INNOVAZIONE E PA
Non banalizzare il Bim, costruire una CULTURA del committente pubblico digitalizzato
Ciò che conta, per l’acronimo, è il suo potere evocativo, tanto che, a prescindere da ciò che possa voler dire realmente, consente agli operatori di farsi un’idea, sia pure vaga, del tema
18 giugno
BIM è acronimo che vive ormai un’esistenza propria: riflettere argutamente sul significato rigoroso di Building, di Information e di Modelling (o Model) consisterebbe in un sottile, quanto futile, esercizio accademico. Ciò che conta, infatti, per l’acronimo è il suo potere evocativo, tanto che, a prescindere da ciò che possa voler dire realmente, consente agli operatori di farsi un’idea, sia pure vaga, del tema.
Di BIM, o meglio di modellazione informativa ovvero di gestione informativa digitale, a partire dalla direttiva comunitaria del 2014 sul Public Procurement o dal Dlgs 50/2016, le amministrazioni pubbliche hanno avuto sentore. Ancor più, ovviamente, il Dm 560/2017 (il cosiddetto Decreto Baratono) e il D.M. 312/2021 hanno, per così dire, sdoganato il tutto.
Eppure, in molte stazioni appaltanti e in parecchi enti concedenti, la scadenza prevista, a oggi, dal Dlgs 36/2023, suona come precoce.
L’attenzione a essa prestata è stata sinora, a parte le ovvie e naturali lodevoli eccezioni, assai ridotta, forse in attesa di un differimento del vincolo legislativo ed, eventualmente, di un suo allentamento.
Quello che, tuttavia, rileva è, di fronte a un tema relativamente poco conosciuto, la necessità di reificare l’argomento attraverso l’identificazione di strumenti tecnologici (operativi, appunto) e di documenti (l’atto organizzativo o il capitolato informativo), intesi come adempimenti formali indispensabili, ad esempio, per l’affidamento e per l’esecuzione del contratto pubblico.
Di conseguenza, delle implicazioni relative alla metodologia o inerenti alla organizzazione – i punti davvero incisivi, assieme alla centralità del ciclo di vita dei beni immobiliari e infrastrutturali – poco è stato avvertito: anche perché l’obbligo (la costrizione?) è percepito rispetto alle caratteristiche del singolo investimento (l’importo, la natura manutentiva o meno) anziché al fatto che l’atto organizzativo comporterebbe un ripensamento della configurazione delle organizzazioni e dei processi di tutte le componenti dell’amministrazione: economico-finanziarie, giuridico-amministrative e tecnico-gestionali.
Già la sola constatazione che la piattaforma di approvvigionamento digitale (che sta generando non poche criticità nella fase di avviamento) e l’ambiente di condivisione dei dati debbano essere progressivamente integrati tra di loro nell’ecosistema digitale locale e nazionale dovrebbe indurre a qualche ulteriore riflessione.
In realtà, l’elemento che maggiormente sembra sollecitare concretamente le amministrazioni pubbliche sembra essere la preoccupazione nel reperire i tre profili professionali specialistici che la legislazione impone.
Tale preoccupazione, non infondata, guardando, ad esempio, all’entità della comunità di lettori assidui di certi periodici digitali o di frequentatori delle fiere specialistiche o al numero di soggetti certificati presenti nella banca dati di ACCREDIA, fa, però, ritenere che possano essere le persone, più che i metodi o i dispositivi a innescare, sia pure con difficoltà (e magari in solitudine), processi effettivi di cambiamento.
È questo, comunque, un fattore preoccupante, se si traguarda la scarsa attrattività del pubblico impiego presso le generazioni più giovani e la contendibilità delle competenze più avanzate (si pensi alla cosiddetta Intelligenza Artificiale) tra tutti i settori economici.
Vi sono, in ogni caso, alcune questioni di fondo che appaiono ben più rilevanti di una conformità agli obblighi legislativi a partire dal 1° gennaio 2025: tra tutte, il divario che esiste tra una concezione formale di adempimento (si ripeterà il fenomeno legato al sistema di gestione per la qualità?), l’ottimizzazione di processi consolidati e la vera e propria trasformazione digitale, che oltrepassa di molto il BIM, spaziando in tutte le possibili manifestazioni della digitalizzazione, e che si basa su una razionalità digitale e una cultura autentica del dato.
Sarebbe un grave errore ritenere che possa esservi un modello lineare unico, a cui tutte le amministrazioni debbano conformarsi perseguendo la via progressiva della maturità digitale per livelli.
Al contrario, probabilmente, la scalabilità di certe ipotesi e di certe soluzioni non potrà essere assoluta, ciascuna amministrazione perseguirà i fini e otterrà i risultati che sarà in grado di conseguire (in tempi non assegnabili a priori), ma, soprattutto, dovrà fare i conti con il grado di avanzamento delle proprie controparti contrattuali e, in particolar modo, delle loro catene di fornitura, allungatesi, e, ragione in più, fondamentalmente impreparate, ma anche con il potenziale di contenzioso che il dato arreca con sé.
Occorre, perciò, prima di tutto, nell’ottica della ri-qualificazione delle stazioni appaltanti, (ri-?)costruire una cultura e una professionalità del committente pubblico digitalizzato, comprendere meglio in ciò il ruolo delle 545 centrali di committenza attualmente qualificate (verso le amministrazioni convenzionate), negoziare (territorialmente?) con il mercato richieste ed esiti realistici nell’orizzonte temporale dei prossimi anni, sensibilizzare il mondo finanziario (è palese che il contributo della digitalizzazione alla rendicontazione degli investimenti interessi ANAC, il MIT, il MEF e quant’altri, ma anche alla conformità per i Criteri ESG).
Ci si può domandare, infine, provocatoriamente se non sia il caso di investire (a livello di sistema) su modelli linguistici di grandi dimensioni opportunamente addestrati sul dominio (non tanto Chat-GPT, Gemini o Claude), con la riserva di umanità giuridicamente necessaria nella decisione algoritmica, sia in attesa di una migliore valorizzazione del capitale umano esistente nelle dotazioni organiche e del reclutamento di nuove risorse (nell’ottica dell’inverno demografico?) sia immaginando la presenza strutturale di un assistente virtuale al RUP.
L’auspicio è, ovviamente, che l’obbligo divenga opportunità e non banalizzazione, ma perché ciò avvenga serve una strategia mirata almeno al 2030, nella prospettiva dello Spazio Europeo dei Dati.
Certo è che il tempo delle narrazioni e delle promesse è terminato, che la difficile contingenza in cui versano dirigenti e funzionari nelle amministrazioni richiederebbe soluzioni immediatamente efficaci (non praticabili), che non debba prevalere un sentimento di incomprensione e di ostilità riguardo alla transizione digitale.