L’aurora (o il crepuscolo?) del rinnovamento degli edifici. La politica esca dall’angolo con lungimiranza

Quattro mesi fa ho avuto l’onore di essere ospitato sul primo numero del DIAC con un contributo che faceva un punto sul rinnovamento (energetico e non solo) degli edifici in Italia. Era stato pubblicato da poco l’ennesimo decreto, il “blocca cessioni”, che aveva posto nuovi gravi ostacoli all’ordinato funzionamento del mercato con pesanti limitazioni retroattive alla possibilità di liquidare i crediti d’imposta. Segnali preoccupanti di imminente declino delle attività di riqualificazione, causato dall’esaurimento degli incentivi e dalla sfiducia indotta nel settore da anni di instabilità (ostilità) normativa, si accompagnavano alla mancanza di interesse mostrata dall’Esecutivo ad affrontare la tematica, sottolineata dal mancato coinvolgimento dei portatori d’interesse per l’approfondimento del disegno di nuove misure valide per il futuro.

Quattro mesi dopo: il Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) è stato aggiornato dal Governo in carica, senza significative variazioni per quel che riguarda il settore degli immobili. La nuova presidenza della Commissione europea ha mostrato di voler mantenere una sostanziale continuità nell’attuazione del Green Deal, chiaramente illustrata nelle lettere di incarico ai commissari designati: “Mi aspetto che tutti voi contribuiate al conseguimento dei nostri obiettivi climatici concordati, in particolare quelli fissati per il 2030 e l’obiettivo della neutralità climatica per il 2050”.

16 Ott 2024 di Virginio Trivella

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L’aurora (o il crepuscolo?) del rinnovamento degli edifici. La politica esca dall’angolo con lungimiranza

Il settore del rinnovamento degli edifici in Italia mostra segnali sempre più chiari e gravi di affanno e sta rapidamente abbandonando l’illusoria aspettativa che gli investimenti del PNRR (limitati nel tempo) possano costituire un succedaneo sufficiente.

I problemi irrisolti

Trascuriamo pure i problemi specifici di una filiera che, in assenza di provvedimenti solleciti ed efficaci, è destinata a perdere nel breve periodo quote sostanziali di attività e di occupazione, annullare il proprio contributo al PIL (già evidente nei dati più recenti) e dilapidare investimenti in competenze e capacità produttiva. Ma, anche a voler ignorare le conseguenze climatiche (che però mostrano una gravità sempre più chiara e incombente), i problemi sociali e ambientali causati dallo smodato consumo di energia e dalle conseguenti emissioni inquinanti sono sempre lì e attendono di essere affrontati: povertà energetica, dipendenza strategica, inquinamento locale, implicazioni sanitarie.

Gli obiettivi di riduzione dei consumi di energia e delle emissioni climalteranti indicati nella nuova direttiva sulla prestazione energetica degli edifici (EPBD IV) sono scanditi in una tabella di marcia che incombe e necessitano misure di stimolo e accompagnamento adeguate. E infatti, qualche settimana fa il Rapporto sullo stato dell’Unione dell’energia ha evidenziato un peggioramento della povertà energetica in EU, ribadito che il tasso di ristrutturazione degli edifici resta troppo basso e sottolineato che le misure nazionali sono insufficienti per raggiungere un parco immobiliare decarbonizzato entro il 2050, avvertendo che “sarà assolutamente fondamentale una rapida attuazione della direttiva” (pag. 15).

Annunci contraddittori

Sarà una coincidenza, ma pare che chi ha la responsabilità dei piani e delle misure abbia sentito l’esigenza di dare qualche segnale. Sebbene nulla ancora si sappia del “Consiglio Scientifico Clima e Ambiente” annunciato dal Ministero dell’Ambiente nell’imminenza delle elezioni europee, e malgrado i lavori del Tavolo interministeriale istituito dallo stesso dicastero con l’obiettivo di individuare “proposte concrete e condivise per il raggiungimento degli sfidanti obiettivi di efficienza energetica” continuino a essere coperti dal più impenetrabile segreto, in una recente intervista il ministro Pichetto Fratin ha parlato di approfondimenti in corso che potrebbero sfociare in un provvedimento già nella prossima legge di bilancio che “confluirebbe nella sfida sulle case green”. In base alle scarne indicazioni fornite, le nuove detrazioni fiscali compatibili con il bilancio dello Stato sarebbero orientate prioritariamente all’efficienza energetica. Inoltre, “per gli incapienti le detrazioni non funzionano, e quindi bisogna intervenire con le sovvenzioni”.

Contemporaneamente, in risposta all’interrogazione 5/02854 al Ministero dell’Ambiente “se ritenga di promuovere, allo scopo di permettere alle realtà aziendali e industriali una programmazione certa dei futuri investimenti, l’implementazione di un nuovo quadro normativo per l’incentivazione degli interventi di riqualificazione energetica”, la viceministra Gava ha risposto che il MASE “intende rivedere il sistema delle detrazioni fiscali affrontando con un approccio integrato ed efficiente le opere di riqualificazione degli edifici residenziali esistenti che superi l’attuale frammentazione delle diverse detrazioni, con un focus sugli interventi più efficaci in termini di costo per favorire la decarbonizzazione energetica”. La risposta è stata corredata di una fitta elencazione dei criteri che informeranno i nuovi incentivi, ed è stata salutata da molti commentatori come un nuovo passo determinante verso l’introduzione della tanto attesa riforma degli incentivi.

In realtà, il medesimo elenco di criteri era già presente a pag. 280 del PNIEC approvato da questo Governo a giugno, a sua volta uguale a quello già contenuto a pag. 231 della bozza inviata alla Commissione europea un anno prima, con la sola esclusione della “cessione del credito” che nel frattempo era diventata una parolaccia. Si tratta dello stesso pian strategico che assegna alle detrazioni fiscali il gravoso compito di conseguire la metà di tutti risparmi di energia programmati entro il 2030, mobilità e industria incluse (pag. 298), quasi raddoppiando il 30% che era indicato nel PNIEC 2019 (pag. 171). Quindi, nessuna novità sotto il cielo.

Una proposta surreale

A raggelare gli entusiasmi ha subito provveduto il Ministro dell’Economia Giorgetti che, proprio negli stessi giorni, ha presentato il Piano Strutturale di Bilancio di medio termine (PSB, che sostituisce la vecchia NADEF). A pag. 157, nello scarno capitolo dedicato alle misure per ridurre i consumi di energia primaria nel settore immobiliare residenziale, dopo aver rammentato l’obiettivo vincolante, particolarmente sfidante, per la riduzione del consumo medio di energia primaria dell’intero parco immobiliare residenziale fissato dalla direttiva EPBD, è riportata l’intenzione (per nulla inattesa e già attuata) di ridurre il ruolo delle detrazioni fiscali e di creare un mercato per i certificati bianchi per il settore residenziale civile per incentivare gli interventi più efficienti, senza produrre effetti sulla finanza pubblica.

In una nota (sempre a pag. 157) si precisa che, a garanzia dell’equità e della sostenibilità sociale di tale misura, è in corso una riflessione sulla possibilità di introdurre meccanismi di premialità per gli interventi effettuati da famiglie in condizioni di povertà energetica.

“Senza produrre effetti sulla finanza pubblica”. Chi conosce il sistema dei certificati bianchi non ha nessuna difficoltà a capire cosa ciò significhi: si abbandonano i bonus e li si sostituisce con incentivi finanziati con i proventi della vendita dei certificati. Quali certificati? Dato che non si può inondare il mercato di nuovi certificati generati dalle riqualificazioni energetiche edilizie senza creare contemporaneamente una nuova domanda di titoli di efficienza energetica, bisognerà attendere che il nuovo sistema obbligatorio per i settori degli edifici, del trasporto stradale e altri (ETS2) entri nella fase di mercato, che è programmata a partire dal 2027 (o dal 2028 in caso di proroga). E nel frattempo?

Nessuno pare essersi curato di rapportare il valore ipotetico dei nuovi certificati bianchi con il costo degli interventi. Prime valutazioni consentono di affermare che certificati bianchi specifici per il settore edilizio della durata di 15 anni (quelli attuali hanno una durata di 3-10 anni) scambiati al valore attribuito ai TEE attuali (250 €) consentirebbero di coprire non più del 10% del costo degli interventi di efficientamento profondo.

Ora, le vie della Provvidenza sono infinite, ma prendiamo il caso dei condomini, che in Italia riguardano due abitazioni su tre, in gran parte termoautonome. A noi pare abbastanza curioso pensare di stimolare un piano diffuso di ristrutturazioni edilizie profonde con certificati bianchi che devono rispondere alle regole del mercato, offerti a consuntivo a operatori energetici (superando un possibile conflitto d’interesse) a condizioni economiche inadeguate e volatili, combinando un sussidio anch’esso consuntivo e limitato ad alcuni condòmini caratterizzati da fragilità economica, oltre a un necessario strumento finanziario di non breve periodo. Ipotizzare che uno strumento così congegnato possa avere successo significa trascurare la realtà delle assemblee condominiali. Si pensi a quanti interventi di riqualificazione profonda sono stati realizzati dalle ESCO nei condomini prima del superbonus (in condizioni ben più favorevoli) e si ha già la risposta.

Non minore perplessità suscita il riferimento ai progetti di investimento contenuti nel PNRR a favore del comparto residenziale e non (per 1,4 miliardi di euro), qualificati come cruciali e tali “da compensare gli effetti della normalizzazione dei bonus edilizi” (pag. 64). Vero è che il superbonus è costato troppo, ma è difficile prendere questa affermazione sul serio.

Mancanza di coordinamento o di strategia?

Volendo escludere uno scarso coordinamento tra il Ministero dell’Ambiente, che ha la responsabilità di realizzare il piano di abbattimento dei consumi di energia, e quello dell’Economia, a cui compete l’individuazione della quota di risorse pubbliche necessarie per attivarlo, ciò che traspare a dispetto dei piani strategici e delle interviste sembra essere un immutato atteggiamento dilatorio. Cominciamo a bloccare tutto (gli annunci di “controlli del catasto” per chi riqualifica sono solo l’ultimo ingrediente della ricetta), annunciamo una riforma, aspettiamo il 2027, o il 2028, e poi si vedrà… Trascurando il fatto che il 2030 non è tra un secolo.

E’ piuttosto evidente che il tema non è prioritario, non interessa proprio, nonostante le implicazioni economiche e sociali, e la mancanza di strategia è documentata dall’andamento randomico degli annunci. L’ultimo, del viceministro dell’Economia Leo, sulla possibile proroga del bonus ristrutturazioni (solo per le prime case) a prescindere da requisiti di efficientamento energetico, non contraddice solo il ministro del’Ambiente, ma anche il ministro dell’Economia.

Il codice degli incentivi

Fa parte della riforma fiscale e presenta alcuni aspetti interessanti. Lo schema di decreto legislativo potrebbe essere esaminato in un prossimo consiglio dei ministri e contiene le regole per i futuri incentivi alle imprese. Ciò dovrebbe escludere la sua applicazione in relazione alle attività edilizie che continuassero a beneficiare di incentivi fruiti da beneficiari prevalentemente non imprenditoriali (la grande maggioranza nell’edilizia residenziale), a meno che non si vada davvero nella direzione di incentivare gli interventi con i certificati bianchi per il tramite delle ESCO il che, come si è visto, pare riflettere la posizione del MEF nonostante le giustificate perplessità di cui si è detto. Molti criteri interessanti indicati nello schema, tuttavia, sarebbero applicabili anche agli incentivi rivolti direttamente ai cittadini.

Mi riferisco in particolare all’art. 20 comma 2 che richiede, per gli incentivi fiscali che non prevedono un’attività istruttoria, che la fruizione sia subordinata alla preventiva comunicazione da parte del fruitore dell’ammontare complessivo delle spese. O ai criteri generali elencati all’art. 21, comma 6, lettera d): efficacia, efficienza, rilevanza, coerenza, inclusività, non discriminazione, sostenibilità ambientale. Si tratta di criteri dettati dal buon senso, molti dei quali trascurati dagli incentivi che abbiamo conosciuto, tutti coerenti con il quadro metodologico e lo schema di incentivazione suggeriti da Rete IRENE.

Per coerenza, il nuovo schema di incentivazione degli interventi edilizi dovrebbe attendere l’emanazione di questo decreto e adottare i criteri in esso illustrati. Il che, applicato a un ambito complesso e variegato come l’edilizia, suggerirebbe di incrociare le riflessioni istituzionali con quelle degli esperti e dei portatori d’interesse. E in ogni caso non si concilia con un eventuale provvedimento inserito frettolosamente nella prossima legge di bilancio.

Nuove misure di stimolo per l’edilizia residenziale

Il Piano nazionale di ristrutturazione degli edifici, che dovrà essere messo a punto entro la fine del 2025, fornirà una guida operativa per la realizzazione degli obiettivi fissati nel PNIEC in accordo con la direttiva EPBD. La strumentazione necessaria per realizzare gli obiettivi nell’arco del periodo che ci separa dal 2030 e, in prospettiva, dal 2050 è una componente essenziale del piano. Non mi dilungo sugli aspetti tecnici, se non per ribadire che la realtà è complessa e non si potrà indulgere di nuovo a soluzioni semplicistiche e potenzialmente dannose.

Occorre qualificare e quantificare obiettivi e priorità. Assicurare che le nuove misure di stimolo siano efficaci rispetto agli obiettivi fissati, sia sul piano economico che su quello tecnico e della durabilità degli interventi, e razionali rispetto alle caratteristiche dei diversi cluster omogenei di edifici. Fissare soglie di accesso che massimizzino l’addizionalità degli incentivi. Individuare meccanismi di fruizione che assicurino l’equità nella possibilità di accesso alla riqualificazione.

Si dà per scontato (anche se non lo è) che poi gli interventi siano effettivamente realizzati, e bene. Il che richiede un adeguato armamentario di requisiti, responsabilità e controlli.

L’aspetto abilitante principale, naturalmente, è costituito dalle risorse: “Chi paga?” (cit.), ed è qui che ritengo più interessante soffermarmi. Intanto, i benefici di un vasto piano di rinnovamento sono sia collettivi, sia individuali, e ciò richiede di individuare un corretto bilanciamento tra l’investimento pubblico e quello privato.

Investimento pubblico

È necessario tenere presente che la riqualificazione edilizia è un tema sociale, e che efficienza energetica, sostenibilità ambientale e sicurezza in edilizia non possono essere considerate solo un onere ma un’opportunità di sviluppo su cui investire.

Molto si è discusso su quale sia il vero costo netto per lo Stato. Quel che appare da rapporti autorevoli e dalle audizioni parlamentari è che le entrate complessivamente indotte ammontano a una frazione non lontana dal 50 per cento del valore delle attività realizzate grazie agli incentivi erogati, a condizione che l’addizionalità sia molto elevata (il “peso morto” degli interventi che sarebbero realizzati anche senza incentivo sia trascurabile). Questo è un tema, poco indagato, che può essere ottimizzato con una opportuna regolazione dei requisiti di accesso agli incentivi e della loro intensità.

Ciò significa che un incentivo del 50% che stimolasse interventi che in assenza non sarebbero realizzati avrebbe un impatto trascurabile sulla finanza pubblica. Questa intensità può essere aumentata qualora lo Stato decidesse di investire risorse aggiuntive a fronte dei benefici sociali e collettivi generati, al pari di quanto viene normalmente fatto in altri capitoli della spesa sociale. Naturalmente si tratta di una scelta politica.

Di sicuro un sostegno di questa entità non sarebbe in grado di attivare una domanda di interventi compatibile con gli obiettivi di decarbonizzazione e, a ben vedere, sarebbe sommamente regressivo (incentiverebbe solo chi ha i mezzi per sostenere la spesa rimanente). Anche l’elasticità della domanda in funzione delle condizioni di incentivazione è un tema mai indagato, che uno studio commissionato da Assimpredil Ance cercherà di mettere presto in luce.

Alla misura “neutra” per la finanza pubblica (o a una misura che “potenziata” che includa una spesa netta positiva) può essere aggiunto lo stimolo “di mercato” generato dalla valorizzazione dei titoli di efficienza energetica (senza effetti sulla finanza pubblica) che, contrariamente al ruolo esclusivo assegnato dal PSB, non può che essere complementare.

Vi è poi la questione della certezza del valore dell’incentivo. Se lo stimolo deve essere efficace ad avviare interventi addizionali, è tassativo che esso sia affidabile in termini di fruibilità e di valore. Deve quindi essere svincolato da limiti di capienza fiscale (la cui presenza è alla base della regressività degli incentivi, è indice di iniquità sociale e motiva la scarsa appetibilità di detrazioni pur generose sperimentate in passato) e il suo valore deve essere protetto dalla volatilità del mercato. Il primo fattore si risolve con la trasferibilità dell’incentivo a chi finanzia gli interventi, senza eccezioni. Il secondo pone una tara significativa sul valore dei certificati bianchi che può essere riconosciuto ai proprietari degli immobili.

Quindi, fondamentale è che gli incentivi siano certi (crediti fiscali trasferibili e non detrazioni “non pagabili”) e che non vi siano ostacoli alla loro circolazione, per evitare gli ignobili fenomeni speculativi che abbiamo conosciuto nella storia recente. L’avversione ideologica alla “moneta fiscale” perde consistenza se si rapporta il valore di questo strumento con quello dell’economia complessiva.

Investimento privato

Se si considera che l’efficientamento consente di ottenere risparmi energetici (e un incremento del valore patrimoniale), è corretto chiedere al privato una compartecipazione all’investimento. Però, soprattutto adottando il criterio che gli incentivi devono concentrarsi sugli interventi negli edifici più energivori e nelle situazioni di povertà energetica, occorre risolvere efficacemente il problema della finanza. Non basta invocare astrattamente i “mutui verdi” che già esistono ma non arrivano dove servono.

Di questa esigenza è consapevole la Commissione europea che proprio in questi giorni ha avviato un’iniziativa per l’adozione di un atto finalizzato ad aumentare i prestiti per le ristrutturazioni energetiche, risolvendo tra l’altro il problema di un’offerta inadeguata per le categorie di proprietari più svantaggiati. Niente di imminente, ma è un inizio.

Occorre che gli operatori finanziari siano posti nelle condizioni di anticipare senza remore e a basso costo il valore dei benefici fiscali e del risparmio energetico futuri. Il che significa minimizzare i rischi e il costo della provvista finanziaria.

La minimizzazione dei rischi è implicita nel trasferimento certo e senza ostacoli degli incentivi fiscali. Riferita al finanziamento del risparmio energetico, richiede uno strumento di assicurazione del credito assistito da garanzia pubblica.

La minimizzazione del costo e la sua stabilizzazione nel lungo periodo non possono che essere determinati da una provvista finanziaria di origine comunitaria a un tasso “politico”, una sorta di Quantitative Easing dedicato all’obiettivo della transizione energetica.

Questo scenario sarebbe coerente con l’obiettivo della decarbonizzazione richiamato nel Rapporto Draghi che, in un’Italia e in un’Europa povere di risorse deve essere declinato non solo con la transizione alle FER ma anche – soprattutto – con la minimizzazione del consumo di energia (questo concetto non è esplicitato nel Rapporto, ma è implicito nell’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica). È coerente altresì con gli obiettivi dell’inclusione sociale e della riduzione dei costi dell’energia per gli utenti finali, ovvero con la riduzione della spesa energetica che può essere realizzata attraverso l’efficientamento.

E sarebbe coerente con l’approccio illustrato nel Rapporto, favorevole al finanziamento congiunto di investimenti specifici a livello comunitario riguardanti priorità strategiche dell’UE che altrimenti non sarebbero forniti a sufficienza dagli Stati membri o dal settore privato. L’approccio alternativo “tradizionale” che fa ricorso ai fondi del bilancio comunitario è illusorio, come è ben evidenziato nel Rapporto laddove lo qualifica esiguo, complesso e burocratico.

Conclusioni

Ci siamo soffermati sul segmento condominiale della proprietà edilizia perché tra tutti è quello che più concentra priorità di intervento e difficoltà di attivazione. Ragionamenti analoghi devono essere fatti per tutti gli altri cluster omogenei di edifici.

In conclusione, qualcosa sta per succedere, o forse no. A noi sembra opportuno che la politica esca dall’angolo, al più presto, e si metta in gioco. Ma lo faccia seriamente, con lungimiranza e coinvolgendo gli esperti per evitare i soliti errori.

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