Fs e non solo, rischi e opportunità dell’integrazione verticale. L’ipotesi alternativa di integrare ingegneria e direzione lavori
Si racconta che il presidente Truman si lamentasse dei suoi consiglieri economici: voleva economisti “con una mano sola”, perché quelli che aveva dicevano sempre “on the one hand” e poi “on the other hand” e non concludevano mai nulla. Anche io alla domanda secca – se sia desiderabile che FS si integri verticalmente nel settore delle costruzioni – non risponderò né sì né no, ma “dipende”. Prescindiamo qui pure volutamente da aspetti più contingenti, di natura organizzativa o finanziaria, e cerchiamo di affrontare la questione in termini più generali.
I “contro” di un’operazione del genere sono ben evidenti. Si rischia di dare il colpo di grazia a un settore che è già stato duramente colpito dalle crisi sistemiche degli ultimi anni e che faticosamente sta cercando di riprendersi. Se uno (o forse due o più) dei più grandi operatori di un settore già gracile di suo diventano proprietà del più grande committente sulla piazza – quello che da solo appalta circa metà dei lavori pubblici in Italia – sono evidenti i rischi di cannibalizzazione del mercato. Si rischia, ancora, di creare uno strano “ircocervo” dall’incerto profilo strategico.
D’altra parte, chi ha qualche esperienza di gare in questo paese sa molto bene che la realtà è molto lontana da quella che i manuali di economia raccomandano per farle funzionare al meglio.
Manca, in primo luogo, una vera concorrenza. Le gare sono assai poco combattute, il numero di offerte crolla non appena la complessità dell’oggetto messo in gara e i rischi economici superano il livello di guardia. Uno studio da me svolto sul settore dei rifiuti mostra ad esempio che mentre le gare per l’affidamento di prestazioni d’opera con durata breve sono relativamente combattute, le gare per la gestione integrata – affidamenti lunghi, responsabilità sul ciclo completo – vedono uno o due concorrenti al massimo, e finiscono sempre per essere aggiudicate agli operatori incumbent.
Pur di permettere la partecipazione alle gare da parte di un numero significativo di imprese siamo costretti a spezzettare gli affidamenti in più lotti, o a ricorrere a prassi come quella delle “associazioni temporanee di imprese”, in cui i soggetti che dovrebbero in teoria farsi concorrenza creano un unico raggruppamento per poi, in caso di aggiudicazione, spartirsi la torta secondo logiche interne. Visto dalla parte delle imprese, un modo per limitare i rischi e trovare complementarietà e sinergie operative. Dalla parte del committente, altrettanto evidenti sono i rischi di collusione, ma anche il più difficile coordinamento, specie quando le ATI che partecipano alle gare rappresentano l’unica offerta. Disporre di una “riserva di capacità” può offrire un termine di confronto in più e limitare il rischio di collusione.
In secondo luogo, le amministrazioni appaltanti spesso soffrono di pesanti asimmetrie informative nei confronti delle imprese appaltatrici. Non sempre risulta facile distinguere gli operatori che competono sulla qualità e la competenza tecnologica da quelli che puntano avventurosamente sul massimo ribasso sui prezzi. Ne risulta una classica situazione in cui “tutte le vacche sono nere” e la qualità fa poco premio. L’integrazione verticale permette di incrementare in modo significativo il potere contrattuale della stazione appaltante permettendole di accedere a informazioni – su tecnologie, costi, soluzioni alternative ai problemi imprevisti. Paradossalmente questo può andare anche a vantaggio delle imprese terze, facilitando la stazione appaltante nello scremare dal mercato avventurieri e desperados. Certo, va anche evitato che di potere ne conquisti troppo, con il rischio che poi lo usi per strangolare i fornitori.
In terzo luogo, quasi mai i bandi riescono a definire schemi “completi”, in grado di prevedere le contingenze che potranno verificarsi in corso d’esecuzione. I rischi di contenziosi sono estremamente elevati, con il rischio di trascinare per anni i procedimenti di affidamento, con conseguenti rinvii e ritardi.
Tutto ciò pregiudica l’efficace “messa a terra” delle opere in tempi controllabili e ragionevoli: un tema importante sempre, ma ancora più importante per le opere previste dal PNRR. Un rischio che si è appalesato in molti interventi strutturali di grandi dimensioni che sono stati ritardati da problemi di ogni genere (tecnici, burocratici, finanziari). Di nuovo, l’integrazione verticale può aiutare anche se a questo fine sarebbe forse più importante integrare capacità progettuale e direzione lavori piuttosto che attività di costruzione.
Infine, dovremmo forse provare anche a valutare la questione in una logica almeno europea, uscendo dai recinti nazionali. Nel settore stradale e ferroviario, il modello del “committente puro”, non integrato, è quello prevalente negli altri paesi europei, dove la stazione appaltante è al limite integrata con società di ingegneria per la progettazione e la direzione dei lavori, ma non con imprese di costruzione.
In altri settori, invece – penso ad esempio a quello idrico e dei rifiuti – l’integrazione verticale è stata storicamente la chiave del successo per le imprese con una vocazione internazionale. Si può azzardare l’ipotesi che il controllo verticale della filiera consenta di ridurre significativamente i rischi che un operatore si assume quando compete per aggiudicarsi la gestione dei servizi sul territorio, specie in contesti che non controlla e in cui non ha radici. In un mercato europeo che va integrandosi e nel quale – secondo le proposte del “rapporto Draghi” – si deve puntare al consolidamento e alla costruzione di “campioni europei”, questo potrebbe rappresentare un atout di grande importanza.
Difficile, insomma, dare una risposta definitiva e universalmente valida. Come sempre, la risposta dipende dalle circostanze e dai problemi che si ritengono prioritari. Lascio a chi conosce meglio di me il settore dei lavori stradali e ferroviari la valutazione della rilevanza, nel caso specifico, delle motivazioni e dei correlati rischi.
Antonio Massarutto
DIES, Università di Udine
antonio.massarutto@uniud.it