SUGGERIMENTI FINALI PER LA NORMA SALVA-MILANO E DINTORNI
Margini stretti per la costituzionalità, distinguere ristrutturazione edilizia pesante e leggera

Il 20 novembre è previsto il voto della Commissione Ambiente e Territorio della Camera dei deputati sulla (ormai) cosiddetta “norma salva-Milano” ossia sulla proposta di legge AC 1987 che trae origine dalla necessità di assicurare certezza giuridica alle controverse interpretazioni della nozione di ristrutturazione edilizia e dei rapporti tra intervento diretto e pianificazione attuativa, a seguito di numerose inchieste penali (oltre 150 progetti solo a Milano con blocco degli investimenti e delle attività).
Sul tema abbiamo espresso, in sede di audizione parlamentare e in più occasioni (anche su questo giornale il 15 luglio scorso) considerazioni e suggerimenti nell’intento di migliorare i contenuti e nella convinzione che un chiarimento legislativo e una regolarizzazione delle procedure siano di gran lunga preferibili rispetto ai tempi e ai percorsi dei labirinti giudiziari, ferma l’intangibile autonomia della giurisdizione.
Nel corso del dibattito parlamentare, ad oggi svoltosi solo in commissione, sono stati recepiti diversi suggerimenti contenuti nei contributi forniti (in tema di limiti ai “sedimi diversi”, di accertamento con provvedimento comunale dei requisiti degli “ambiti edificati e urbanizzati”), tutti migliorativi del testo.
Ma si è anche verificato un revirement in favore di un diverso approccio alla materia, riflesso nel mutamento da parte del relatore dello stesso titolo della proposta di legge, consistente nell’adozione di una norma di interpretazione delle questioni controverse anziché nella previsione, come era in precedenza, di una disciplina a doppia fase (transitoria e a regime).
Si tratta di una scelta in certo senso sofferta e meditata, già affacciatasi nei mesi precedenti nel corso dell’esame parlamentare del decreto legge 69/2024 (cd. “salva-casa”) ma in quella occasione poi declinata poiché risultò inadeguata la previsione di una norma interpretativa incompatibile con i requisiti di necessità e urgenza propri della decretazione di urgenza.
Nella valutazione di “appropriatezza” di una tale scelta normativa, che certamente ha l’effetto, nelle esplicite intenzioni del legislatore, di “regolarizzare” situazioni controverse del passato oltre che di offrire maggiore certezza al futuro, occorre tener conto, attraverso un pur sommario esame, dei limiti costituzionali che incontrano le leggi interpretative.
Secondo l’orientamento tradizionale, infatti, le norme di interpretazione possono essere adottate solo per ovviare a una situazione di grave incertezza normativa o a forti contrasti giurisprudenziali (si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 74/2008).
A dire di altra e maggioritaria tesi, l’esegesi legislativa è ammessa non solo in casi di incertezza normativa o di anfibologie giurisprudenziali, ovvero nei casi in cui il legislatore si limiti a selezionare uno dei possibili significati che possono ricavarsi dalla disposizione interpretata (seppur rimanendo entro i possibili confini interpretativi), ma anche nell’ipotesi in cui il legislatore si limiti a intervenire per contrastare un orientamento giurisprudenziale (c.d. diritto vivente) sfavorevole, sempre che l’opzione ermeneutica prescelta rinvenga il proprio fondamento nella cornice della norma interpretata (sentenza della Corte Costituzionale n. 271/2011).
Più in particolare, la Corte costituzionale rinviene il fondamento dell’adozione dello strumento legislativo interpretativo nella sussistenza di contrasti giurisprudenziali che diano luogo ad incertezza applicativa della norma ovvero nel consolidamento di uno specifico orientamento giurisprudenziale, la cui cifra caratteristica sarebbe da rintracciarsi nella contrarietà a quanto disposto dal legislatore, costretto, al fine di imporre la propria interpretazione, a un intervento correttivo.
Tuttavia, l’orientamento più rigoroso nel senso di consentire l’interpretazione autentica solo in presenza di determinati requisiti ha lasciato poi spazio ad altra opzione che considera la portata (solo) “accessoria” degli stessi rispetto alla legge la cui mancanza, pertanto, non condurrebbe necessariamente e in modo automatico a farne dichiarare l’illegittimità costituzionale (cfr. C. Cost. n. 78/2012).
A tali premesse di ordine generale va poi soggiunto che il divieto di retroattività della legge, previsto dall’articolo 11 delle Preleggi, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 della Costituzione che si occupa, così come è ben noto, della sola norma penale (cfr. C. Cost. n. 103/2013).
Il legislatore quindi – nel rispetto di tale previsione – può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (C.E.D.U.).
La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, dunque, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato “già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario”.
In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», anche «in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto», o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore», a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale.
Accanto a tale caratteristica, esistono una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi, rispettivamente, (i) il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento, (ii) la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto, (iii) la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico e (iv) il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.
Sotto il profilo penale, che pure riguarda il caso in esame, occorre considerare che l’irretroattività della legge penale è presente nella rubrica “successione di leggi penali” nel Codice e, sul modello redazionale dell’articolo 25 della Costituzione – “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” – così dispone: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato” (v. art. 2 comma 1 c.p.).
Detto principio trova una sua applicazione anche nella materia delle sanzioni amministrative, giusta la previsione del noto “principio di legalità” secondo cui “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione” (v. art. 1 comma 1 l. n. 689/1981).
Ancora, “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati” (v. art. 1 comma 2 legge n. 689/1981). Anche di questo profilo dovrà tenere conto il legislatore.
In conclusione, a parte i limiti all’interpretazione autentica di cui si è detto, l’orientamento della Consulta è nel senso di consentire il ricorso all’ermeneusi legislativa per risolvere eventuali dubbi interpretativi insorti in dipendenza di significati testuali polisenso ovvero di indirizzi giurisprudenziali tra di loro antinomici, fermi i limiti di “ interferenza” con la legge penale.
Il testo legislativo all’esame del Parlamento risulta coerente con i principi costituzionali pur in sintesi richiamati?
Nel caso in esame, fermo il giudizio di inattualità (storica) della disciplina contenuta nell’art. 41 quinquies, a noi sembra che le maggiori perplessità interpretative, tali da giustificare l’intervento ermeneutico del legislatore, possano sussistere con riferimento non già alle norme esistenti , in sé sufficientemente chiare ( “sedime diverso” a parte), quanto all’identificazione della fattispecie, sul versante delle condizioni di applicazione di essa: in altri termini, circa l’ identificazione del “ fatto”.
La giurisprudenza non dubita, ad esempio, che per un intervento edilizio in un lotto intercluso tra costruzioni, in un’area fortemente edificata, non occorra l’approvazione di un preventivo piano attuativo. Ma non tutte le condizioni di fatto sono equiparabili nei casi concreti e dunque la norma interpretativa dovrebbe sorreggere l’onere di essere assai precisa e chiara nell’indicazione delle fattispecie cui l’interpretazione si applica. I margini di costituzionalità sono assai stretti e il legislatore dovrà tenerne conto.
A riguardo si può osservare che la previsione nel testo del Relatore di un “accertamento con provvedimento amministrativo motivato” ( meglio se “anche su domanda del titolare dell’intervento”) della sussistenza dei requisiti degli “ambiti edificati e urbanizzati” dovrebbe valere sia per quanto concerne l’art. 8 del DM 1444/1968 (standard urbanistici) e sia per l’art. 41 quinquies della legge 1150/1942 (obbligo del piano preventivo per gli interventi di densificazione) e ciò perché anche in questa ultima fattispecie potrebbe risultare necessario un accertamento da parte del comune delle dotazioni della città pubblica che consentano di prescindere dall’obbligo del piano preventivo.
Analogo ragionamento vale per l’interpretazione autentica in via legislativa della nozione di “ristrutturazione edilizia”: in questo caso, l’interpretazione sistematica del contesto delle norme dovrebbe condurre quanto meno al rispetto delle due diverse tipologie di ristrutturazioni, con incrementi di volumetrie e superfici o senza ( in gergo, “pesante” o “ leggera”), chiaramente identificate dagli articoli 10 e 22 del Testo unico dell’edilizia, quanto meno sotto il profilo del regime giuridico e autorizzatorio applicabile, con i conseguenti effetti (anche in termini di contributi e oneri da corrispondere).
Tale assetto non può essere mutato da una norma interpretativa con effetti retroattivi risultando la disciplina vigente in sé chiara e neppure controversa.
Discorso diverso è quello riferibile invece al profilo della definizione della nozione contenuta nell’art. 3, lett. d) del Testo unico dell’edilizia riguardo alle espressioni “diverso sedime” e “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”.
Qui, in effetti, una norma di interpretazione autentica risulta opportuna poiché le prassi, non governate da giurisprudenza uniforme, evidenziano una notevole confusione: “sedimi diversi”, ma quanto diversi dal preesistente edificio? Anche a chilometri di distanza? È chiaro che la formula adottata con il decreto legge n.76 del 2020, anziché semplificare, ha determinato piuttosto la forte necessità di un chiarimento univoco. L’espressione limitativa, adottata nel testo aggiornato del relatore, “nel medesimo lotto di intervento”, efficacemente corrisponde a questa necessità anche se forse risulterebbe più appropriata la formulazione “nel medesimo lotto dell’edificio preesistente”.
Per quanto concerne invece la nozione di “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal preesistente” ci si dovrebbe limitare ad osservare che, per sillogismo, il più contiene il meno: in termini pratici, l’evoluzione legislativa degli anni recenti è tutta nel senso di consentire, con la ricostruzione edilizia, anche la tipologia estrema della “sostituzione edilizia”, senza alcun nesso di continuità con il precedente organismo edilizio, seppur nel rispetto dei differenti regimi autorizzatori previsti dai citati articoli 10 e 22 del Testo unico dell’edilizia.
Anche ai fini di un’interpretazione unitaria da parte delle differenti giurisdizioni, la norma risulta dunque, su questi ultimi temi e con i limiti evidenziati, ammissibile e opportuna.
Infine, come ipotesi alternativa al testo in materia di standard, non è possibile sottacere il dubbio di una possibile migliore formulazione integrativa di quella allo stato adottata, con particolare riferimento all’art. 8 del D.M. 1444 del 1968, poiché, come noto, gli standard costituiscono tuttora un principio fondamentale, come più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, per il legislatore regionale e per il pianificatore e non già di automatica applicazione nella realizzazione di interventi diretti sull’esistente (ferma la disciplina specifica in tema di “densificazione” adottata da ciascun piano urbanistico comunale).
Neppure è possibile sottacere che, come già suggerito, si aggiunga al testo in esame uno specifico comma integrativo dell’art. 23 Testo unico dell’ edilizia che preveda la facoltà, non l’ obbligo, di regolarizzare gli interventi realizzati con la cd. “super-scia” con una domanda di rilascio del permesso di costruire da parte del titolare dell’ intervento. In definitiva ciò corrisponde al principio del contrarius actus e potrebbe consentire di sanare irregolarità meramente procedurali, fermi gli oneri previsti dalla legge.
A Berlino, a Londra, non solo a Milano la questione delle abitazioni e delle opportunità di accesso alla città pubblica (grande contenitore di relazioni, servizi, futuro) ha determinato profonde crisi sociali, economiche, politiche.
Spetta al legislatore il delicato e difficile compito di individuare, nell’occasione, una soluzione tecnicamente efficace e sostenibile e nel contempo equa.
Nel paragrafo che segue, solo per corrispondere ad un’ esigenza di chiarezza, sono evidenziate in grassetto le principali modifiche suggerite.
Appendice: per un’ipotesi di soluzione normativa
1. “L’articolo 41-quinquies, sesto comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, si interpreta nel senso che l’approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non è obbligatoria nei casi di edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati, di sostituzione di edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati e di interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati, accertati con provvedimento amministrativo motivato, anche su domanda del titolare dell’ intervento, che determinino la creazione di altezze e volumi eccedenti i limiti massimi previsti dall’articolo 41-quinquies, sesto comma, della legge n. 1150 del 1942, ferma restando l’osservanza della normativa tecnica delle costruzioni.
2. L’articolo 8, punto 2) del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, si interpreta nel senso che l’approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non è obbligatoria nei casi di edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati, di sostituzione di edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati e di interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati, che determinino la creazione di altezze eccedenti l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, ove ciò non contrasti con un interesse pubblico concreto e attuale al rispetto dei predetti limiti di altezza, accertato dall’amministrazione competente, con provvedimento motivato, anche su domanda del titolare dell’intervento, o nei casi in cui sia previsto dagli strumenti urbanistici, e fermi restando l’osservanza della normativa tecnica delle costruzioni, nonché il rispetto dei limiti di densità fondiaria di cui all’articolo 7 del medesimo decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444.
3. Nei casi di cui al comma 1, resta fermo il rispetto dei parametri di adeguatezza delle dotazioni territoriali e dei parametri urbanistici sulla base della legislazione regionale e degli strumenti urbanistici comunali, nonché il rispetto, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, della distanza minima tra fabbricati, derogabile tra fabbricati inseriti all’interno di piani attuativi e di ambiti con previsioni planivolumetriche oggetto di convenzionamento unitario.
4. A decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, fermo quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, lettera d), sesto periodo, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, l’articolo 3, comma 1, lettera d), del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, si interpreta nel senso che rientrano tra gli interventi di ristrutturazione edilizia gli interventi di totale o parziale demolizione e ricostruzione che portino alla realizzazione, all’interno del medesimo lotto di intervento, di organismi edilizi che presentino sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche, funzionali e tipologiche anche integralmente differenti da quelli originari, purché rispettino le procedure abilitative e il vincolo volumetrico previsti dalla legislazione regionale o dagli strumenti urbanistici comunali.
5. Nei casi di cui al comma 3, per gli interventi di cui al primo comma, lett.c), dell’art.10 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, resta fermo il rispetto dei parametri di adeguatezza delle dotazioni territoriali e dei parametri urbanistici sulla base della legislazione regionale e degli strumenti urbanistici comunali.
6. Sono fatti salvi gli effetti dei provvedimenti di demolizione o riduzione in pristino non più impugnabili ovvero confermati in via definitiva in sede giurisdizionale alla data di entrata in vigore della presente legge”.