LE INCHIESTE SULL'URBANISTICA

I paletti della Cassazione, gli eccessi del modello Milano, i conflitti di interesse, le norme ambigue e l’urgenza (ora più che mai) delle riforme. Non c’è futuro senza un patto pubblico-privato per la città sociale

Diario DIAC in questi mesi ha seguito con attenzione la cronaca delle inchieste penali sull’urbanistica milanese, ha esaminato a fondo con gli articoli di Salvatore Di Bacco i provvedimenti della Procura e del Gip, ha svolto analisi puntuali sulla normativa urbanistica ed edilizia e sulle sue carenze, ha preso posizione molto critica sulla strada intrapresa dal salva-Milano (interpretazione autentica) e ha sostenuto la legge sulla rigenerazione urbana, ha lasciato spazio alle opinioni di profondi conoscitori del settore (mi piace citare Pierluigi Mantini e Roberto Morassut), ha puntualmente riportato le posizioni esposte dalle imprese nelle audizioni parlamentari. Come è nella sua vocazione, ha cercato di fare informazione puntuale e circostanziata, senza toni urlati o prese di posizione manichee o preconcette. E tenta ora – alla vigilia delle decisioni del Gip sugli arresti chiesti dalla Procura fra gli altri per l’ex assessore Tancredi e il ceo di Coima Catella – un primo bilancio di quello che sta accadendo a Milano, nella convinzione che i processi devono fare il loro percorso ma è necessario, al tempo stesso, trovare alla scala nazionale una soluzione di uscita all’impasse che Milano ha evidenziato, con riforme e la definizione di un nuovo patto che promuova lo sviluppo della città pubblica e sociale, rimasta schiacciata nella capitale lombarda dalle dinamiche economiche e finanziarie dominanti…

27 Lug 2025 di Giorgio Santilli

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Il quadro che emerge dalle inchieste milanesi non può essere valutato con giudizi ‘bianco o nero’, né tanto meno si può affondare nel grigio senza distinguere i comportamenti, non si può essere genericamente colpevolisti o innocentisti, perché il groviglio di contraddizioni e di ambiguità che emerge investe tutto. E perché la inevitabile crisi del modello Milano deve rapidamente portare a un modello Italia di sviluppo se si vogliono evitare gli effetti drammatici della paralisi economica e amministrativa.

L’ambiguità viene da lontano. Parte dalla normativa urbanistica di riferimento, abbandonata da uno Stato immobile, assente e colpevole e sviluppata invece per trenta anni dalle Regioni con mille modelli fai-da-te. L’ambiguità trova poi il suo centro nella normativa edilizia, stirata qua e là senza un disegno organico proprio, con forzature che hanno rappresentato scorciatoie più che semplificazioni, per coprire i buchi della normativa urbanistica con il dominio del “fare” sul “pianificare”. L’ambiguità cresce nell’interpretazione che di volta in volta si è voluta dare di queste norme-groviera per interessi o punti di vista parziali, sacrificando via via sempre più l’idea di comunità. L’ambiguità cresce soprattutto con la debolezza dell’azione politica che, in ambito locale, spesso asseconda modelli liberisti di sviluppo e di finanziarizzazione, senza governarli e senza imporre in modo chiaro e forte una adeguata contropartita di interesse pubblico (chi ha chiuso gli occhi per anni di fronte all’emergenza abitativa?). L’ambiguità diventa abitudine quando una parte degli imprenditori, per rispondere all’immobilismo e a tempi incompatibili con un investimento privato, accettano di trasformare le scorciatoie in nuovi modelli privi di una base normativa solida. Accettano di adottare schemi di gioco tipici della finanza internazionale che però solo alcuni hanno gli strumenti e l’organizzazione per giocare.

La valutazione dell’azione degli imprenditori deve essere temperata, però, con due, decisive avvertenze: la prima è che le regole chiare le deve dare lo Stato che non può lasciare le imprese e i cittadini nella drammatica situazione di doversi muovere fra regole contraddittorie, obsolete, inadeguate; la seconda è che bisogna evitare generalizzazioni di ogni sorta. Ci sono imprenditori che hanno realizzato grattacieli passando per una Scia contro ogni buon senso e altri che hanno sempre chiesto il permesso di costruire. Ci sono stati costruttori che hanno costruito in coerenza con i piani urbanistici particolareggiati e altri che hanno approfittato dell’assenza di piani particolareggiati per forzare la mano  facendosi coprire dall’intepretazione dell’amministrazione che il piano particolareggiato non servisse perché si era in area già urbanizzata. Ci sono imprenditori che hanno realizzato standard aggiuntivi a fronte delle loro costruzioni e altri che hanno fatto di tutto per evitarli. Ci sono stati, quindi, atteggiamenti speculativi e forzati – che si sono riparati dietro l’ambiguità delle norme e che saranno valutati dai processi – e altri che hanno tentato di fare le cose seguendo vie più prudenti.

Coima, giusto per non eludere il caso oggi maggiormente sotto i riflettori, non risulta dagli atti delle inchieste che abbia realizzato grattacieli in Scia, seguendo invece i percorsi ordinari che comportano passaggi estenuanti, burocrazia, lentezze, modifiche progettuali ripetute più e più volte. L’accusa è di aver tentato di forzare questi passaggi oltre il lecito: se sarà dimostrato che le consulenze date a un architetto membro della commissione del paesaggio avevano una finalità corruttiva, come sostiene la Procura, la condanna sarà inevitabile. Se invece risulterà che l’azione svolta si è limitata ad azioni lecite per spingere il proprio investimento di milioni di euro, l’impianto accusatorio è destinato a crollare.

L’assenza di regole chiare sul conflitto di interessi è, però, comunque, un grande male italiano che affonda le radici nei rapporti mai risolti fra esercizio della professione privata ed esercizio degli incarichi pubblici, determinando un alone di ambiguità in cui alcuni faticosamente provano ad agire in buona fede e altri sguazzano. Saranno i processi a dire se e fino a che punto questi atteggiamenti siano sconfinati in veri e propri comportamenti penalmente illeciti. In Italia servirebbero comunque regole chiare, contro le resistenze delle corporazioni professionali, che separino la sfera pubblica da quella privata con una incompatibilità temporanea totale (che deve avere come contraltare retribuzioni o compensi adeguati nel settore pubblico). Il malcostume degli incarichi pubblici a basso costo o gratuiti spesso legittimano la continuazione di attività professionali private in aree pubbliche (magari grazie alle rendite e alle reti che l’incarico pubblico rafforza) generando forme di scambio o, peggio, atteggiamenti collusivi che ostacolano, anziché favorire, l’esercizio di un sano spirito civico e la trasparenza  dovuta all’azione amministrativa.

Occorre, più in generale, uscire da un’ambiguità di rapporti pubblico-privato che si estende anche ad altre fenomenologie: le proposte progettuali regalate da progettisti più o meno noti al settore pubblico; le corsie privilegiate riservate a Università,  società in house ed enti pubblici contro un mercato trasparente della progettazione; la procedura largamente prevalente di affidare incarichi sulla base di curriculum (in licitazione privata o, peggio, in affidamento diretto) invece di svolgere concorsi di progettazione che consentano all’amministrazione e alla città di discutere (e scegliere) il progetto migliore per rispondere ai fabbisogni da soddisfare. L’Italia ha bisogno di un rapporto pubblico-privato limpido e forte per una rinascita di sviluppo.

Quindi non ci sono imprenditori buoni e giudici cattivi o viceversa, così come non ci sono politici coerenti e tecnici compromessi. Un politico responsabile – soprattutto se è a capo di un’amministrazione – deve sempre condividere le scelte della sua amministrazione e coprirle fino in fondo.

Le inchieste della magistratura erano inevitabili perché a Milano si sono registrati eccessi e la creazione di automatismi fondati su posizioni fragili, ma non tutto quello che hanno fatto le imprese è sbagliato e ogni ipotesi di reato  dovrà essere giudicata sulla base delle prove, non dei teoremi. La sentenza della Cassazione penale (III sez.) del 21 luglio scorso sul caso “Parco delle Cave” (che potete leggere qui) comincia a fare chiarezza mettendo i primi paletti sulla possibilità di derogare alle prescrizioni del piano attuativo e del DM 1444/1968 sugli standard e sui rapporti fra legge nazionale, legge regionale e pianificazione comunale.

Non basta la giustizia, però. Il modello Milano è contraddittorio perché ha cercato di dare risposte di sviluppo a una situazione in cui prevaleva l’immobilismo generato da un quadro normativo e da una cassetta degli attrezzi arretrati su cui occorre intervenire con urgenza. Si è perso troppo tempo. La debolezza della politica a livello locale e nazionale è alla base del disastro.

Oggi il Paese ha bisogno di una legge urbanistica di principi rispettosa delle evoluzioni intervenute ad opera delle Regioni, ha bisogno di una legge sulla rigenerazione urbana, della riforma non ambigua del testo unico dell’edilizia (a partire dalla classificazione delle tipologie edilizie e dai titoli abilitativi relativi), di un nuovo modello di housing sociale che dia risposte immediate a fabbisogni abitativi esplosivi. Invochiamo queste risposte da troppo tempo: la politica debole e distratta ha dormito a lungo e continua a cincischiare. Inoltre, il vizio di dover ripartire sempre da capo, anche quando il predecessore aveva fatto un buon lavoro, risponde alla logica delle bandierine che non serve al Paese in momenti tanto gravi. Anzi, non serve mai al Paese che dovrebbe imparare ad andare oltre la logica dei guelfi e dei ghibellini, se vuole crescere e risolvere i problemi che ha davanti.

Serve lavorare subito, a tutti i livelli istituzionali e con la più ampia partecipazione politica possibile, a un nuovo patto sociale che metta la casa e la città al centro. La ricerca “Residenza e occupazione: costruire risposte per generare futuro” presentata dal Cresme al recente convegno organizzato a Bologna dall’Ance Emilia-Romagna (si veda qui l’articolo) mette sul tavolo i numeri fondamentali per costruire un nuovo modello di edilizia residenziale pubblica e di housing sociale dopo che l’aumento dei costi e l’incertezza delle regole ha mandato per aria quello su cui si era lavorato nei due decenni precedenti. Servono fondi pubblici per garantire canoni e prezzi accessibili al ceto medio e incentivi destinati a obiettivi chiari, quantificati ed espliciti. Servono progetti corali capaci di mettere in connessione l’edificio, le sue funzioni e la città: è cresciuta una schiera di architetti capaci di ascoltare e fare. Servono imprese e capitali capaci di dialogare con il pubblico allargando il conto economico di un’operazione ai costi e ai beenfici sociali. Servono capitali privati e finanziari che sappiano rispettare il valore dei territori in cui operano senza farsi portatori di forme esasperata di gentrificazione. Servono operatori del terzo settore e della cultura capaci di portare la rigenerazione umana come componente fondamentale della rivitalizzazione urbana. Serve una politica nazionale e locale che mostri una volontà assoluta di andare in questa direzione e detti condizioni e regole chiare rispondenti all’interesse pubblico.

Pensare che la collaborazione fra pubblico e privato sia finita a Milano è un suicidio del Paese. Fuori di qualunque ambiguità serve oggi la ripresa di un modello di housing e di rigenerazione urbana che ridia voce, spazio, possibilità alla città sociale, alla partecipazione delle comunità dei cittadini ai progetti, al recupero degli spazi pubblici, alla qualità dei contenuti e delle funzioni (innovative, sociali, culturali) rispetto all’attenzione assoluta posta per troppo tempo solo sui contenitori e sui prezzi al metro quadrato. Nessuna depressione, nessun ripiegamento. Il nuovo patto per la città sociale serve ora. È ora di agire. Chi non ha voglia di impegnarsi su questa strada, si faccia da parte per lasciare spazio a energie nuove e vitali che nella città, nella politica, nei lavoratori, nelle professioni e nelle imprese esistono. Davvero è ora di voltare pagina.

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