Il rapporto del Cnel
Produttività: la lunga stagnazione, in 30 anni Italia a +0,2%, Ue a +1,2%
Il rapporto sulla produttività pubblicato dal Cnel vede l’Italia fanalino di coda tra le principali economie europee. La bassa crescita è determinata da un mix di ritardi sistemici su competenze della forza lavoro, capitale intangibile, struttura dimensionale di impresa, accesso ai servizi di qualità e alle infrastrutture, condizionato a non risolti divari territoriali. Non esiste una ricetta miracolosa ma è possibile invertire la rotta con un piano di azione per impegni fissati con un piano strutturale di bilancio
IN SINTESI
Il periodo aureo della crescita della produttività in Italia è stato quello dal 1970 al 1990: un ventennio virtuoso che, grazie a una robusta accumulazione di capitale e a una solida dinamica della produttività, aveva permesso al Paese di convergere verso i livelli di reddito dei principali partner europei. Poi sono cominciati gli anni bui: a partire dalla metà degli anni ’90 il nostro Paese ha cominciato ad accumulare ritardi , mostrando una dinamica più debole rispetto ai principali partner europei: nel periodo 1995-2024, vale a dire gli ultimi tre decenni, l’incremento medio annuo si è attestato attorno allo 0,2%, a fronte dell’1,2% registrato nell’UE27 (1,0% in Germania, 0,8% in Francia, 0,6% in Spagna). Nel primo quinquennio post crisi finanziaria (2009-2014) si è, in realtà, verificato un parziale recupero con un +0,6%, dovuto principalmente al forte processo di selezione che ha caratterizzato il comparto industriale italiano, alla ristrutturazione del settore bancario, alle riforme del mercato del lavoro e all’introduzione di incentivi all’innovazione, fattori che hanno premiato le imprese più efficienti, favorendo una riallocazione dei lavoratori e dunque una più sostenuta crescita della produttività aggregata. Ma poi nel quinquennio 2014-2019 la crescita della produttività italiana si è invece fermata a un +0,1% e così anche nel quinquennio successivo. Questo ha visto si è caratterizzato anche per il buon andamento dell’occupazione (4,4%, in linea con la media UE), la cui dinamica è rimasta marcata anche negli ultiminanni, interessati dallo shock energetico: tra il 2022 e il 2024 l’occupazione è aumentata amun tasso quasi doppio rispetto alla media UE, trainata dall’espansione in alcuni settori ad alta intensità di lavoro (ma anche a produttività media più bassa) come costruzioni, ristorazione, sanità e assistenza. Favorita da una dinamica salariale contenuta, l’occupazione è quindi cresciuta, ma prevalentemente in attività a basso valore aggiunto, con effetti depressivi sull’efficienza media del sistema produttivo.
Insomma, alla luce del quadro tratteggiato da questi numeri, si può parlare di 30 anni di stagnazione di produttività dell’economia italiana. E a metterlo nero su bianco, è il Rapporto sulla Produttività pubblicato ieri dal Cnel. Ma quali sono le cause di questa bassa crescita? Una prima risposta è data dal fatto che le imprese hanno preferito espandere il fattore lavoro, relativamente più conveniente, più che investire in beni capitali, in particolare quelli funzionali ai processi di digitalizzazione. Di conseguenza, è aumentata l’occupazione (+1,6% nel 2024), ma al costo di una riduzione della produttività del lavoro (-0,9% per occupato nello stesso anno). Tale trade off è ampiamente evitabile, in quanto dipende dai settori in cui si genera occupazione e dalle competenze degli occupati, sottolinea il rapporto. L’Italia, in particolare, mostra un significativo divario rispetto alla media europea negli investimenti intangibili, ovvero quelli in beni immateriali, come software, ricerca e sviluppo, capitale organizzativo. Mentre questi ultimi sono cresciuti a un ritmo tre volte superiore rispetto a quelli tangibili per la maggior parte delle economie avanzate dal 2014 ad oggi, in Italia si è avuta una dinamica opposta, evidenziando la difficoltà del nostro Paese nel tenere il passo con la frontiera dell’innovazione. Il tasso medio annuo di crescita degli investimenti intangibili in Italia tra il 2013 e il 2023 è stato inferiore al 2,5%, contro il +4,7% in Francia, +6,1% in Svezia, e +5,8% negli Stati Uniti.
Ma, oltre alla dotazione di capitale tecnologico, anche il capitale umano è fondamentale per la produttività. Un più alto livello di competenze è associato a una produttività del lavoro più alta: circa il 25% del divario tra la media Ocse e i paesi più performanti in termini di produttività del lavoro è spiegata dal diverso livello di competenze. L’Italia soffre di un ritardo strutturale nelle competenze digitali della manodopera: solo il 16% dei lavoratori ha competenze ICT elevate, contro il 30% circa in Germania e Francia; solo il 15% dei laureati lo è in discipline STEM, a fronte di una media europea del 26%. Questo frena l’adozione di tecnologie digitali nel nostro Paese, con ricadute sulla produttività. A parità di dotazione di competenze, è essenziale anche l’allocazione dei lavoratori nei diversi settori produttivi e nelle diverse imprese: il disallineamento tra competenze dei lavoratori e mansioni sul posto di lavoro (skill mismatch) nei paesi OECD spiega da solo il 12% del divario di produttività con i paesi più performanti. La produttività del lavoro è più alta nei settori con un minore disallineamento, e dove i lavoratori con le più alte competenze sono occupati nelle imprese più grandi e più dinamiche.
C’è poi un altro aspetto sul quale si sofferma lo studio che riguarda l’impatto della bassa dimensione aziendale sulla produttività. La dimensione aziendale è, a sua volta, correlata con tre fattori chiave: propensione all’export, digitalizzazione e innovazione. Le grandi imprese sono oltre il 70% più produttive delle medie e nei servizi ICT il divario è ancora più marcato, a testimonianza della complementarità tra scala e capitale intangibile. Ma in Italia il 94,7% delle imprese ha meno di 10 addetti, una quota molto superiore a Germania o Francia. E’ questa forte presenza di microimprese a frenare la produttività aggregata. Oltre alla dimensione aziendale, anche export, digitalizzazione e innovazione sono fattori determinanti della produttività, spesso interconnessi. Le imprese esportatrici mostrano un premio di produttività significativo, che cresce con la dimensione e in particolar modo nei settori a media-alta tecnologia. Anche l’adozione di tecnologie digitali è associata a un premio di produttività, stimabile in circa il 15-30%. La digitalizzazione amplifica i vantaggi delle imprese più grandi, che integrano meglio le tecnologie. L’innovazione è un altro fattore decisivo: le imprese innovative presentano in media una produttività superiore del 20%. Politiche pubbliche mirate a rafforzare questi fattori, combinate a una semplificazione normativa e a incentivi finanziari e fiscali che favoriscano la crescita dimensionale, sono essenziali per sostenere la produttività e la competitività del sistema economico.
Ma come lasciarsi alle spalle questo lungo trentennio di stagnazione? Non esiste una soluzione miracolosa per rilanciare la produttività. Ma ci sono interventi da mettere in campo per invertire la rotta. Investimento in competenze, capitale intangibile e tecnologie digitali; miglioramento delle condizioni per avviare, gestire e finanziare le imprese orientandole alla crescita dimensionale; riduzione dei divari territoriali, attraverso strategie localizzate e rafforzamento della capacità implementativa delle politiche pubbliche. “È necessario piuttosto un approccio sistemico e coordinato a diversi livelli di governo, che è il requisito per trasformare la produttività in una leva stabile di crescita inclusiva e sostenibile per l’economia italiana”, raccomanda il rapporto. In tema di competenze e investimenti, un punto di partenza è rappresentato dagli impegni del Governo con la Commissione Europea indicati nel Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine 2025-2029 (PSBMT). Questi impegni andrebbero progressivamente articolati in un disegno preciso di obiettivi e traguardi che si articolino, sia sul fronte delle misure di sostegno alle imprese che in tema di formazione, in un piano d’azione coerente e misurabile con un monitoraggio temporale da qui al 2029. Nei prossimi anni, poi, andranno verificati anche gli effetti del Pnrr, tenendo conto che la scarsa produttività è legata a una serie di fattori come la lentezza della giustizia civile, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la scarsa concorrenza in alcune attività dei servizi che le azioni del piano hanno iniziato ad affrontare. Last but not least, lo sviluppo infrastrutturale: la dotazione e l’accesso alle infrastrutture di trasporto costituiscono un fattore determinante per la coesione sociale e lo sviluppo economico dei territori, sottolinea il rapporto. In particolare nel Mezzogiorno, gli investimenti assumono una rilevanza strategica per colmare il gap di produttività.
Brunetta: “Se l’Italia e l’Europa sono cresciute poco è a causa di molta austerità, pochi investimenti, infrastrutture e ricerca”
“Occorre intervenire su alcune nostre caratteristiche genetiche. Fare crescere le nostre imprese. E introdurre dosi massicce di nuove tecnologie, di skills, di formazione. Investire in capitale umano, soprattutto in ambito Stem. E poi investimenti pubblici, ricerca, innovazione”, afferma il presidente del Cnel, Renato Brunetta, “Se avessimo costruito in questi ultimi vent’anni dieci Cern, come straordinari poli d’eccellenza europea nel mondo, invece dell’austerità o dei tanti egoismi nazionali, allora oggi avremmo un’altra Europa – ha detto – e probabilmente non avremmo le distopie che stiamo vivendo. Quindi dobbiamo fare anche un po’ di autocritica. Se negli ultimi vent’anni gli Usa sono cresciuti il doppio dell’Europa questo non c’entra nulla con i dazi, ma con la strategia economica americana orientata alla domanda interna. Noi invece abbiamo avuto molta austerità e poca domanda interna, pochi investimenti pubblici, poche infrastrutture, poca ricerca. E adesso stiamo pagando il conto. Per questo dico bene Ursula von der Leyen, con il discorso di oggi, basato sull’autonomia, sulla sicurezza, sull’orgoglio di un’Europa che sa difendere la sua storia e i suoi valori. Bene perché si passa al debito buono e agli investimenti. Così avremo anche maggiore produttività”.
De Ruvo (Confetra): “detassare i salari e investire in infrastrutture”
“La produttività in Italia cresce troppo poco e per invertire la rotta servono misure concrete: dalla detassazione degli aumenti salariali al rafforzamento delle infrastrutture, con particolare attenzione all’eliminazione dei colli di bottiglia dell’ultimo miglio”, commenta il presidente di Confetra, Carlo De Ruvo. .Confetra sottolinea come il settore della logistica e dei trasporti non sia stato analizzato come comparto autonomo, sebbene condivida l’analisi generale: “la produttività – spiega De Ruvo – cresce poco, anche a causa del basso livello di digitalizzazione. I dati Istat mostrano che le imprese di trasporto e magazzinaggio restano sotto la media in quattro ambiti chiave: specialisti ICT, cybersecurity, formazione e uso dell’intelligenza artificiale. Inoltre, il 41,6% delle imprese del settore non prevede investimenti materiali o immateriali nel biennio 2025-2026 (contro il 21,3% dei servizi postali e corrieri). Tutto ciò nonostante TEHA Group stimi un guadagno, in termini di produttività, generato dalla sola adozione dell’IA, del 18,5% per la logistica”. Confetra accoglie con favore il bando “LogIN Business” del MIT, previsto dal PNRR per sostenere la transizione digitale, ma segnala le difficoltà che caratterizzano il settore. “Da un lato – continua De Ruvo – i contratti con la committenza hanno spesso orizzonti temporali ridotti, con minori certezze soprattutto nei periodi di crisi; dall’altro, la prevalenza di imprese con meno di 50 addetti limita la capacità di investimento, pur in un contesto di progressiva aggregazione. Negli ultimi dieci anni, infatti, le aziende con meno di 20 addetti sono diminuite dell’11%, mentre quelle con oltre 50 addetti sono aumentate del 22%. Per questo Confetra valuta positivamente la proposta del Cnel di favorire la crescita dimensionale e l’aggregazione tra imprese”. Centrale la formazione come pure il tema della crescita dei salari. Serve una vera “scossa”: “i contratti collettivi nazionali devono essere rinnovati in tempi ragionevoli – “come abbiamo fatto noi” – e le politiche di detassazione non vanno limitate agli accordi aziendali, ma estese anche ai contratti collettivi nazionali”. Inoltre, “crediamo nell’importanza delle grandi opere – conclude De Ruvo – ma soprattutto nella rimozione dei colli di bottiglia dell’ultimo miglio che, se non risolti, rischiano di vanificare grandi investimenti pubblici”.