Messina vista da qui: noi, i “baraccati”, oggi siamo noi e basta
Ringraziamo Angela per averci ispirato, e commosso con i suoi pensieri. La storia prende spunto dall’intervista a lei e ad altri cittadini messinesi.
La notte stasera mi dondola, come fossi una barca nel porto. Seduta su una sedia mia, solo mia, guardo il triangolo di mare che si vede dal mio balcone. Il mare visto da qui luccica come mai avevo notato prima, il cielo tintinna di stelle e rischiara i miei occhi. Non c’è più il grigio sopra la mia testa. Che bella Messina vista da qui. Che bella la mia vita vista da qui. È solo un triangolo d’acqua ma per me è tutto il mare. Mare, mare, pieno d’acqua, l’acqua… che mi ha fatto tremare tante volte.
Quando sono arrivata in questa casa, ho realizzato il sogno che avevo da bambina, quando mi sono accorta che quella dove vivevo non era una casa, ma una baracca.
Erano gli anni ‘80 e una mia compagna di classe mi aveva invitato a casa sua. Visti da fuori i palazzi erano solo muri più alti dei nostri, ma dentro? Saranno state tutte uguali, pensavo, o forse in cuor mio ci speravo, e invece no.
Ricordo la luce dalle finestre, mi scaldava. Le tende bianche. La lavatrice che girava soltanto per loro. Le lampadine senza fili sparsi ovunque. I dieci bicchieri d’acqua di fila, li avevo bevuti dal rubinetto solo per guardare l’acqua scorrere. E poi… Poi l’odore di buono, buonissimo… Il mastro lindo di casa sua funzionava allora, perché il nostro no? Forse l’acqua del secchio nostro era diversa?
            
L’acqua noi la prendevamo dall’unica fontana e la portavamo a secchio a secchio, fino a casa. Questo gli faceva cambiare l’odore, forse. O nel nostro secchio aveva dormito un topo e ci aveva lasciato i suoi odori?
Non lo sapevo, ma da allora iniziai a mettere più detersivo nell’acqua, fino a pensare che l’odore era diventato uguale uguale. Da quel giorno, iniziai a guardare dentro le finestre degli altri, sì dentro le case degli altri, soprattutto nei giorni di pioggia e vento. Attaccata alla mano di mamma, guardavo dentro le case che emanavano calore, e che sotto Natale brillavano di alberi decorati davanti alle finestre, e pensavo…un giorno lo farò anche io l’albero, e intanto mi pareva di volare tra le mie fantasie nella corsa verso la baracca, ancorata alla mia mamma- albero, tenevo stretta la sua mano per sentire la sensazione di casa. Lei comunque era la mia casa, oltre il cielo d’amianto che copriva le nostre baracche, la mia mamma era là e so che si augurava il meglio per me, mentre tossiva per il troppo veleno respirato negli anni.
Ora quando mi chiama è contenta per me, incredula e felice come me che finalmente ho una casa. Il primo giorno che sono arrivata qui eravamo io e il materasso mio, e lei mi diceva: “Sei sicura ca vuoi dormiri ‘nta ‘na casa ca ancora nun è ben’arrimuddata??” Ma io guardavo il soffitto di casa senza la paura che mi cadesse in testa e rispondevo, “e certo! E chi si sposta, mamma”
Casa mia, solo mia, finalmente mia.
Una casa che ha due chiavi, una del cancello sotto e una proprio della porta di casa, una porta vera e blindata, dove l’acqua non entra, che strano. E se hai le scarpe sporche di fango, che poi qui è difficile che ti sporchi di fango, comunque se hai le scarpe sporche di fango, te le pulisci sul tappetino fuori dalla porta e quando entri la casa resta pulita.
La casa è pulita anche per due o tre giorni, non devo più asciugare l’acqua che entra da tutte le parti, la casa mia profuma. L’acqua del secchio profuma.
Quando sono arrivata qua non c’era niente, la sto sistemando piano piano, il materasso la prima cosa, per dormirci subito dal primo giorno, e poi piano piano tutti i mobili e quest’anno farò l’albero di Natale, vicino alla finestra, voglio vederlo dalla finestra mentre torno a casa, voglio che lo vedano tutti, voglio che i miei figli cresciuti nell’acqua sporca anche loro, arrivino qui con i miei nipoti puliti, loro non hanno acqua e amianto nei polmoni come noi. Voglio che arrivino qui e già da sotto dicano: “quello è l’albero di Natale di nonna, quella è nonna nostra, con una casa sua”
Sono una nonna di 50 anni, nata e vissuta in baracca, che ha cresciuto anche i figli in baracca, ma che ora ha una casa sua, con l’albero di Natale, le tende bianche e il profumo di mare.
La mia era una delle prime baracche di Fondo Fucile, il muro di casa era talmente pieno di umidità che neppure la porta si chiudeva. Ma un rubinetto in casa non c’era, quando serviva la portavamo con una pompa lunghissima fino alle case, un’ora per ciascuno, e la mettevamo nei secchi, nella vasca. La bevevamo pure. Quell’acqua ha proliferato come muffa fuori e dentro il corpo mio, una vita passata ad arginarla, a contenerla, a ripulirla.
Ho allergie alle muffe, bronchite asmatica, respiro male, ma su questo balcone l’aria entra nel mio corpo come fosse quella del primo vagito di un neonato, che spalanca i piccoli polmoni e saluta la vita nuova.
Anche sul mio documento c’è questa vita nuova, c’è scritto che risiedo nella palazzina 123…la palazzina! Sul mio primo documento c’era scritta la via e poi…baracca, ba-rac-ca.
Quando lessi così, tutta l’acqua respirata fino ad allora mi salì su come fosse un maremoto, “come si sono permessi”, pensai, “perché deve esserci scritto baracca? Perché baraccata mi deve segnare non solo nel profondo, ma pubblicamente, che poi lo so che se mi ferma la polizia subito pensa male, che se vado a cercare lavoro mi apre la porta un mare di pregiudizi”.
Io volevo essere io, senza etichette, ero mia, non delle baracche. Così feci il diavolo a quattro finché non convinsi l’anagrafe che baracca sul mio documento non ci doveva stare. Mi vergognavo, questo è il punto, mi vergognavo di essere costretta, insieme a tanti altri, a stare relegata in una terra dei poveri, poveri segnati da anni e anni di precarietà, poveri come nei film, poveri come la piccola fiammiferaia. Tante volte ci ho pensato a quella fiaba, che in quei cerini teneva tutti i suoi sogni. I miei cerini facevano evaporare l’acqua invece, così immaginavo, l’acqua e tutti quei pregiudizi che segnavano la mia vita di baraccata.
Io faccio continue differenze tra baracca e casa, e vince sempre il sogno, quello che pian pano sta prendendo forma nella mia vita, che pian piano diventa così vero che a volte piango di gioia mentre ci penso.
Dormivo sotto un tetto di lamiera, e la pioggia batteva forte, non erano gocce d’acqua, parevano maceria di terremoto che crollavano tutte sopra la nostra testa. Mia madre, per farci dormire, quando pioveva, ci metteva il cotone idrofilo nelle orecchie e poi diceva: ”Metti ‘a testa sutta ‘u cusciunu e insognati di stari in menzu a lu mari”.
Io non lo vedevo il mare nei miei pensieri, non ci riuscivo, avevo paura e basta, paura che il tetto crollasse, che le pareti si sbriciolassero e che si sciogliesse tutto, pure i nostri corpi. Avevo paura che saremmo diventati tutti fango che scorre tra le baracche e per i vicoli, fino a svanire in mare, senza nomi, senza volti.
Adesso lo vedo il mio volto, sulla carta d’identità, lo vedo il mio nome, sul citofono e sull’uscio della porta blindata, è un nome senza fango e senza acqua nei polmoni.
E’ accaduto di finire allagati, tante volte, anche quando madre ero io e il desiderio di proteggere i miei figli mi faceva diventare albero, come mia madre, sopra le teste loro per proteggerli dai crolli, dall’acqua, dal fango, dalla vergogna. E’ accaduto, ma so che non accadrà ancora.
La mia prima notte a casa mia, due anni fa, ho dormito come un sasso, la mattina mia madre mi ha telefonato, mi ha svegliata e mi ha detto: “Sentisti chi timpesta stanotti?”
E io incredula: “no…”
“Come no? Mi staiu pigghiannu pi fissa? C’è stata na terribili timpesta!” ha incalzato. E io: “no, mamma, niente, non ho sentito niente”.
Niente, non avevo sentito nulla. Non avevo sentito l’acqua sulla testa, per la prima volta nella mia vita. Avevo dormito beata come il mare calmo, su quel materasso a terra, barca dei miei sogni. Finalmente me stessa, col nome sulla porta.
Casa mia, solo mia, finalmente mia.
Una casa che ha due chiavi, una del cancello sotto e una proprio della porta di casa, una porta vera e blindata, un soffitto solido, un albero di Natale alla finestra e le tende bianche. Una casa dove l’acqua non entra, è fuori da casa mia.
L’acqua oggi si fa guardare, rivela i colori di alba e tramonto, sta comoda sotto un cielo di stelle e diventa scura se c’è tempesta, sta calma e si agita come i moti dell’anima mia, e non mi fa più paura. Oggi l’acqua sei tu, mare mio, che guardi Messina e lo so che ora ti appare diversa, mentre le baracche scompaiono, appaiono persone nuove come me, rinate dal fango.
Noi, i baraccati, eravamo corpi zuppi d’acqua, serrati da pareti d’acqua.
Noi, i baraccati eravamo secchi d’acqua sporca, da tenere lontani da case pulite.
Noi, i baraccati oggi siamo noi e basta. Rigenerati nell’anima, nel corpo, vicini ad altri messinesi che ci portano un dolce per accoglierci quando entriamo nei condomini, dispersi in questa città di case vere, non baracche, e guardiamo tutti lo stesso mare fuori dalle finestre, mentre l’aria ci riempie i polmoni di vita nuova.
Emilia Martinelli ha già pubblicato per Diario DIAC il racconto Due ciliegie
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Emilia Martinelli
Nata a Napoli nel 1974, storyteller nell’ambito della valorizzazione di beni culturali, regista e autrice, insegnante di teatro, educatrice. Il lavoro di autrice parte sempre da ricerche sul campo, dall’ascolto di storie vere. Collabora e ha collaborato col Teatro Brancaccio, il Teatro di Roma. Ha lavorato anche in contesti “al limite” come carceri, centri di accoglienza, periferie, e poi con donne vittime di violenza, persone disabili, minori a rischio. È fondatrice e direttrice artistica della compagnia fuori contesto dal 2005 e dal 2013 del Festival “Fuori Posto. Festival di Teatri al limite”. Dal 2020 è socia della società̀Hubstract Made for art e cura i contenuti, le installazioni e performance site specific.