SALVA-CASA
Immobili vincolati, sanatoria fuori del CODICE Urbani. I giuristi: applicabile
Alcune Soprintendenze pronte a non applicare la regolarizzazione in quanto l’articolo 167 del codice dei Beni Culturali esclude l’accertamento di compatibilità per difformità parziali e non è stato modificato direttamente dal salva-casa che invece ora lo ammette su piccoli abusi. A rafforzare la posizione degli oppositori l’articolo 183, comma 6 del Codice (Dlgs 42/2004) secondo cui «le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe ai principi del presente decreto legislativo, se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni». Per i giuristi la norma si applica perché il Parlamento è libero di decidere come modificare una norma di legge, se implicitamente o esplicitamente. Ma da più parti si invoca una circolare del MIC per chiarire.
IN SINTESI
Si apre il dibattito sulla possibilità di avviare il procedimento della nuova sanatoria semplificata introdotta dal cosiddetto “Salva-casa” (art. 36-bis) anche nel caso in cui, in presenza di un vincolo paesaggistico, vi sia un aumento di superficie utile o di volume. La novità è stata inserita dal legislatore (in fase di conversione) senza modificare l’articolo 167 del Codice dei Beni culturali e del paesaggio che esclude l’accertamento di compatibilità paesaggistica nel caso di lavori, realizzati in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che abbiano determinato un aumento di superficie o volume rispetto a quanto legittimamente realizzato. In più, ci sarebbe un altro ostacolo – solo apparente secondo il parere di qualificati esperti di diritto pubblico e costituzionale e avvocati amministrativisti, intervistati – rappresentato dall’articolo 183, comma 6 del Codice Urbani (Dlgs 42/2004), secondo il quale «le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe ai principi del presente decreto legislativo, se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni». E, mentre si dibatte (l’argomento è stato oggetto di pubblicazioni e di interventi di convegni), arriva notizia di alcune Soprintendenze che, innanzi a un accertamento di compatibilità paesaggistica attivato nell’ambito di un accertamento di conformità per difformità parziali, ossia per piccoli abusi, sarebbero già pronte ad invocare l’articolo 167 opponendosi, a-priori, alla regolarizzazione.
L’appiglio è dato dal citato articolo 183, comma 6 e dal fatto che il Parlamento, nell’introdurre la possibilità di accedere all’accertamento della compatibilità paesaggistica nell’ambito della sanatoria dei piccoli abusi, non abbia né modificato l’articolo 167 né avrebbe introdotto una deroga espressa a tale articolo nel Tu dell’edilizia. Una tesi, anche questa, demolita dagli esperti interpellati che riconoscono, però, l’utilità di una circolare che aiuti ad uniformare il comportamento degli enti deputati alla tutela del vincolo.
Il nodo dell’articolo 183, comma 6
«Sento di poter escludere che il comma 6 del 183 del Dlgs 42 del 2004 possa essere utile alla valutazione della normativa subentrata con la modifica del testo unico dell’edilizia», afferma Emilio Paolo Salvia, docente di Istituzioni di diritto pubblico alla Facoltà di Economia dell’Università Sapienza, dopo un ampio ragionamento. «Nel dinamismo del succedersi delle fonti normative nel tempo – spiega il professore -, il Parlamento è anche in grado di intervenire su materie precedentemente disciplinate». «Non si può dire – prosegue – che il comma 6 crei una rigidità insuperabile da future leggi del Parlamento, tanto da imporre al Parlamento di emendare qualsiasi disposizione normativa del Codice dei Beni culturali e del paesaggio solo mediante abrogazione espressa. Innanzitutto, sono i princìpi che non devono essere derogati ma è comunque possibile un’integrazione attraverso una norma di dettaglio. Possiamo dire che il richiamo può essere un monito per evitare al Parlamento la cosiddetta abrogazione implicita e quindi la sostituzione della norma del testo unico con un’altra che ridisciplina la materia in maniera completamente surrettizia».
Resta possibile – sottolinea il professore – «intervenire su una singola norma del Dlgs 42/2004 con una modifica o con un’integrazione, un’eccezione o una deroga seguendo i meccanismi secondo cui il Parlamento può intervenire, senza toccare i princìpi fondativi e quindi senza dover ricorrere all’abrogazione espressa». «L’articolo 36-bis non tocca i princìpi del Codice dei beni culturali e del paesaggio e anche laddove si dovesse intervenire a modificare un principio c’è da domandarsi sulla libertà del Parlamento di superare la vecchia normativa che è una norma ordinaria che si pone sul piano delle altre norme ordinarie. Semmai poi ci si potrebbe porre il problema, ma sempre sul piano dei principi, della configurabilità di un rapporto di specialità della norma in questione con norme sopravvenute, tale da reggere l’urto di norme sopravvenute, ma sempre sul livello dei princìpi».
Il contrasto tra il testo unico dell’edilizia (art. 36-bis) e il Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 167)
Secondo Andrea Di Leo, avvocato, docente in master universitari e attivo relatore in convegni dedicati alla normativa urbanistica ed edilizia, qualche problema potrebbe nascere per le modalità con cui il legislatore ha affrontato l’estensione della compatibilità paesaggistica e introdotto il silenzio assenso, sempre nell’ambito della nuova “sanatoria” semplificata, in caso di mancata espressione del parere da parte dell’ente deputato alla tutela entro il termine conclusivo dei 180 giorni. «Il legislatore (in fase di conversione del Dl, nda) fa un passetto avanti – spiega Di Leo – però lo fa senza affrontare formalmente bene la questione, sarebbe bastato inserire un inciso, scrivendo: ʻin deroga a quanto previsto dall’art. 167, comma 4ʼ e ʻin deroga all’articolo 167, comma 5ʼ per quanto riguarda la necessaria esistenza di un provvedimento espresso. Invece non l’ha fatto. Allo stesso tempo, non viene modificato il Dlgs 42 del 2004: non c’è una norma nell’articolo 167 che dice: ʻsalvo quanto previsto dall’articolo 36-bis del Dpr 380ʼ. Quindi resta questo contrasto tra norme, questa antinomia tra un pacchetto di norme del testo unico dell’edilizia e il Dlgs 42 del 2004».
Quanto alla possibilità di accedere all’accertamento della compatibilità paesaggistica nell’ambito della nuova “sanatoria” (art. 36-bis), il legislatore ha imboccato la strada della «deroga implicita, perché nell’articolo 36-bis non c’è scritto ʻin deroga aʼ, ed eccezionale perché non si riferisce a tutte le ipotesi previste dall’articolo 167, ma solo a quelle procedure del 167 incardinate nelle procedure di sanatoria dell’articolo 36-bis. Quindi giuridicamente, se mi viene chiesto – afferma Di Leo -: secondo lei, avvocato, questa disposizione è vigente, opera? Sì, io non ritengo che un’amministrazione, una sovrintendenza possa legittimamente, ricevuta una domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica dallo sportello unico, rispondere picche applicando il 167. È pur vero che questa imperfezione, questo mancato coordinamento, sicuramente potrebbe determinare nella prassi dubbi da parte degli uffici nell’applicazione e, potenzialmente anche resistenza da parte degli uffici della soprintendenza». «Per questo è chiaro che è urgente una circolare da parte dei ministeri delle Infrastrutture e dei Beni culturali, dove si chiarisca tutto ciò».
Se questo conflitto interpretativo dovesse permanere, sarebbe problematico – sottolinea ancora Di Leo – anche in riferimento al silenzio-assenso. Ipotizziamo – ragiona – un procedimento ex articolo 36-bis comma 4 che si chiude con un silenzio assenso, il responsabile del procedimento va avanti. Ma il tema fondamentale è che, se qualche soprintendenza invece ritiene che il 36-bis non abbia superato l’articolo 167 dal punto di vista procedimentale, e a quel punto interviene con un diniego tardivo, cosa ne sarebbe dell’intera procedura edilizia che si è conclusa sul presupposto del silenzio-assenso sull’accertamento di compatibilità paesaggistica? Io non voglio essere Cassandra, però non sarebbe il primo caso di contrasti tra norme che alcuni uffici risolvono in un modo e altri, che sia giusto o sbagliato, risolvono in un altro. Sarebbe auspicabile una circolare interpretativa e di raccordo con la quale il ministero dirami indicazioni puntuali a tutte le soprintendenze», conclude Di Leo.
«Se vogliamo fare una valutazione di metodo, sarebbe stato sicuramente opportuno inserire nell’articolo 167 un comma in più per specificare che la compatibilità paesistica, ovvero il cosiddetto nulla osta postumo, è ammissibile anche in presenza di difformità parziali o di variazioni essenziali che non entrano nella difformità totale. Ciò non è stato fatto. Nonostante ciò, l’articolo 36-bis non può essere interpretato in senso restrittivo», secondo Livio Lavitola, avvocato amministrativista, docente alla Luiss business School e cultore della materia presso la cattedra di Istituzioni di diritto pubblico alla Sapienza.
«C’è da precisare – aggiunge Emilio Paolo Salvia – che nessuna norma può semplicemente essere non applicata, gli unici casi di non applicazione di una norma del nostro ordinamento sono di eventuale contrasto con norme europee in materie di competenza del diritto europeo».
«L’amministrazione – prosegue il professore – non può non tenere in giusta considerazione la norma intervenuta, semmai si tratta di andare ad operare con i sistemi di composizione degli eventuali contrasti tra norme o delle novità che vengono introdotte, in modo tale da comporre un quadro che sia armonico dell’insieme delle norme per via di interpretazione sistematica delle norme stesse ed eventualmente con l’applicazione dei criteri che lo stesso ordinamento prevede per la soluzione dei possibili contrasti, le cosiddette antinomie normative».
Tra l’altro – precisa Lavitola – «questo nuovo regime introdotto dall’art. 36-bis non taglia fuori l’autorità competente: la soprintendenza è chiamata ad intervenire e manterrà il suo potere discrezionale nel dire se la difformità sia compatibile o meno con il vincolo». Si tratta dunque di sanare, anche in presenza di vincoli, piccoli abusi rientranti nella definizione di parziale difformità che generano aumenti di superficie o di volume, su cui l’autorità preposta alla tutela potrà valutare la conformità, anche opponendosi alla regolarizzazione dell’abuso se in contrasto con le esigenze di tutela. Lavitola fa l’esempio del loggiato e del porticato approvati con titolo edilizio e relativo nullo osta che in un secondo momento vengono parzialmente chiusi. «La procedura sostanzialmente consente all’amministrazione competente di dire se questo tipo di parziale difformità, che prima io non avrei potuto sanare in quanto crea volumetria o cubatura, è compatibile rispetto al vincolo. Questo è indubbiamente un passo avanti», commenta l’avvocato, che aggiunge: «Nel nostro territorio molti abusi sono rimasti fermi perché le amministrazioni non li hanno potuti sanare in zona vincolata e alcune volte, quando non c’era la disponibilità di risorse finanziare, non si procedeva alle demolizioni malgrado i provvedimenti. Questo è un aspetto pragmatico rispetto a situazioni che erano paralizzate da anni perché non c’era uno strumento legislativo che consentisse di intervenire in caso di vincolo paesistico».
«Questa norma – precisa Salvia – ha inteso per gli abusi minori semplificare le procedure non di sanatoria, non è una sanatoria che consegue automaticamente alla richiesta del privato, ma impone una fase di accertamento valutativo e discrezionale degli enti preposti alla tutela del bene paesistico e del bene del governo del territorio». «Non deve spaventare – aggiunge il professore – che rientrino in questa possibilità di accertamento semplificato abusi che vanno dall’allargamento della finestra alla creazione di una veranda coperta, perché la possibilità riguarda sempre abusi che non intervengono ex novo con nuove costruzioni totalmente incompatibili, è consentita semplicemente una valutazione di compatibilità liberandosi dai legami di un aprioristico diniego di sanabilità, perché poi succede una cosa paradossale: che io vado a demolire per ottenere l’autorizzazione paesistica postuma un bene che ripresentato il progetto è meritevole di assenso perché è assolutamente compatibile con il vincolo paesistico». «È chiaro – prosegue il professore – che una rigidità iniziale era un deterrente a intervenire creando dei pregiudizi al paesaggio, ma poiché certi abusi di entità minore si sono realizzati nel tempo, se ne rimette una valutazione di compatibilità che può legittimamente concludersi per la non compatibilità paesistica. Il legislatore viene ad allargare le maglie indicando criteri indicativi all’amministrazione cui conferisce un potere più vasto di valutazione discrezionale con esclusione, comunque, degli abusi più grandi».
Utile, comunque, una circolare anche per Lavitola, che mette in guardia: «una circolare non può stirare la norma o estenderla come un elastico, può solo chiarire l’interpretazione e darci qualche input». Secondo Salvia, una eventuale circolare «dovrebbe avere la capacità di indurre ad un’uniformità e omogeneità di comportamenti, di soluzioni, tentare un quadro compositivo in maniera tale da evitare interventi opposti. Questo per una stabilità dei rapporti e in nome della certezza del diritto. Potrebbe concorrere e contribuire a un’interpretazione che possa essere orientata in senso meno equivoco possibile, se non univoco».
Contrasto tra le norme e la legittimità costituzionale
«Che il legislatore abbia preferito inserire in sede di disciplina delle nuove ipotesi di accertamento di conformità semplificato alcuni aspetti connessi con la materia di tutela del paesaggio e dei beni culturali è nella discrezionalità del legislatore, altrimenti la stessa materia dovrebbe essere disciplinata più volte o con più normative nei diversi settori che possono essere di interesse», riferisce Emilio Paolo Salvia. Con l’articolo 36-bis, e in particolare con la disposizione che allarga le maglie dell’accertamento di conformità ai piccoli abusi, «il legislatore – argomenta il professore – ha fatto una scelta di coordinamento: nel disciplinare nuovamente le procedure di accertamento di conformità semplificato, si è posto il problema di come intervenire anche sulle aree vincolate. Chiedere di adottare due norme separate è un fenomeno di coordinamento, certamente avremmo potuto assistere semplicemente alla cosiddetta abrogazione espressa della norma precedente, se ciò non è stato fatto semmai potremmo porci il problema di un’intervenuta abrogazione tacita della norma del 167 che, seppure abrogata lo è nella parte in cui non diceva, quindi io più che di abrogazione parlerei di integrazione normativa perché si prevedono delle ipotesi prima non previste».
«Nel caso delle integrazioni, o queste vengono ad allentare un precedente divieto e quindi ne costituiscono una deroga o si pongono come eccezione ad un divieto disegnato in un certo contesto. Quindi alla fine della giostra, l’art. 36-bis (comma 4, nda) assume un significato di ridefinire i contorni del potere attribuito all’amministrazione per andare a compiere questa valutazione di compatibilità paesistica. È comunque un intervento normativo che ridefinisce i presupposti e i limiti di esercizio del potere valutativo. Poi si è approfittato di questa corsia, anziché fare un espresso richiamo: questa è una scelta non contestabile in termini di incostituzionalità perché se fosse vero che sono incostituzionali tutte le norme che comportano un’abrogazione tacita o implicita delle norme preesistenti, allora noi avremmo che gran parte dell’ordinamento italiano sarebbe incostituzionale perché tranne rari casi in cui il legislatore ha espressamente previsto l’abrogazione delle precedenti norme superate dalla nuova intervenuta, in linea di massima, nella stragrande maggioranza dei casi noi assistiamo pacificamente a ipotesi di sopravvenienza di norme senza abrogazione espressa».
«Io escludo – afferma il professore – che questo modo di procedere possa di per sé costituire la violazione di una norma costituzionale. Il bene ambientale, va ricordato, ha una tutela costituzionale, quindi senza dubbio, indipendentemente dal procedimento seguito: espresso, implicito, tacito, di adozione di una norma e dei suoi effetti sulla precedente, ci si potrebbe porre il problema di una menomazione del bene per effetto di una norma che allenti a dismisura il limite di tutela del bene vincolato e che quindi lo renda suscettibile a qualsiasi forma di intervento menomante del bene stesso. Non mi sembra sia questa la logica di questa norma (art. 36-bis, comma 4, nda) che per lo meno nella sua traiettoria è diretta a semplificare in caso di abusi minori».