di giustizia. Per questo ho suggerito che, se si vuole avere certezza che l’opera andrà effettivamente avanti, il governo o le commissioni parlamentari dovrebbero chiedere un’interpretazione preventiva alla Commissione UE. La direttiva europea prevale sul diritto nazionale. Il rischio, altrimenti, è di spendere tanti soldi dello Stato per poi non ritrovarsi nulla.
Perché non chiede l’Anac questa interpretazione alla commissione Ue?
Non è il nostro compito. Il nostro compito è indicare al governo di farlo e lo abbiamo suggerito in sede parlamentare. Quando, ormai oltre due anni fa, abbiamo chiesto di svolgere una nuova gara, ci è stato detto che bisognava urgentemente fare il progetto e aprire i cantieri e non c’era tempo da perdere. Sono passati due anni, non abbiamo ancora l’approvazione da parte del CIPESS. Ma c’è anche un altro aspetto che non ci lascia tranquilli.
Qual è?
Allo stato non abbiamo ancora un progetto esecutivo e, a causa di un’ulteriore deroga introdotta con un precedente decreto, questo progetto potrà essere realizzato per fasi successive, ragionevolmente partendo dalle opere a terra, e non dal ponte, che invece è il cuore del progetto e anche la parte sulla quale vi sono ovviamente maggiori elementi di incertezza. Tutto questo rende ancora più aleatoria la stima dei costi: sarebbe pertanto opportuno mettersi subito a predisporre un progetto esecutivo unitario e complessivo. Sebbene anche questo non assicuri certezze sulla effettività dei costi, perché sappiamo che le varianti emergono in genere dopo tale fase. Almeno darebbe un quadro più chiaro di quello che abbiamo oggi. Questo soprattutto perché, non avendo voluto realizzare una nuova gara, tutta la procedura si svolge sotto la spada di Damocle del superamento di quel 50% dei costi incrementali.
Che accade se viene accertato in corso d’opera il superamento del limite del 50%, diciamo dalla Corte di Giustizia Ue?
Si ferma tutto e si deve rifare la gara, se si vuole andare avanti.
Passiamo al PNRR. Un aspetto poco osservato, ma a mio modo di vedere importante, è che il PNRR ha rafforzato i rapporti fra le Autorità indipendenti italiane e la commissione Ue, dando a molte di loro competenze crescenti: l’ANAC, l’ART, l’ARERA. È vero? E dove porterà dopo il PNRR?
Questo rafforzamento è fisiologico per la natura istituzionale delle autorità indipendenti e per molte attribuzioni della commissione europea, specie con riferimento alla regolazione economica, intesa in senso lato. Il PNRR ha evidenziato ulteriormente questo rapporto di collaborazione e reso più prezioso il coordinamento reciproco. Sul futuro, dobbiamo capire quale sarà l’evoluzione dell’architettura istituzionale europea. Se la commissione diventerà, come credo, sempre più l’organo esecutivo in ragione di un più forte rapporto fiduciario con il Parlamento, con una maggiore caratterizzazione politica, dovrà ragionevolmente cedere quelle competenze di regolazione economica che richiedono maggiore terzietà. Sarebbe quindi fisiologico strutturare organi di regolazione indipendente europei al di fuori della commissione Ue, come già accade in altri settori, come la tutela dei dati personali. Ma oggi non c’è dubbio che alla commissione sia utile avere un rapporto più diretto con soggetti indipendenti di regolazione economica nei singoli Paesi e a questi di avere un contatto stretto con la commissione, date le sue funzioni di custode del diritto euro-unitario.
Del PNRR cosa vede in questo momento dal suo punto di osservazione?
Vedo naturalmente che abbiamo notevoli ritardi. L’idea di una possibile proroga, pur astrattamente ragionevole, mi pare non abbia possibilità concrete a causa della complessità del meccanismo di approvazione richiesto, e si dovrà al più sperare in qualche margine sui tempi della rendicontazione contabile che ordinamentale. È inutile cercare responsabilità, che sono diffuse, piuttosto, oltre al dovere di tutti di “mettersi alla stanga”, come efficacemente aveva invitato a fare il presidente Mattarella, dobbiamo almeno imparare la lezione di metodo sulla cogenza degli obiettivi. Quel metodo dovremo applicarlo nei sette anni del nuovo patto di stabilità e sarà molto più difficile, perché non avremo come obiettivo spendere il più possibile, ma dovremo raggiungere i diversi obiettivi con risorse da contenere. La riforma istituzionale di cui l’Italia avrebbe bisogno sarebbe quella di leggi rinforzate, sul modello delle leggi organiche spagnole, necessariamente condivise da maggioranza e opposizione, per approvare decisioni di lungo periodo che andrebbero tenute fuori dalla polemica politica quotidiana. Questo ci eviterebbe tanta instabilità normativa, che fra l’altro non favorisce gli investimenti di lungo periodo.
Siamo a due anni dall’entrata in operatività del codice appalti. Dopo diciotto mesi di stabilità assoluta, in cui il governo ha voluto attendere per intervenire, abbiamo avuto il correttivo, il decreto Infrastrutture e ora nuovi emendamenti. È necessario questo?
La stabilità normativa è un valore e il Governo ha in gran parte fatto bene a tenere tutto fermo fino al correttivo. Ora è caduta la diga e il pericolo è che si riapra la via ad interventi di aggiustamento anche micro, a più riprese, che non aiutano. Certo, se ci si accorge che qualcosa non funziona, è meglio modificarlo, piuttosto che tenerlo per ragioni di principio, ma occorre evitare di fare ancora una volta del codice un cantiere sempre aperto. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato come sia in parte illusoria l’idea di poter risolvere tutto per via normativa. Penso che il testo del Consiglio di Stato sia stato il meglio che l’Italia abbia potuto mettere in campo, anche se alcune correzioni in funzione anticoncorrenziale, introdotte nella parte finale del lavoro su impulso dell’autorità politica, hanno aperto una falla la cui gravità capiremo solo quando sarà finito il PNRR. Al riguardo, potranno essere necessarie correzioni che verranno dalla spinta della realtà, quando passeremo da una situazione di tante risorse da investire, rispetto alle quali le imprese non riescono a rispondere, a una situazione di risorse scarse, rispetto alle quali le imprese pretenderanno di essere informate per tempo e di potersi confrontare attraverso procedure competitive. Inoltre, dovremo fare i conti con l’applicazione di norme che sono state salutate, anche con una certa retorica, come salvifiche e dovranno misurarsi con l’applicazione concreta nel tempo. Penso al principio del risultato: ha in sé diverse componenti, che non possono essere ridotte all’idea di un risultato purché sia. Invece esplicitamente richiede di assicurare, non solo un adeguato rapporto fra qualità e prezzo, ma anche, fra gli altri, il rispetto dei principi di legalità, trasparenza e correttezza.
I due temi di fondo restano la digitalizzazione e la qualificazione delle stazioni appaltanti.
Credo siano i due pilastri su cui poggia l’intera architettura, e sui quali si misurerà l’effettiva maturazione del sistema. C’è ancora molto da fare. Abbiamo fatto un pezzo importante del processo di digitalizzazione procedurale, e oggi dobbiamo investire soprattutto sulla digitalizzazione progettuale e gestionale, su cui le stazioni appaltanti sono molto impreparate. Quello che spero si possa fare, e noi vogliamo lavorare in questa direzione, è mettere in rete la capacità di alcuni soggetti più qualificati e strutturati, che sono in grado di utilizzare a pieno la modellistica digitale BIM. Penso a realtà come l’Agenzia del Demanio, Italferr e Invitalia. Questi soggetti avrebbero le capacità per offrire assistenza e supporto agli altri. Se non si mettono in rete le capacità e le competenze esistenti, la soglia di due miliardi, per quanto molto alta, al punto che taglia via una quota molto rilevante di opere, potrà alternativamente o creare grandi difficoltà, oppure – ed è un rischio non minore – aprire la via a una applicazione dei nuovi obblighi come mero adempimento formale: molti commissioneranno un progetto in Bim e poi metteranno il dischetto o la pen-drive nel cassetto, senza sfruttarne davvero le potenzialità e continuando a operare di fatto nella dimensione analogica. Invece il BIM è soprattutto gestione digitale dell’appalto, del cantiere, con un progresso infinito di semplificazione degli aspetti formali e procedurali, di sicurezza dei lavoratori, di trasparenza e informazione, di vera riduzione dei tempi, di controllo dei costi. Grazie ad esso, si può superare la logica delle infinite varianti in corso d’opera. Ma questo si ottiene se si diffonde una vera cultura della gestione digitale dei processi, e se questi sono ripensati in modo nativo digitale, non se ci limitiamo a caricare su supporti digitali quanto nato e gestito nel mondo analogico, con una sorta di trascrizione digitale che rischiano di rappresentare un onere invece che un preziosissimo veicolo di semplificazione amministrativa e gestionale.
Questo fenomeno che lei indica come un rischio per la digitalizzazione progettuale e gestionale non si è verificato anche nella digitalizzazione procedurale?
Alcune piattaforme invece di digitalizzare integralmente il processo, per diversi passaggi si sono limitate a creare una sorta di template sul quale caricare attività svolte al di fuori delle piattaforme medesime. Questo è in parte fisiologico, soprattutto in una fase iniziale, ma occorre superare progressivamente tale impostazione, proprio per far beneficiare i RUP e tutto il sistema del processo di semplificazione e accelerazione delle procedure insito nella digitalizzazione. Anche le deroghe che abbiamo dovuto adottare per consentire ancora l’uso della nostra piattaforma per gli appalti inferiori ai 5mila euro nascono probabilmente da alcune di queste farraginosità, sulle quali occorre intervenire con la collaborazione di tutti.
Quando parla di trasferimento di competenze, ha in mente solo grandi soggetti pubblici o pensa che questo salto di cultura digitale avvenga anche con l’aiuto di soggetti privati, del mercato, delle Università che spesso sono più avanti della PA?
Serve un salto culturale che richiede un investimento tecnico, tecnologico e di formazione imponente che va diffuso in tutte le stazioni appaltanti. Il fabbisogno è enorme. Questo sforzo richiede che sia messa in rete tutta la capacità che c’è oggi in Italia, compresa quella dei privati che ovviamente offriranno sul mercato i loro servizi. Penso anche che, in questo sforzo imponente, si debba prevedere la costruzione di una banca dati unica dei progetti, nel senso di una raccolta unitaria, messa a disposizione di chi li sappia davvero leggere, usare e sfruttarne le potenzialità.
È una sfida Paese che porta lavoro.
Lavoro, crescita e, in questo caso sì, una maggiora rapidità nella realizzazione degli investimenti. Ci si concentra sempre sui tempi di affidamento della gara, mentre è qui, nell’esecuzione, che possiamo risparmiare tanto tempo. Ma bisogna superare ancora molte resistenze. C’è un tema generale di digitalizzazione del Paese ed è assurdo che ogni volta si crei una nuova banca dati senza aver fatto prima il censimento dei dati che il sistema ha già. Bisognerebbe aggiungere il pezzettino che manca, anziché duplicare: costa molto meno, non si devono raccogliere nuovamente le stesse informazioni e non si crea un sistema parallelo sul quale poi ci si dovrà porre il problema di integrarlo con i precedenti. È successo anche con la patente a punti, per la quale avevamo proposto di partire dai dati del fascicolo virtuale che avevamo già.
C’è poi la resistenza a mettere a fattor comune i dati, magari per non perdere l’incentivo al personale che gestisce quei dati. Dove va un Paese così?
Questo davvero va superato perché mette in discussione proprio la crescita e il beneficio legati al digitale. La digitalizzazione funziona se i dati sono comunicabili e le banche dati interoperabili. Queste resistenze le abbiamo incontrate nonostante il legislatore abbia disposto il contrario. Superato il primo ostacolo, la resistenza si è spostata a livello di regolamento ed il legislatore è dovuto intervenire anche su questo. Ma non è ancora sufficiente.
Intelligenza artificiale: state monitorando le applicazioni che ne fanno le stazioni appaltanti?
Non c’è un’unica intelligenza artificiale, ci sono diversi e variegati strumenti di intelligenza artificiale che si possono utilizzare. Dobbiamo imparare a vedere l’intelligenza artificiale nelle applicazioni concrete. I contratti pubblici sono il luogo ideale in cui questo si può realizzare, passo dopo passo, perché si vede come operano nella concretezza. Questo aiuta a comprendere la reale portata dei principi condivisibili scritti nel codice, a partire dall’esigenza di evitare discriminazioni. Dobbiamo comprendere cosa significhi nella concretezza delle scelte da assumere per le imprese, i lavoratori, le persone. Non è però semplice raggiungere questo risultato, perché il più delle volte lo stesso soggetto che ha progettato l’algoritmo non sa di aver inserito elementi di discriminazione.
Non dovrebbe aiutare la condivisione del codice sorgente e delle informazioni essenziali dell’algoritmo?
Anche qui il principio è giusto; chi vende software di intelligenza artificiale non può trincerarsi dietro il segreto industriale e deve trasmettere tali codici. Ma quanti funzionari pubblici sono davvero in grado di capire un codice sorgente? E quanti cittadini o imprese, che sono i destinatari ultimi delle decisioni algoritmiche? Pochissimi. Quindi si pone un problema rilevantissimo di trasparenza algoritmica, ma prima ancora c’è un problema di diffusione della cultura digitale.
Parliamo della qualificazione delle stazioni appaltanti: si chiude la fase 1 e si apre la fase 2. Qual è il cambiamento?
La fase 2 è la fase della maggiore libertà, caratterizzata da un sistema davvero aperto, con decorrenza legata al momento della domanda, e quindi alle esigenze della stazione appaltante, senza scadenze fisse per tutti, come era invece prima del 30 giugno. La stazione appaltante ora può presentare la domanda in relazione alle proprie esigenze e tendendo conto del momento in cui ha progressivamente acquisito capacità; di qualificazione sulla base delle sue capacità, della formazione dei propri dipendenti, di eventuali nuove assunzioni, come pure della sua esigenza o della specializzazione che vuole ottenere. Ottiene una qualificazione, ne sperimenta un’altra, può integrare, aggiungere se subentrano nuove esigenze. Non tutte le stazioni appaltanti saranno pronte e allora potranno rivolgersi a chi ha le competenze necessarie volta per volta, a una centrale di committenza o anche a un’altra stazione appaltante.
Ogni stazione appaltante si costruisce la qualificazione di cui ha bisogno o su cu si vuole caratterizzare: una qualificazione fai-da-te.
Con il tempo è presumibile che il sistema si organizzerà sempre di più verso una maggiore divisione del lavoro e specializzazione. Sarà pertanto fondamentale avere una mappa, sia professionale sia territoriale, che indichi dove si trovano queste capacità, queste professionalità. Ciò ci consentirà di spingere le stazioni appaltanti qualificate a mettere in rete le loro conoscenze, le loro capacità, le loro professionalità, a condividerle. Tutto questo porterà veri benefici in termini di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Molte stazioni appaltanti vedono con preoccupazione il vostro monitoraggio che comincia adesso. Come si svolgerà?
Proprio in questi giorni le stazioni appaltanti stanno cominciando a inserire i dati e le informazioni sulla base dei nuovi criteri fissati nel rispetto del decreto correttivo. Abbiamo messo a disposizione un simulatore che le aiuta a misurare la loro capacità e a valutare preventivamente sulla base dei dati inseriti. In questo modo, ogni stazione appaltante capisce che strada sta prendendo e può decidere se andare avanti o fermarsi e cambiare. Il monitoraggio avverrà sulla qualificazione ricevuta. In primis sui requisiti che si sono dichiarati e inseriti nel sistema. Oppure sulle gare effettivamente svolte. Alcuni dati risulteranno già dal sistema, altri potremo decidere di verificarli. Ci aspettiamo un alto livello di collaborazione e responsabilità; barare sarebbe davvero controproducente per loro, prima ancora di condurre a possibili sanzioni.
Come bilancio della prima fase possiamo dare che il dato positivo sono le centrali di committenza mentre un elemento di criticità, a volte, sono state le PAD, piattaforme di approvvigionamento digitale?
Come ho già detto, l’obiettivo demandato alle piattaforme era quello di far sì che la gara e tutte le procedure di affidamento fossero native digitali. A monte, dovevano semplificare la procedura per il soggetto che svolgeva la procedura; in coda, dovevano far pervenire in tempo reale tutti i dati nel sistema. In molti casi e in diverse fasi, le piattaforme non hanno risposto a questa seconda richiesta. Questo vuol dire, prima ancora che non disporre di dati preziosissimi, rinunciare alla semplificazione e ai benefici più profondi della digitalizzazione. La digitalizzazione si può fare a tanti livelli di profondità. Quanto più la profondità cresce – e anche qui capisco che non si possa fare in un giorno – tanto più si hanno benefici di semplificazione, di sinergie, di controllo. Vogliamo benefici incrementali, senza demonizzare, ma spingendo tutte le piattaforme ad arrivare a questi livelli. Questo, per altro, le aiuta a essere più efficienti, più competitive e, per quelle private, a conquistare maggiori spazi di mercato.
Torniamo per un attimo al correttivo. Che c’è di vero nella narrazione secondo cui è stato lei, addirittura con una lettera formale, a chiedere al MIT di introdurre la norma che riserva ai subappaltatori la certificazione di esecuzione lavori, escludendo gli appaltatori?
È una narrazione falsa, non so chi l’abbia messa in giro. Quando la certificazione di esecuzione lavori era riservata tutta all’appaltatore, abbiamo detto che era sbagliato, perché così si rischiava di uccidere la specializzazione, e che sarebbe stato opportuno dare una quota ai subappaltatori lasciando una quota agli appaltatori per le funzioni di coordinamento. Il correttivo è andato oltre e, per questo, recentemente abbiamo suggerito un riequilibrio, attraverso il decreto attualmente all’esame del Parlamento, di fatto ribadendo la nostra proposta originaria. Tutte le nostre proposte sono contenute in segnalazioni e documenti formali, depositati in Parlamento o inviati al Governo: non c’è spazio e neanche ragione per narrazioni diverse.
Un altro tema su cui lei è schierato: il rating di impresa.
Infatti, penso sia stato sbagliatissimo cancellarlo. È incomprensibile.
Concordo con lei che il rating di impresa è necessario perché chiude il cerchio. Ma è comprensibile il timore delle imprese di essere valutate da stazioni appaltanti ancora non attrezzate, spesso inadeguate. Una stazione appaltante può uccidere un’impresa anche solo per un errore in buona fede.
Noi avevamo pronto un documento di consultazione. Il nostro obiettivo era cominciare a raccogliere singoli elementi che progressivamente avrebbero contribuito a garantire una misurazione oggettiva. Le direttive consentono in molti casi alle imprese di dimostrare i requisiti in modo totalmente figurativo, senza un reale ancoraggio alla realtà. Alcune volte questo è giustificabile per consentire alle piccole imprese di aiutarsi reciprocamente e potersi rafforzare nel mercato. Ma tutto deve alla fine spingere verso la crescita e l’investimento reale nelle organizzazioni. Abbiamo invece bisogno di un sistema che spinga l’impresa sulla via del vero investimento, della competenza, della qualificazione reale e che premi queste scelte. Le prime ad avere interesse che si arrivi a questo sono le buone imprese. Il mio auspicio è che si torni indietro e si dia la possibilità di avviare sperimentazioni basate sul fascicolo virtuale dell’operatore economico. Che questo sia una esigenza del mercato, lo dimostra anche il fatto che i i grandi player, come stazioni appaltanti, soprattutto nei settori speciali, hanno creato il proprio albo fornitori. Abbiamo bisogno di una leva regolatoria che garantisca uniformità di valutazione: se vogliamo stimolare le imprese a crescere, dobbiamo farlo in un ambiente di sana competizione.