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La terza via della rigenerazione urbana per eliminare le baraccopoli: il progetto del supercommissario di Messina Scurria al Demanio

23 Set 2024 di Giorgio Santilli

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La terza via della rigenerazione urbana per eliminare le baraccopoli: il progetto del supercommissario di Messina Scurria al Demanio

BARACCHE

 

Non siamo a Caivano o a Tor Bella Monaca. La fatiscenza dell’edilizia popolare e il malessere sociale non si annidano negli ascensori dei palazzoni di otto o dieci piani e non sono neanche il risultato di due o tre decenni di peggioramento brutale della condizione della periferia metropolitana. Le baraccopoli di Messina sono una superfetazione progressiva stratificatasi al piano terra in 116 anni di storia, il degrado qui striscia dal basso, fra le lamiere di amianto e i ratti, 650mila metri quadrati abitati da 2.200 famiglie e ottomila persone, macchie di precariato urbano che si sono moltiplicate e intensificate nella mappa della città, disseminate e non concentrate, non periferia ma centro storico, più povertà rassegnata che violenza.

La storia di un degrado al piano terra

Dalle casette di legno donate dagli inglesi, dagli svizzeri, dai russi – una gara di solidarietà nell’emergenza seguita al devastante terremoto del 1908 – si passa alle case popolari a schiera in muratura di due tipologie dimensionali, 22 e 42 metri quadrati, con giardinetto, realizzate da Mussolini negli anni 30 in una decina di zone della città. Dal dopoguerra, a questi nuclei di edilizia ultrapopolare poverissima si accozzano via via baracche e manufatti improvvisati, che diventano reticolo informale, crescono nelle stesse zone con un radicamento sociale sorprendente, il 45% degli attuali abitanti dice in una indagine del 2021 dell’Università di Messina di vivere nella stessa baracca da generazioni o almeno di esserci nato. Ma intanto le baraccopoli invadono nuovi spazi, arrivano a ottanta all’inizio degli anni ’90, quasi quattromila baracche, una affianco all’altra in una crescita incontrollata, cemento e amianto, lamiere e ancora eternit, lo sfruttamento fino all’ultimo centimetro di tutti gli spazi esistenti fra un edificio e l’altro, per creare nuove stanze, l’occupazione di giardinetti e pertinenze, grovigli di superfetazioni, umidità dall’alto e dal basso, tetti precari e assenza di camere d’aria o di fondamenta alla base, moltiplicazione di famiglie in condizioni di povertà, speranza di vita più bassa che nelle altre zone della città (73 anni contro 76), rifiuti abbandonati ovunque, servizi igienici basilari assenti. E lo Stato pure.

Il primo intervento della Regione con la demolizione e ricostruzione pesante

Lo Stato per mezzo secolo ha dormito, si è voltato dall’altra parte, salvo continuare a incassare le accise per la ricostruzione di Messina imposte dal 1909 e destinarle ad altro. Nel 1990 è stata la Regione a svegliarsi per prima, ad approvare uno stanziamento di 500 miliardi di lire. Ne sono stati spesi solo 80 in 28 anni per eliminare 500 baracche. Una politica fallimentare dove il modello duro e puro, ma anche parecchio ingenuo e rudimentale – demolire le baracche e ricostruire palazzoni di case popolari con gli alloggi da assegnare alle famiglie sfollate – è rimasto sulla carta. Non muore mai come ideologia, nuovi tentativi sono in corso, ma i risultati sono prossimi allo zero. Progetti calati dall’alto, tempi troppo lunghi fra demolizioni e ricostruzioni e quindi blocco all’origine, abbattimenti con il contagocce, iter autorizzativi lunghissimi e spesso interrotti, abitazioni liberate e subito rioccupate o addirittura riassegnate dopo trattativa.

Cambia il modello di intervento: acquisto di alloggi vuoti da riqualificare

Il subcommissario al risanamento di Messina, Marcello Scurria

Nel settembre 2018 cambia il paradigma dell’intervento pubblico. Il neosindaco di Messina, Cateno De Luca, costituisce Arisme, Agenzia comunale per il risanamento e la riqualificazione della Città di Messina, un’idea dell’avvocato Marcello Scurria che ne assume la presidenza. È lui l’uomo nuovo al comando dell’azione pubblica nella questione Baraccopoli, ancora oggi subcommissario straordinario di governo: ha idee molto diverse da quelle messe in pratica nelle operazioni del passato.

Il secondo modello d’intervento – accelerare le demolizioni ma sostituire la costruzione pesante di nuovi edifici con una gestione più leggera fondata sull’acquisto e sulla ristrutturazione di appartamenti già esistenti – è opera sua. Lo racconta così: “Con 15 milioni acquistiamo 310-320 immobili ma riusciamo a costruirne soltanto 50-60. In quattro mesi mediamente noi individuiamo l’alloggio, lo acquistiamo, lo ristrutturiamo, lo assegniamo. Per costruire, invece, servono anni e consumiamo suolo, fosse pure bonificato. Acquistiamo prevalentemente case vuote e inutilizzate, molte sono di persone che sono andate via, Messina ha perso 20mila abitanti negli ultimi dodici anni. Il mattone era il motore dell’economia della città, il boom edilizio ha fatto sì che ci fossero famiglie con 4-5-6 case. Trovare questi appartamenti non è così difficile”.

L’arrivo del commissario straordinario

Il nuovo modello si rivela vincente, l’Arisme imprime un’accelerazione all’intervento, nonostante l’iter sia sempre rallentato dalle pastoie burocratiche. Nel 2021 Mara Carfagna, ministro per il Sud del governo Draghi, sfrutta la scia del Pnrr e l’esperienza della ricostruzione di ponte Morandi a Genova, per proporre la nomina di un commissario straordinario dotato di poteri eccezionali e gli assegna uno stanziamento di 100 milioni. Il governo vara la norma con decreto legge e nel maggio 2022 viene temporaneamente nominato commissario il prefetto di Messina, ma quando Renato Schifani è eletto presidente della Regione Siciliana prende i poteri di commissario e nel marzo 2023 li trasferisce a Scurrìa, nominato suo vice operativo (dopo dieci mesi di assenza). La gestione commissariale scadrà a fine 2025, salvo proroghe.

“Effettivamente – dice Scurria – il commissario gode di poteri straordinari come non ne sono mai stati assegnati in Italia, se si fa eccezione per Genova. Questo ci ha consentito di accelerare le demolizioni che negli ultimi sei anni hanno riguardato tredici baraccopoli e di creare una continuità con la linea che fin dal 2018 avevamo adottato all’Arisme. Anche sull’acquisto e sulla riasegnazione di alloggi abbiamo accelerato i tempi. Dal 2018 a oggi abbiamo assegnato 650 alloggi, nei ventotto anni precedenti ne erano stati assegnati 532. Ora ne abbiamo in disponibilità 240 di cui una sessantina hanno interventi di ristrutturazione in corso. La filiera lavora, abbiamo dato un impulso concreto all’economia della città”.

Altolà alle nuove costruzioni

Utilizzando i poteri commissariali, Scurria blocca anche la costruzione di 40 nuovi alloggi. “Di quei 100 milioni assegnati alla struttura commissariale – dice –  40 vanno all’acquisto di alloggi, ma ho trovato impegnati altri fondi per la costruzione di 140 alloggi nuovi. In un caso, quello collegato alla demolizione della baraccopoli di via Rosso da Messina, dove vivono 94 famiglie, eravamo ancora fermi a un progetto definitivo di costruzione di 40 nuovi alloggi: questo mi ha permesso di intervenire bloccando un’operazione che valeva poco meno di 15 milioni e che sarebbe stata incompatibile con i tempi della gestione commissariale in scadenza a fine 2025”.

La struttura commissariale persegue la sua linea demolizione e acquisto di alloggi sul libero mercato per le assegnazioni, ma continua a confrontarsi a distanza con la linea hard che vuole demolizione e ricostruzione massicce di nuovi alloggi di case popolari.

Anche il Pnrr, che ha finanziato le graduatorie dei Pinqua, i progetti di qualità dell’abitare del ministero delle Infrastrutture, interviene su sei aree di ex baraccopoli demolite affidando al comune di Messina (ma non alla struttura commissariale) la costruzione di nuovi alloggi popolari verticali insieme ad aree a verde e nuovi servizi. Messina ha vinto il primo posto nelle graduatorie nazionale Pinqua e può contare su un finanziamento di 145 milioni. Anche questo sarà un banco di prova del confronto delle due linee, nuova costruzione o acquisto di immobili, perché gli interventi di costruzione del Pinqua dovranno essere conclusi entro il giugno 2026 e le poche notizie che arrivano sui programmi Pinqua nel Pnrr parlano di forti ritardi della tabella di marcia. Anche la gestione commissariale, d’altra parte, deve vedersela con un termine, la fine del 2025. E sarà proprio la sfida dei tempi a dire quale dei due modelli avrà funzionato.

Il progetto proposto al Demanio

Intanto Scurria guarda avanti e spariglia. Al festival della rigenerazione urbana, Città in scena, organizzato da Mecenate 90 con Ance, a Siracusa, ha presentato un progetto che di fatto incarna un terzo modello di intervento, dove l’aspetto sociale e quello di gestione sostenibile del territorio esistente, senza consumo di nuovo suolo, acquistano ancora più centralità.

“È il momento della rigenerazione urbana e noi vogliamo essere della partita per lasciare in eredità, dopo la fine del nostro mandato nel 2025, un progetto pilota che apra una nuova strada e consenta di fare un ulteriore salto al nostro programma. Messina è un terreno ideale per sviluppare questo nuovo tipo di interventi. Per fare questo salto abbiamo bisogno della collaborazione e del sostegno dell’Agenzia del Demanio e per questo abbiamo deciso di presentare un progetto su un’area demaniale: ci auguriamo rientri nel ‘piano città’ che l’Agenzia sta preparando anche per la città di Messina e quest’area venga assegnata alla struttura commissariale”.

L’area demaniale comprende un’ex città militare con 12-13 edifici abbandonati di dimensioni medio-grandi (nella foto aerea è la zona colorata di verde), costruita su una collina accerchiata da due baraccopoli, Bisconte e Camaro San Luigi (perimetrate di rosso), che contano in tutto 300 manufatti.

 

            

 

“Abbiamo fatto con i dirigenti del Demanio un primo sopralluogo nell’area – racconta Scurria – e dovremmo avere prossimamente un incontro a Roma con i vertici dell’Agenzia per approfondire il progetto. Per mettere a punto l’idea progettuale abbiamo parlato nei mesi scorsi con la professoressa Francesca Moraci, docente di Urbanistica all’Università di Reggio Calabria. Di altri progetti abbiamo parlato anche con lo studio di architettura milanese OBR, composto da due giovani architetti che hanno lavorato con Renzo Piano (Paolo Brescia e Tommaso Principi, ndr).  Vogliamo attivare una collaborazione fra questi soggetti di fama internazionale, le nostre strutture interne, i progettisti locali e le famiglie che abitano queste zone. Per lo sviluppo del progetto con il Demanio abbiamo accantonato un milione di euro e abbiamo già svolto un’attività di questionari con le famiglie residenti da cui è emerso che praticamente tutte preferiscono restare lì dove sono, sia pure con case risanate e servizi migliori. Prevediamo un’attività di risanamento e riqualificazione delle due baraccopoli che modifichi il modello edilizio attuale, non solo eliminando le superfetazioni, ma anche sopraelevando queste costruzioni con un piano ulteriore: questo lavoro durerà almeno due anni e in questo periodo pensiamo si potrebbero usare gli edifici dell’area demaniale come alloggi provvisori. La riqualificazione dell’area, che dovrebbe essere improntata ai migliori criteri di sostenibilità energetica e ambientale, a partire ovviamente dagli impianti fotovoltaici e dalle aree di pedonalizzazione, dovrebbe prevedere nell’area demaniale la realizzazione di studentati e spazi per attività artigianali. Siamo a cinque minuti dal centro e dall’ospedale”. Scurria per ora non vuole e non può dire di più.

La ricerca dell’Università di Messina

Non è un caso neanche che questa svolta verso una rigenerazione urbana sia stata preceduta da una approfondita indagine svolta nel 2021 dall’Università di Messina, coordinata dal professor Domenica Farinella del Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche, per avere un quadro completo e aggiornato dello stato reale dei luoghi e dei bisogni delle famiglie residenti nelle aree di risanamento. Il fattore umano, le potenzialità di sviluppo economico e sociale dei residenti sono fattori centrali nella progettazione di un intervento di rigenerazione urbana. E la partecipazione diretta dei cittadini lo è altrettanto.

La ricerca offre una fotografia molto dettagliata della vita in queste zone, è stata alimentata con le risposte a 488 questionari validi svolti in dieci aree (Fondo Garufi, Mangialupi, Villaggio Aldisio, Rione Taormina, Bisconte, Camaro San Luigi, Camaro sotto Montagna, Fondo Vadalà, Giostra casette Ritiro, Giostra Cuore di Gesù). Le risposte arrivano per il 67% da donne e per il 53,3% da persone di età superiore a 50 anni.

Dalla ricerca – scrive Farinella – “emerge che 70 famiglie, il 14,3% sono unipersonali, mentre il 12,2% sono composte da coniugi conviventi (cui è possibile sommare anche l’1% di famiglie composte da conviventi non necessariamente sposati). La famiglia nucleare più diffusa è quella composta da genitori con due figli (16,7%), seguita da quella con un figlio (12,2%). Soltanto il 6,9% delle famiglie del campione hanno tre figli e appena l’1,4% ne ha più di tre. Per quanto riguarda le famiglie  monogenitoriali “pure” (un genitore con figli), la maggior parte vedono come capofamiglia una donna, ben il  10,6%, contro il 2% che ha come capofamiglia un maschio. Si tratta di un dato molto importante se si considera che in letteratura le donne con figli a carico sono fortemente a rischio povertà, soprattutto nelle aree meridionali dove è bassa la partecipazione femminile al mercato del lavoro (con elevate quote di casalinghità forzata) e maggiori sono i livelli di disoccupazione delle donne che cercano lavoro”. La ricerca rileva anche “una  pluralizzazione dei modelli familiari, con oltre il 21% di famiglie atipiche e quasi il 28% di famiglie con uno o due soli componenti e ben oltre il 12% di famiglie monogenitoriali”.

La povertà educativa si può sintetizzare con il fatto che su 488 intervistati solo uno ha una laurea magistrale e altri cinque una laurea triennale.

La ricerca fornisce “un quadro abbastanza realistico  della condizione del principale percettore di reddito della famiglia, soprattutto se letta congiuntamente alle  altre variabili che rilevano la condizione economica e le “entrate” delle famiglie nelle aree di risanamento”.  La parte più consistente dei rispondenti dichiara che “il principale percettore di reddito è disoccupato (36,7%), mentre soltanto il 3,9% dichiara che questi svolge un’attività informale”. Il dato  che è interessante rimarcare è “la presenza di una larga parte di capofamiglia che non hanno reddito o che sono  inattivi: dopo “disoccupato” vi è il 24,5% che afferma che il principale percettore di reddito è pensionato, cui  si sommano il 7,1% dei soggetti che dichiara che il capofamiglia è casalinga e l’1% che diche che è inabile al  lavoro. Praticamente oltre il 32% si trova in una condizione di inattività, e quasi il 40% è disoccupato o fa lavoretti informali”.

Per quanto riguarda lo stato delle abitazioni, la ricerca rileva che “soltanto il 12,1% dei soggetti ha dichiarato che la propria abitazione è in buono stato, mentre per il 43,1% la casa si trova in discreto stato, ovvero presenta alcuni segni di deterioramento, mentre per quasi il 45% essa è in cattivo stato con evidenti segni di deterioramento. Come esempio di deterioramento della struttura si rimandava alla presenza di muffa, crepe, umidità, problemi alle tubature ecc.”.  Una buona fetta della popolazione provvede costantemente a una manutenzione dell’abitazione, per contrastare il deterioramento delle strutture. I fattori di precarietà maggiormente riscontrati sono “l’elevata umidità legata al fatto che molte costruzioni sono direttamente issate sul terreno, senza camere d’aria o fondamenta; o ancora le infiltrazioni d’acqua dovute ad una costruzione dei tetti non a norma (molte delle coperture delle baracche autocostruite sono state fatte negli anni in amianto e/o lamiera). La “cura” della casa implica la necessità di contrastare in particolare l’umidità, con una imbiancatura frequente delle pareti, la costruzione di contromuretti in cartongesso o con del perlinato. La manutenzione viene effettuata direttamente dai membri familiari o attraverso la rete amicale, a costi contenuti, spesso sfruttando il fatto che parenti o amici hanno esperienze nell’edilizia e svolgono lavoretti di manovale”. Quasi il 40% dei rispondenti dichiara di svolgere “spesso” manutenzione diretta nella propria abitazione, mentre il 21% la effettua “sempre”. Il 31,4% afferma di manutenere la casa “qualche volta”, mentre l’8,2% delle famiglie non fa mai alcuna manutenzione. “In generale – sintetizza la ricerca – per il 92% degli intervistati le case necessitano di lavori per poter essere mantenute in uno stato abitabile. Questo dato ci rinvia una condizione di forte disagio abitativo, anche in considerazione del fatto che le case in cui non vengono effettuati lavori di ripristino o contrasto del deterioramento sono anche quelle in cui abitano famiglie (spesso anziani soli) in condizione di povertà estrema”.

Nel capitolo delle denunce dei servizi mancanti la ricerca rileva che “i valori più bassi in termini di presenza i quei servizi giudicati più importanti sono registrati per:

  • le aree verdi attrezzate; il dato esprime ancora una volta la marginalità territoriale di questi quartieri in cui vi è un elevato degrado urbano, una scarsa pianificazione degli spazi comuni e una mancanza di visione e progettualità rivolta alle categorie che maggiormente necessitano di luoghi per la socialità, ovvero bambini ed anziani;
  • i servizi di assistenza alle famiglie (come i servizi domiciliari, i centri di aggregazione, i servizi socio- educativi, i centri antiviolenza e di ascolto e sostegno psicologico) che sono fondamentali soprattutto nelle aree ad alto rischio di marginalità sociale”.

Da sottolineare che, in relazione ai servizi agli anziani, il 60% degli intervistati ritiene “fondamentale il potenziamento dell’assistenza domiciliare”. A conferma – nota la ricerca – che “le nuove forme di marginalità sociale investono proprio la popolazione anziana che vive da sola o le famiglie con anziani non del tutto autosufficienti”.

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