Digitalizzazione, questione dimensionale e modelli organizzativi per l’impresa di costruzioni: la centralità del dato e l’evoluzione imprenditoriale

03 Set 2025

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Uno dei temi che spesso sono dibattuti nel settore delle costruzioni riguarda il nanismo dimensionale dei suoi attori, argomento che, in realtà, si può estendere ad altri aspetti come la difficile sinergia tra le tipologie degli operatori economici: produttori, professionisti e costruttori, per non parlare dei committenti.

A questo proposito, si è cercato, ad esempio, di rimediare sul versante della domanda pubblica tramite i processi aggregativi e la qualificazione delle stazioni appaltanti.

La questione non è, però, solo di carattere dimensionale, ma coinvolge, infatti, anche statuti corporativi, modelli organizzativi e culture operative.

Sempre riprendendo il caso precedente, è evidente che alla riduzione del numero delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti non corrisponda direttamente e necessariamente un aumento della professionalità dei compratori pubblici, come dimostra non di rado la loro evidente difficoltà a gestire la trasformazione digitale, anche in presenza di impegnativi ricambi generazionali e della scarsa attrattività dei ruoli.

Di conseguenza, nonostante che il mercato nel tempo sia profondamente mutato, si pensi solo al passaggio dalla più grave crisi strutturale recente al repentino incremento della domanda pubblica e privata oppure alla redistribuzione del valore del mercato stesso tra interventi di nuova costruzione e di riqualificazione, le questioni attinenti alla cultura industriale e alla produttività sono rimaste tendenzialmente irrisolte, poiché, tranne pochi casi, i soggetti non hanno adottato strategie inedite di crescita e di cambiamento in tal senso o perlomeno essi non sono stati misurati.

Per prime, le committenze non si può dire che, in buona parte, abbiano funto da agenti trasformativi, come ci si attendeva.

Evidentemente, come appare tuttora anche per il fenomeno della digitalizzazione, ciò è forse dovuto al fatto che non si ritenga necessario attuare tali variazioni sino al fondo, vale a dire che letteralmente si possa procedere in loro assenza.

È bene, in effetti, dire che la versione che descrive gli attori come impreparati digitalmente ha indubbiamente un suo fondamento, ma, al contempo, ciò varrebbe assai di meno se essi non potessero realmente farne a meno.

Che accade, tuttavia, allorché vi sono entità esterne che iniziano a provvedere a ipotizzare variazioni degli assetti, acquisizioni, fusioni e incorporazioni, entità che siano, ad esempio, grandi committenti per le imprese maggiori o soggetti finanziari per le società non quotate in borsa?
È possibile, a questo proposito, che uno degli effetti più evidenti del loro intervento riguardi l’introduzione dei processi digitalizzati e sostenibili, nella misura in cui proprio queste categorie risultino indispensabili per conseguire determinati obiettivi.

Quali rischi sono presenti nel lasciare l’iniziativa ad attori altri che la eterodirigano?

Ovviamente, l’intento non è quello di snaturare l’essenza degli operatori, come, a livello internazionale, hanno dimostrato casi come quelli di Katerra o di  WeWork, allorché hanno emulato strettamente i business model altrui.

Occorre anche domandarsi se la stessa iniziativa cosiddetta del 110% non avesse, involontariamente, provato a creare agglomerazioni e reti tra professionisti e imprenditori avanzate, che non hanno poi trovato consistenza oltre l’opportunità.

Si noti, infatti, come già l’integrazione stretta tra soggetti professionali e imprenditoriali, nonostante i timori diffusi, garantirebbe la continuità tipica dell’approccio manifatturiero: la sua estensione alle professioni non tecniche ne amplierebbe la portata.

Nel momento in cui i fondi di private equity, a partire dalle crisi aziendali, sembrano supportare processi di aggregazione e di integrazione nel settore della manifattura o in altri e, al contempo, nel settore dell’ambiente costruito si parla di possibili verticalizzazioni in house da parte di società legate alla natura pubblica come il Gruppo FS, varrebbe la pena, essendovi già casi reali, di ragionare sul ruolo potenziale dei fondi stessi per il settore delle costruzioni, sotto il profilo della centralità del dato.

Detto altrimenti, può un ecosistema digitale favorire l’integrazione tra organizzazioni professionali e imprenditoriali in ambiti specifici e la loro crescita secondo diversi aspetti, anche alla luce degli interessi che il private equity sta dimostrando, in altri ambiti, per il settore professionale, oltreché per quello imprenditoriale?

Come si può agevolmente constatare, in questo caso, per società di architettura e
o di ingegneria e di imprese di costruzione o di installazione, la digitalizzazione sarebbe già molte oltre gli obblighi di legge relativi al Codice dei Contratti Pubblici, per avviarsi verso il divenire strumento di strategie industriali, invero maggiormente promosse dal versante finanziario che non direttamente da una politica industriale governativa oppure da iniziative prettamente industriali, benché valga sicuramente la pena di riflettere sui processi di crescita in atto nelle prime imprese italiane: che non possono, ovviamente, misurarsi solo in termini di fatturato.
In altri termini, partendo dalla crescita, non solo dimensionale, dei diversi operatori economici, si può pensare che essa possa finalmente avvenire all’interno del sistema?

Naturalmente, gli elementi considerati dai fondi di private equity, nelle loro diverse articolazioni, sono molteplici, ma implicano spesso un intervento diretto anche in termini di competenze gestionali, pure in materia di transizione digitale.

Da questo punto di vista, sembrerebbe, dunque, che la maturità digitale di una organizzazione professionale, di una impresa di costruzioni, di installazioni o di produzione manifatturiera o della integrazione tra di esse sia un effetto, anziché esserne una premessa.

È, però, vero che una impresa di costruzione digitalmente evoluta, oltreché sensibile ai temi ESG, potrebbe presentare caratteristiche interessanti per i fondi stessi.

Occorre, perciò, al contempo, osservare come una organizzazione che abbia posto al centro del proprio processi gestionali un ecosistema digitale possa essere meglio attrezzata per avviare azioni di crescita che, nel caso dell’intervento dei fondi di private equity, possono effettivamente presentarsi sotto diverse modalità.

D’altra parte, le operazioni di private equity possono, secondo una certa letteratura, favorire le politiche di espansione, ma non influiscono necessariamente in positivo sulla redditività e sulla produttività, forse anche in virtù dei tempi ridotti previsti di disinvestimento, soffrendo, comunque, anche della specificità dei settori economici e dell’approccio al rinnovamento dei vertici aziendali, spesso familiari, più o meno incrementale.

Naturalmente, anche a prescindere dal private equity, la relazione che intercorre tra aumento del fatturato ed espansione nei mercati e altri elementi non è secondaria, ma, al contrario, è determinante e, appunto, non vi sono spesso correlazioni positive.

A prescindere dall’intervento attivo di soggetti esterni nella conduzione aziendale, la digitalizzazione dei sistemi informativi a supporto delle decisioni nelle imprese, nel senso di fare sì che la gestione accorta dei dati migliori la qualità decisionale, può rappresentare un tratto essenziale per affrontare i passaggi generazionali al vertice, per migliorare la reputazione presso investitori e finanziatori, per governare eventuali processi aggregativi nelle dimensioni ed espansivi nei mercati.

A proposito di questo approccio, un recente studio condotto dal Politecnico di Milano e dall’Università degli Studi di Brescia ha cercato di gettare le premesse verso due direttrici principali: l’uso dei dati nell’integrazione dei processi decisionali sia nella dialettica tra sede e cantieri sia nei confronti delle coalizioni temporanee o delle catene di fornitura; l’apprezzamento dei dati prodotti dalle imprese al cospetto degli operatori finanziari e, in seconda istanza, dei committenti stessi.

Nel primo caso, la condizione auspicata è che i dati e le informazioni, inerenti agli aspetti tecnici, prodotti digitalmente all’interno dell’impresa di costruzioni, siano utilmente condivisi esternamente con i consulenti e con i fornitori e con i sub appaltatori, tecnici o meno, proprio nella direzione sia dell’integrazione sia dell’espansione.

Nel secondo caso, la percezione, da parte di soggetti committenti e soggetti finanziari, del valore reale dei dati e delle informazioni generati dall’impresa di costruzione dovrebbe condurre a letteralmente incrementarne il valore nei termini di mitigazione del rischio di insuccesso e di incremento della produttività.

Come si può agevolmente constatare, se nel caso dei contratti pubblici e privati lo stimolo proveniente dai committenti crea condizioni di conformità, le esigenze intrinseche avvertibili dalle imprese hanno a che fare con condizioni di necessità.

Si tratta, dunque, di reperire queste condizioni anche nella digitalizzazione dei processi gestionali per la trasformazione delle dimensioni e della natura degli attori.

Le nozioni di integrazione e di espansione dipendono, dunque, anche dalla possibilità, attraverso l’approccio digitale, di misurare le prestazioni e di rendere trasparenti i comportamenti.

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