La recensione

La polemica di Ledo Prato contro il “modellismo” e il “bandismo”: sul territorio nessun progetto è replicabile, così si sviliscono la cultura e i suoi attori

27 Gen 2025 di Giorgio Santilli

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La polemica di Ledo Prato contro il “modellismo” e il “bandismo”: sul territorio nessun progetto è replicabile, così si sviliscono la cultura e i suoi attori

Ledo Prato

Ledo Prato

“Tutto il lavoro che abbiamo portato avanti, soprattutto negli ultimi anni, per mettere in valore spazi abbandonati, dismessi, luoghi della cultura che non erano utilizzati, ha dimostrato ampiamente una cosa: le funzioni principali si replicano nei diversi luoghi mentre le modalità, le forme, le caratteristiche, il peso, il ruolo di ciascuna delle funzioni nel destino di un luogo cambiano radicalmente in relazione ai contesti. Continuo a pensare che le esperienze positive possano essere di ispirazione, ma è altra cosa dal ‘modellismo’. Credo molto nel fatto che, se si realizzano delle esperienze, queste poi vanno condivise, non per replicarle meccanicamente, ma per trovare spunti che in qualche modo possano aiutare altri nell’intrapresa”.

Stop al “modellismo”, dunque, e stop anche al “bandismo”: è la nuova polemica culturale lanciata da Ledo Prato, segretario generale di Mecenate 90, nella lunga conversazione con lo scrittore Paolo Di Paolo, pubblicata con il titolo “Cultura è cittadinanza” da Donzelli Editore. Una conversazione in cui Prato ripercorre 40 anni di appassionata storia personale e professionale e racconta come “la consapevolezza del valore d’uso della cultura, sia per il benessere personale sia sul piano sociale, sta immettendo e diffondendo il ‘culturale’ in una varietà di ambiti e contesti, al di fuori dei luoghi canonici”.

Ma cosa sono il “modellismo” e il “bandismo” e chi vuole colpire la polemica di Prato?

Cominciamo dal “modellismo”. Lo spiega lui stesso rispondendo alle domande di Di Paolo. “Se guardiamo a tutto quello che è avvenuto soprattutto negli ultimi dieci anni, in termini di iniziative ad opera di soggetti di terzo settore, credo – dice Prato – che sia davvero molto difficile trovare un’esperienza uguale all’altra: penso alla rigenerazione urbana, al riuso, alla riqualificazione, a come è stato possibile, attraverso questi interventi, moltiplicare i luoghi della cultura e della socialità. Da questo punto di vista trovo una conferma che sia un errore rincorrere dei modelli. Le attività che vengono svolte a Crotone nello spazio gestito dal Consorzio Jobel, che ha recuperato un luogo devastato e vandalizzato, non si possono confrontare con quelle dei ragazzi di Lumen a Firenze o con quelle dei Giardini Luzzati a Genova. Ciascuno di questi contesti ha le sue peculiarità, i suoi punti deboli e i suoi punti di forza. Non si possono ricondurre a un modello. Può anche venire spontaneo dire: ‘lo hanno fatto lì, è andata bene, possiamo farlo anche noi qui!’. È una tentazione molto forte rifarsi a esperienze riuscite, ma in realtà in quel momento si rinuncia a valorizzare le capacità creative delle persone; si rischia di non intercettare le domande, le esigenze, i bisogni che ogni comunità esprime. Se la cultura non è capace di interpretarli questi bisogni, e di farli diventare appunto una risorsa potente per cambiare, allora non assolve il suo compito. Lo dico sempre e non mi stancherò mai di ripeterlo: chi fa l’operatore culturale deve essere un agente di cambiamento. Per quanto mi riguarda, ci sono due ismi su cui mi trovo critico. Uno e ovviamente il ‘modellismo’, l’altro è il ‘bandismo’: spesso sono le due facce di una medaglia purtroppo ampiamente presente nel settore culturale e non solo”.

Il bersaglio di Prato è quindi la replica automatica e acritica di proposte e progetti in contesti comunque molto diversi. Il “bandismo” porta all’estremo questo vizio, coinvolgendo soprattutto la responsabilità diretta di chi queste proposte avanza, magari solo per l’interesse o per la smania di vincere una gara, un premio, un contributo. Una rincorsa senza fine,

“In questo modo – mi spiega Ledo Prato – si perde completamente di vista il processo che porta a individuare certe soluzioni, con il risultato paradossale che in una stessa amministrazione comunale il lavorare per bandi fa sì che un assessore non sappia cosa faccia un altro assessore oppure si scelgono fondi e programmi diversi, che so, il Pinqua e il bando periferie, senza condividere gli obiettivi o il disegno della città. Questo è esattamente l’opposto del ruolo della cultura, che dovrebbe associare, mettere insieme, aiutare a costruire un disegno comune”. Si esalta la competizione senza nutrire la collaborazione.

Ma torniamo a “Cultura è cittadinanza” per capire meglio le implicazioni per quei soggetti che portano la responsabilità di proporre soluzioni. “Devo fare una premessa: ho grande rispetto per chi di lavoro fa il progettista, in un certo senso lo siamo anche noi, però devo dire che quello che io chiamo “bandismo” ha generato delle storture. Ne ho avuto la dimostrazione quando, qualche volta, mi è capitato di essere chiamato a fare parte di alcuni comitati di valutazione di progetti presentati su bandi. In sostanza, può capitare di ritrovare tra un progetto e l’altro il ricorrere delle stesse espressioni, della stessa soluzione, delle stesse procedure, persino degli stessi obiettivi. Tutto questo cosa denota? Che nella pratica si è fatto riferimento allo stesso progettista, il quale ha partecipato allo stesso bando, lavorando su due, tre progetti. Certo, a volte è una necessità, perché non tutte le organizzazioni culturali hanno al loro interno le risorse e le professionalità per imbastire un progetto. D’altra parte, vale la pena di sottolinearlo, è il sistema stesso che in qualche modo incoraggia questo modo di operare. Non si può neanche dire che è colpa dei progettisti. Fuori da questo schema ci sono prevalentemente le organizzazioni più strutturate e autosufficienti”.

Prato ammette che l’assegnazione di risorse tramite bando ha rappresentato “un passo avanti rispetto a un periodo storico in cui venivano attribuite senza regole trasparenti” e il bando pubblico “ha certamente un vantaggio, che consente di metterci al riparo da eventuali rilievi circa l’utilizzo clientelare delle risorse”. Dissente però con l’opinione prevalente che il bando rappresenti “la migliore soluzione di cui disponiamo”. E si meraviglia che oggi anche soggetti che potrebbero fare a meno di utilizzare il bando per assegnare risorse, per esempio fondazioni di origine bancaria ed enti filantropici, vi facciano ricorso.

Non manca, però, qualche interessante innovazione. “Alcune fondazioni di origine bancaria che hanno più agilità nell’operare, perché dispongono di fondi propri, destinano, nella massima trasparenza, risorse per finanziare progetti senza bando, indicando quali sono gli obiettivi che intendono perseguire” e lasciando libere le organizzazioni di “presentare un progetto coerente con gli obiettivi da raggiungere, per poi confrontare, mettere in relazione la qualità dei progetti, nonché l’affidabilità dei soggetti proponenti, obbligando tutti a fare uno sforzo anche per migliorarsi”.

Prato rileva che anche queste poche fondazioni “forse potrebbero fare di più, per esempio, facendo ricorso a procedure di accreditamento aperte e trasparenti, con un dialogo costante che generi relazioni fiduciarie basate sulla condivisione degli obiettivi e dei meccanismi di comparazione: questa modalità sarebbe meno dispersiva e più efficace dei bandi periodici e contribuirebbe anche al necessario potenziamento degli enti del terzo settore”.

Esistono soluzioni alternative?

Ci sono strumenti innovativi che possono aprire strade nuove o rafforzare quelle già praticate (poco). Fra questi strumenti la co-programmazione e la co-progettazione “ispirata al progetto dell’amministrazione condivisa prevista nel codice del terzo settore, nella premessa che il sistema pubblico e gli enti di terzo settore proseguono entrambi finalità di pubblico interesse e quindi non sono controparti, ma al contrario, alleati per realizzare insieme una finalità comune”.

Altro strumento innovativo è il partenariato pubblico-privato previsto dal codice degli appalti (articolo 134) e dallo stesso codice del terzo settore (articolo 89). “Negli ultimi anni – registra Prato – sia le amministrazioni locali che i musei parchi archeologici statali hanno fatto ricorso a questa disciplina dando vita a molte esperienze interessanti da nord a sud del paese”. Con il PPP, ad esempio, “è possibile la cogestione tra pubblico e privato sociale di un progetto condiviso per la valorizzazione di uno o più beni culturali, perseguendo finalità di interesse generale in una logica di sostenibilità economica”.

Qualche timida innovazione si sta facendo, quindi, “ma la verità è che siamo ancora troppo pigramente collocati dentro una visione per cui le risorse pubbliche si possono allocare solo attraverso quell’unico sistema” del bando. “Serve un radicale mutamento di mentalità”. Diversamente “il modellismo da un lato, il bandismo dall’altra finiscono per nuocere, perché non incoraggiano le organizzazioni culturali a consolidarsi a svilupparsi. Non le aiutano nemmeno a mettere a verifica gli obiettivi per i quali sono nate e, magari, se e come sono cresciute. Nel momento in cui sei costretto a rincorrere l’ultimo bando per cercare di sopravvivere, non hai certo il tempo di pensare a come innovarti, come lavorare per migliorare. Anche se quel bando ha poco a che fare con i tuoi obiettivi ma è necessario per andare avanti, allora te lo fai andare bene per forza”.

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