I molti errori di Milano. La terza via per regolarizzare gli interventi è tornare a chiedere il permesso di costruire e pagare gli oneri di urbanizzazione
Finalmente si inizia a riflettere, in particolare su queste pagine, sulle soluzioni per la grave crisi dell’urbanistica e dello sviluppo edilizio a Milano dopo la maxi inchiesta penale.
Si comprende forse, dinanzi all’evidenza dei fatti, che è sbagliato pensare che il “modello Milano” sia da podio olimpico e che i labirinti della giustizia penale siano la risposta a una crisi che vale decine di miliardi, per l’oggi e per il domani, oltre che l’immagine stessa di Milano in Europa e nel mondo. Il sindaco Sala ha ammesso, nel suo cruciale discorso al consiglio comunale, che forse la condotta dell’Amministrazione in materia di rigenerazione urbana potrebbe essere stata “men che perfetta”: un eufemismo, forse, ma che potrebbe aprire un utile spiraglio in questi mesi di buio della ragione.
Sono stati infatti commessi, in sequenza, diversi errori, sulla cui gravità ciascuno può opinare.

PIERLUIGI MANTINI DEPUTATO
L’interpretazione giuridica delle norme in tema di rigenerazione urbana è il primo.
Come noto, la Giunta comunale ha avvalorato un’interpretazione per cosi dire originale delle norme vigenti in materia urbanistico-edilizia, in particolare dell’art. 41 della legge 1150/1942, in tema di obbligatorietà del piano attuativo per i maggiori interventi di densificazione, dell’art. 3, lett. d) del DPR 6 giugno 2001, n. 380, in tema di ristrutturazione edilizia, degli artt. 22 e 23 del medesimo Testo unico dell’edilizia, in tema di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), senza la dovuta precauzione per gli effetti giuridici e l’impatto sociale di tale interpretazione.
Occorre dire, a riguardo, di due “attenuanti” che possono essere invocate.
Una, di natura giuridica, costituita dall’antinomica disciplina della nozione di ristrutturazione edilizia contenuta nell’art. 3 lett. d) del Testo unico dell’edilizia, con particolare riferimento alle aree di sedime, nonché dei presupposti della cd. “SCIA alternativa”; la seconda, di natura politica, è data dal desiderio di semplificazione e di attrazione di investimenti a condizioni di favore per promuovere lo sviluppo della metropoli, sebbene, a parere non solo mio, trascurando le necessità di accesso alla città pubblica di larghe fasce di lavoratori meno abbienti e di studenti. Si è preferita la via della competitività di Milano ma si è ignorato che “città non sono le pietre ma gli abitanti”, come già affermava l’erudito Isidoro di Siviglia nel IV secolo.
Il secondo errore è costituito dal fatto che, a fronte delle prime inchieste giudiziarie, si è affermato un inopportuno atteggiamento di rivendicazione delle scelte compiute fino alle interlocuzioni per la cosiddetta legge “salva-Milano”, che ha dato l’impressione della pretesa di una sorta di condono ad hoc tramite un’ interpretazione retroattiva, di ben dubbia costituzionalità.
Anche in questo caso non può essere trascurato che questa soluzione (improvvida) ha avuto il consenso e il voto, almeno alla Camera dei deputati, da parte della maggioranza di governo e del Pd, principale partito di opposizione ma di governo a Milano.
Il terzo errore è nel fatto che, nei mesi recenti, si è perseguita una linea di dichiarata collaborazione tra il Comune di Milano e la Procura della Repubblica, senza tener conto delle autonome responsabilità dell’Amministrazione e della necessaria separazione dei poteri e, per di più, senza esiti pratici utili, come i fatti dimostrano.
In via generale, è chiaro che le semplificazioni amministrative e le misure favorevoli all’attrazione degli investimenti sono elementi certamente necessari, ma non a scapito delle procedure di legge e della corresponsione degli oneri necessari alle esigenze sociali della città pubblica, in un contesto di evidente difficoltà nell’offerta di abitazioni a prezzi accessibili per le fasce sociali meno abbienti e per gli studenti.
È altrettanto chiaro che non sarà la sede penale, con i lunghi tempi di diversificati processi, a poter offrire una soluzione per i cittadini che hanno investito in compromessi sugli alloggi bloccati, per gli investitori di oggi e neppure per la certezza del diritto preziosa per il futuro.
Piuttosto sarebbe utile interrogarsi più a fondo sulle ragioni di questa “supplenza” del giudice penale nei confronti di irregolarità amministrative e di un enorme problema sociale irrisolto.
Come abbiamo sostenuto sin dal primo momento, in scritti, audizioni in parlamento, libri, interviste l’unica via da perseguire è quella della regolarizzazione degli interventi realizzati, una via “terza” tra rivendicazione del modello milanese e i processi penali.
D’altronde occorre andare avanti e non rimanere inerti nello stallo attuale e nei conflitti.
La prima mossa è quella dell’abolizione dell’attuale disciplina regolamentare della commissione Paesaggio, limitando le competenze di tale commissione alle sole funzioni previste dalla legge, riguardanti la valutazione estetica e morfologica degli interventi edilizi e non già la legittimità dei titoli edilizi. Si è compreso in ritardo che si è creato un mostruoso organismo, dalle onnipotenti prerogative, sul modello delle disciolte Commissioni edilizie del passato, su cui sono stati fatti convergere poteri di ogni tipo, in spregio allo stesso codice dei beni culturali e del paesaggio.
Occorre tornare alla normalità delle procedure stabilite dalle leggi, anche se ciò implica una maggiore (ma inevitabile) responsabilità dei dirigenti e dei funzionari comunali che però ben possono essere supportati da linee guida e schemi standard di provvedimenti.
La seconda fondamentale mossa consiste nell’approvare una delibera (meglio sarebbe stato con norma di legge, come a suo tempo da noi suggerito) che consenta, a chi ne abbia interesse, la regolarizzazione dell’intervento, tramite la presentazione di una domanda di permesso edilizio per gli interventi realizzati con SCIA, previo integrale versamento degli oneri di urbanizzazione ove dovuti.
Si tratta di una soluzione già consentita dall’art. 23 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, poiché, per il principio del contrarius actus, ove è prevista la SCIA alternativa al permesso di costruire ben può essere richiesto il rilascio del permesso di costruire.
Non dimentichiamoci infatti che l’intera vicenda milanese riguarda regolarizzazioni procedurali più che sostanziali.
Trattandosi in genere di terreni edificabili e urbanizzati, salve eccezioni o casi singoli da verificare, nulla si oppone in via di principio a tale soluzione.
Naturalmente il rilascio del permesso di costruire avrebbe anche il pregio di consentire all’Amministrazione il riesame dell’ intervento con la valutazione degli eventuali oneri da corrispondere, anche attraverso l’istituto del permesso edilizio convenzionato, ove opportuno, pure al fine ulteriore di accertare quei requisiti di sussistenza delle urbanizzazioni che costituiscono il presupposto per ritenere non obbligatorio il preventivo piano attuativo, di cui all’art. 41, quinquies, della legge 1150/1942.
Si oppone a tale soluzione, solo in sintesi delineata, che in tal modo potrebbero svilupparsi contenziosi da parte degli investitori che fossero costretti al pagamento della quota di oneri non corrisposti e in precedenza non richiesti dal Comune.
Ma non si trascuri, in proposito, che tale soluzione è solo “una facoltà di chi vi abbia interesse”, non certo un obbligo, sicché l’adesione a un tale modello di regolarizzazione, purché ben strutturato, si qualifica di per sé come una scelta volontaria. Chi preferisce ricercare una risposta favorevole in sede penale è libero di farlo.
È chiaro che la magistratura farà il suo corso ma, in caso di regolarizzazione, i reati contestati risulteranno di gran lunga depotenziati e interpretati sotto diversa luce, con esiti prevedibili.
Milano ha gli stessi problemi sociali di Londra, Berlino e altri grandi metropoli ma si è fatta trovare impreparata.
È ora il tempo di regolarizzare il passato e di aprire nuove strade per il futuro, con politiche di edilizia sociale già ben tracciate nei decenni trascorsi e fissando price cap, tetti massimi, al costo degli affitti per gli studentati finanziati con risorse pubbliche.
Occorrono competenza e coraggio.