RIGENERAZIONE URBANA
Elena de Filippo (cooperativa sociale Dedalus): “Con gli imprenditori illuminati il nostro punto di incontro è cambiare i territori e dare servizi innovativi alle persone”

Elena De Filippo, presidente Dedalus Cooperativa sociale


Elena de Filippo, lei è la presidente della cooperativa sociale Dedalus che è entrata a far parte di Estramoenia e ha preso, insieme ad altre associazioni e cooperative, la concessione per la gestione di Piazza Garibaldi a Napoli. Cominciamo con un po’ di storia di Dedalus?
Dedalus nasce da economisti, urbanisti e architetti all’inizio degli anni 80 come centro di studi e ricerche. A metà degli anni 80 io e un altro gruppo di giovani studenti entriamo a farne parte, lavorando subito sul tema dell’immigrazione. Partecipiamo alla prima indagine nazionale sull’immigrazione, quando non si parlava dell’Italia come Paese di immigrazione, in particolare questo vale per la Campania, che era di passaggio per i migranti. L’attività di ricerca è accompagnata da un impegno sociale sulle tematiche dell’integrazione dei migranti e della nascente rete nazionale antirazzista, che ci porta a scambiare esperienze con le realtà della rete antirazzista del Centro-Nord dove i servizi e l’immigrazione sono più avanti. Così iniziamo anche noi a progettare e realizzare servizi che per la Campania sono innovativi: servizi di mediazione linguistico-culturale rivolti a migranti, donne vittime di tratta, minori stranieri non accompagnati. Da quel momento ci trasformiamo in cooperativa sociale.
In che anno siamo?
È il 1997, collaboriamo con la ministra Turco alla definizione di un pezzo delle politiche sociali e alla legge Turco-Napolitano. Così la ricerca diventa RICERCAZIONE, con l’analisi dei bisogni e delle trasformazioni del territorio che consente di progettare e intervenire per rispondere a bisogni specifici. Siamo stati una spina nel fianco delle amministrazioni locali perché leggevamo i bisogni in anticipo e dicevamo come bisognava intervenire. All’epoca era più facile reperire le risorse per intervenire. Per una ventina d’anni abbiamo gestito servizi alle nuove povertà come cooperativa sociale e cooperativa di produzione e lavoro, imparando dall’immigrazione, ci siamo poi rivolti alle fragilità di persone italiane, donne vittime di violenza, donne in difficoltà, giovani drop out (vittime di dispersione scolastica). Abbiamo gestito questi servizi e siamo cresciuti passando da una cooperativa di 7-8 persone a 80-82 dipendenti, con professionalità nuove come educatori, operatori sociali, mediatori linguistico-culturali, operatrici dell’accoglienza, operatrici del contrasto alla violenza di genere.
Come vi siete avvicinati al mondo dell’impresa, alla rigenerazione urbana, poi a Estramoenia?
La svolta è arrivata 7-8 anni fa quando abbiamo capito che lavorare con le fragilità non bastava più per tutelare i diritti delle persone fragili, ma anche per tutelare i diritti di noi tutti, perché iniziavano a essere messi in discussione diritti che davamo per scontati sulle pari opportunità, sulle tutele sanitaria, sul welfare, sull’aborto. E abbiamo osservato con le nostre metodologie che parlare con le persone fragili non bastava più. Abbiamo cominciato ad avvertire una paura diffusa, una presa di distanza dalla fragilità da parte di una vasta fascia che temeva di finirci dentro, alle fragilità. Dovevamo aprire un dialogo costruttivo con chi si vedeva minacciato dalle persone più fragili, dalla cancellazione di diritti, dalla nuova povertà.
Lì avete cambiato prospettiva e allargato anche il vostro raggio di azione?
Sì, abbiamo aperto il nostro centro interculturale, una struttura di 600 metri quadrati in una delle aree della città meno considerate, quella di Porta Capuana, per fare cultura e promuovere momenti di incontro. Facevamo le cose all’interno, ma era soprattutto una base per agire sul territorio, in strada, cercando di coinvolgere i commercianti, le mamme, e di cogliere un’area grigia del disagio e anche quell’area grigia che dicevo, sempre più estesa.
Si è sviluppato un rapporto con il territorio, l’attività di rigenerazione urbana è cominciata da lì.
Abbiamo portato in questa area della città persone che venivano da altri quartieri con spettacoli teatrali, reading, presentazioni di libri eccetera. Abbiamo creato un movimento che attrae le persone e le fa dialogare. Questa cosa ha funzionato abbastanza. Durante la pandemia abbiamo capito che ci dovevamo allargare ancora di più e da lì è nato l’incontro con Ambrogio Prezioso (imprenditore, ora presidente di Estramoenia, ndr) attraverso Carlo Borgomeo (allora presidente di Fondazione con il Sud, ndr). Abbiamo capito che avevamo punti di incontro con un mondo che pensavamo tanto distante: lavorare per cambiare i territori. Noi abbiamo capito che avevamo bisogno di alleanze più ampie, che da soli non ce la facciamo a cambiare i territori rimanendo chiusi nel sociale. E dall’altro lato imprenditori illuminati come Ambrogio hanno capito che non ci può essere sviluppo soprattutto in alcune aree della città se non c’è anche miglioramento delle condizioni di vita delle persone e questo ha portato alla nascita di Estramoenia.
Avvicinarsi a realtà così distanti ha comportato una grande trasformazione culturale per voi e per loro.
Io posso parlare per la nostra parte. Già tutta l’operazione del centro interculturale non è stata completamente indolore perché l’idea di occuparci non soltanto delle fragilità è un qualcosa che non è stata subito capito da tutti gli operatori sociali, alcuni hanno visto con sorpresa e con una certa distanza l’idea che noi potessimo fare cultura e non soltanto occuparci dei bisogni e delle persone. Ricordiamo spesso che all’inizio siamo stati visti un po’ come traditori del sociale. No, non sono stati passaggi indolore al nostro interno. E però oggi siamo tutti convinti e contenti, qualcosa poi è passato e si è capito che è stata una scelta importante.
Che passaggio è stato da fare sociale a fare cultura, anche dal punto di vista delle professionalità coinvolte?
Sono arrivati operatori che si occupano di cultura all’interno della cooperativa e abbiamo tante professionalità esterne che collaborano stabilmente con noi. Abbiamo allargato la rete con enti di cultura come il Museo Mann, la Fondazione Morra Greco, l’Accademia delle belle arti.
Si stanno moltiplicando le realtà che fanno insieme sociale e culturale, non solo a Napoli e che proprio per questo si pongono come soggetti fondamentali per la rigenerazione urbana.
Sì, a Roma e in molte altre città italiane. Credo che siamo stati bravi a capire per tempo, sempre attraverso la nostra attenzione alla ricerca, che era necessario, che c’era qualcosa nell’aria che andava fatto.
Però voi siete entrati in una dimensione molto diversa da quella di origine, oggi voi testimoniate che l’impresa deve essere illuminata, che la crescita economica deve essere partecipata, che il valore aggiunto economico prodotto dalla rigenerazione urbana non può più fare a meno di voi, dell’aspetto sociale e culturale. Siete dentro lo sviluppo economico della città.
Penso di sì. Già una quindicina di anni fa noi avemmo una prima interlocuzione con il Museo Mann che capì lucidamente come i migranti potessero essere un pubblico per il museo. Noi fummo chiamati per offrire momenti di visita alle comunità dei migranti stanziali nella città di Napoli. Da lì è nata un’interlocuzione anche con altre agenzie culturali del territorio che avevano pure capito che i migranti sono cittadini ai quali bisogna aprire delle occasioni. Il centro interculturale è stato questo, rendere fruibile la cultura ai migranti, ma è stato anche l’operazione inversa: far interagire fragilità con parti della città che non sono fragili.
E che operazione è?
Creare un dialogo non per organizzare una visita per migranti, ma una visita per migranti e non migranti, fragili e non fragili.
Un poderoso allargamento del mercato della cultura e non solo.
E un’occasione reale di incontro, di confronto, di dialogo. Lì nasce qualcosa di nuovo.
Una città più integrata.
Esatto.
Veniamo alle vostre esperienze di rigenerazione urbana e in particolare al progetto della Bella Piazza a Piazza Garibaldi.
A Piazza Garibaldi siamo arrivati proprio durante la pandemia, ragionavamo con alcune realtà a noi vicine, fra cui Ambrogio Prezioso, su cosa si potesse fare per l’area. Il primo pensiero andò a Castel Capuano, l’ex Tribunale di Napoli che è un presidio chiuso alla città e agli abitanti circostanti. Si organizzano visite per i turisti e per i cittadini però in realtà è qualcosa di inaccessibile. E in quel periodo ci accorgemmo che la parte nord di piazza Garibaldi era stata completata ma non presa in carico dal Comune perché non sapeva bene come gestirla, come gestire i 7-8 chioschi che ci sono, la cavea per gli spettacoli, le aree attrezzate che vanno manutenute e curate. Quindi con il Comune è nata un’interlocuzione per capire se si potesse intervenire con una congiunta con il Comune su quell’area. Ci hanno proposto più volte un affidamento in esclusiva, ma su questo abbiamo tenuto duro perché non volevamo un affidamento in esclusiva di quello spazio, volevamo che il Comune si assumesse la sua parte di responsabilità.

Alla fine, avete avuto comunque una concessione. Come funziona?
Sì, la proposta era di avere una concessione a fronte di un pagamento finanziario. Noi abbiamo risposto che volevamo una conduzione congiunta e che avremmo trovato noi i soldi per realizzare le attività che dovevano avere una fortissima vocazione sociale. Perché, a fronte del degrado in cui versa quell’area, l’idea era e rimane quella di non cacciare nessuno, ma di rendere quell’area vivibile per tutti coloro che in qualche modo già la vivono, chi ci abita, chi la attraversa, chi ci passa le giornate, chi ci lavora, i turisti. L’interlocuzione è durata tre anni, è stato anche molto un confronto di avvocati per trovare la formula giusta. Il Comune ha fatto un avviso pubblico, noi abbiamo partecipato avendo raccolto un milione di euro da diversi finanziatori: fondazioni, imprenditori privati, commercianti. La Fondazione con il sud ci ha raddoppiato questa cifra. Lo scorso 7 ottobre finalmente abbiamo firmato la convenzione per la concessione dello spazio pubblico.
Con chi gestite lo spazio?
Siamo sette organizzazioni del terzo settore che si sono costituite in Ati e poi c’è un partenariato ampio che coinvolge imprenditori e altre organizzazioni.
La vostra attività esattamente in cosa consiste?
Sul piano più prettamente sociale c’è l’apertura della portineria di quartiere.
La portineria di quartiere? Che cos’è?
Fisicamente è uno dei chioschi che ci sono stati affidati dove c’è un équipe piuttosto variegata – dodici operatori che hanno competenze differenti, dagli operatori di strada ai mediatori culturali agli educatori agli operatori della prossimità – presente sette giorni su sette, per ora 7-8 ore al giorno, poi a regime arriveremo a 14 ore al giorno. Dico a regime perché non abbiamo ancora l’energia elettrica.
Non avete l’energia elettrica?
No, appunto.
Da non credere. Ma cosa fa questa portineria di quartiere concretamente?
È un presidio sul territorio, offre informazioni, è un punto di riferimento, è anche un contenitore di altre organizzazioni che vogliono offrire servizi gratuiti, un sindacato o un patronato, un consultorio. Servizi gratuiti perché questa attività è improntata a una concezione universalistica e gratuita. Per meglio dire, qui si fa orientamento e si indirizzano le persone verso questi servizi che non sono erogati qui.
Fin qui i servizi sociali e informativi. Poi?
Ci saranno dei tavoli dove sarà possibile giocare, chiacchierare, incontrarsi, fare reading. Metteremo su delle attività educative e di aggancio dei ragazzi che vivono la piazza, soprattutto quelli più a rischio di marginalità o devianza. Ci sono anche due campetti, uno di calcio e uno di pallacanestro, dove si potranno anche organizzare tornei, coinvolgere società sportive e scuole. Ci sarà un’area mamme che sarà più protetta e tutelata, con operatori addetti a questo spazio. Poi c’è una cavea abbastanza grande dove in primavera e in estate andremo a fare spettacoli teatrali, musicali, cinema all’aperto. Alcune attività saranno gratuite, altre invece a pagamento perché noi poi abbiamo il problema della sostenibilità.

Sostenibilità economica?
Certo, dobbiamo pagare gli stipendi ai dodici operatori di cui ho parlato più altri quattro operatori che fanno pulizia integrativa e manutenzione del verde e anche un po’ di cittadinanza attiva per educare al rispetto della piazza bene comune. Poi dobbiamo comprare le attrezzature, vogliamo prendere impianti stereo, audio, video, dobbiamo fare manutenzioni delle aree e dei campi, l’arredamento dei chioschi, la potatura degli alberi, nuovi alberi andranno piantati. Tutte le nostre entrate saranno comunque destinate alla piazza.
Quindi i finanziamenti che avete già raccolto, i biglietti di alcuni concerti e spettacoli teatrali, e poi?
Nella convenzione c’è scritto che i sette chioschi potranno essere destinati anche ad attività commerciali e abbiamo intenzione di fare un bando per selezionarle.
Avete bisogno anche di investimenti per sistemare le aree della piazza?
Sì, per esempio i campi da gioco vanno sistemati.
Il Comune che fa?
Ci mette i suoi servizi. Per esempio abbiamo otto tavoli di lavoro, alcuni su aspetti sociali, come quello sui senza fissa dimora, oppure educativi, sul patrimonio culturale, sulle aree verdi. Il Comune mette a disposizione i propri servizi, si crea una sinergia.
Dopo un mese di attività, come sta andando?
Siamo molto fiduciosi, c’è molta curiosità. L’Accademia delle belle arti ci sta curando la parte dell’immagine della piazza, avremo un logo. Usciremo presto con nuove installazioni. La sfida è riuscire ad attrarre investimenti di altri soggetti, i commercianti per esempio. Penso che riusciremo.
Il successo delle iniziative di rigenerazione urbana si misurano dalla durata, dalla capacità di tenere vive le attività nel tempo.
Sono d’accordo. Noi ora abbiamo la convenzione che dura quattro anni e penso che ce ne vorranno tre per ottenere i primi risultati veri, per innescare il vero cambiamento, che ha bisogno di tempo.
Qual è il cambiamento che vi aspettate?
Che sia una piazza vivibile e accogliente per tutti coloro che ci stanno.
Le tappe e i vostri progetti successivi per la rigenerazione urbana?
Adesso siamo molto concentrati su piazza Garibaldi, da qui dipenderanno molte cose future. Poi mi piacerebbe aprire le porte di Castel Capuano. È uno spazio immenso che credo vada restituito alla città, agli abitanti del quartiere. È un luogo molto simbolico, per Napoli era il Palazzo di giustizia in un’area dove c’è tanta marginalità e anche delinquenza.