DIARIO POLITICO

La strategia di Meloni: frena sul Ponte e il Premeriato per vincere il referendum sulla Giustizia

03 Nov 2025 di Pol Diac

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La retromarcia del governo sul Ponte sullo Stretto va letta in parallelo al via libera definitivo alla riforma costituzionale della Giustizia. Due dossier che si incrociano pericolosamente, alimentando l’idea di un esecutivo allergico alle toghe e alla separazione dei poteri.

Dopo le minacce iniziali seguite allo stop della Corte dei Conti, la premier ha capito che la forzatura — cioè confermare la delibera del Cipess senza conoscere le motivazioni dei magistrati contabili — sarebbe stata un autogol politico e personale. Anche perché, oltre al rischio di doverne rispondere un domani con il proprio patrimonio, avrebbe rafforzato l’accusa più temuta: quella di voler importare in Italia il modello orbaniano (o trumpiano).

Meglio allora fermarsi e attendere le motivazioni della Corte, poi si vedrà.

I tempi comunque non saranno brevi nonostante il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini continui a ripetere che i cantieri apriranno nei primi mesi del prossimo anno.

La frenata, dunque, non è tecnica ma politica. E serve a proteggere l’operazione più delicata di tutte: il referendum confermativo sulla riforma della Giustizia appena approvata dal Parlamento, uscita da entrambe le Camere identica al testo originario del Guardasigilli Nordio. Un fatto mai accaduto prima. L’Italia del 2025 non è più quella dei girotondi, e la sfiducia verso certa magistratura è ormai diffusa: gli errori giudiziari , le inchieste smontate hanno scavato un solco e  la scelta della maggioranza per la separazione delle carriere gode di simpatie crescenti  perfino tra le opposizioni. Ma questa tendenza è fragile: basterebbe il sospetto di una forzatura per trasformare il vento del consenso in tempesta contro il governo, accusato di minare l’indipendenza dei giudici.

Meloni continua a ripetere che il risultato del referendum non avrà conseguenze sull’esecutivo. Parole di rito. Il fantasma di Renzi — e del suo referendum perso — aleggia eccome, e la premier non intende ripetere l’errore. Per questo, pur senza dirlo, ha rinchiuso nei cassetti l’altra grande riforma costituzionale: il premierato. Un rinvio tattico per non alimentare l’accusa, già pronta, di puntare ai “pieni poteri”. Anche perché il referendum sulla Giustizia sarà senza quorum: vincerà chi saprà mobilitare di più l’elettorato. Ogni inciampo, ogni scontro con le toghe può pesare. E lo scontro sul Ponte — come quello, imminente, sui centri in Albania, su cui la Corte dei Conti dovrà pronunciarsi dopo gli esposti di Italia Viva e M5s  — rischia di trasformarsi in un boomerang.

Meglio tenere i nervi saldi e le mani ferme: la battaglia vera non è sulla campata del Ponte ma sull’architettura del potere meloniano presente e futura. Se il test referendario della prossima primavera dovesse andare bene, il premierato uscirà dai cassetti. Meloni non ha rinunciato alla sua “grande riforma”. Anche se (è dato per scontato), il referendum confermativo –  in caso di approvazione da parte del Parlamento – si terrebbe nella prossima legislatura. Ma è proprio questo il piano di azione della Premier che per il 2026 conta invece di portare a casa la nuova legge elettorale. L’obiettivo è noto: abolire i collegi uninominali che favoriscono l’opposizione al Sud e tornare al proporzionale con un premio di maggioranza. Un modo per blindare il campo e presentarsi in Parlamento più forte di oggi e con più  fiches sul tavolo quando arriverà l’appuntamento clou: l’elezione del Presidente della Repubblica.

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