

“Placemaking è cultura, placemaking è storie, è idee, è narrazione. È quello che abbiamo fatto, è quello che noi di Futurecity siamo nel settore immobiliare da 25 anni. Abbiamo lavorato a 250 grandi progetti nel mondo e continuiamo a lavorare in tutto il mondo”. Mark Davy, fondatore di Futurecity, agenzia londinese leader mondiale di placemaking culturale, l’attività di dare contenuti e strategie culturali alle grandi operazioni di trasformazione immobiliare e di rigenerazione urbana, è intervenuto venerdì scorso al convegno organizzato da Estramoenia sulla rigenerazione urbana a Napoli Est e quello che riportiamo è una parte del suo discorso. “Futurecity crede che la cultura sia la chiave per sbloccare il potere e il potenziale dello spazio urbano”, è la parola d’ordine nella presentazione del suo sito.
Ma torniamo al discorso di Mark. “Quello che sta cambiando ora – ha detto a San Giovanni a Teduccio – è l’attenzione crescente alla capacità di differenziazione, all’identità, all’autenticità. Nel promuovere il progetto di una città cerchiamo un fattore unico che sia capace di guidare la trasformazione e renderla visibile. Quello che cominciamo a vedere nel mondo è la crescita della ‘città della cultura’, della ‘città culturale’. E dentro questo fenomeno c’è la crescita delle piccole aree, dei distretti creativi, dei quartieri culturali. Queste sono forme che appartengono a un club di cui noi siamo parte da tempo. Ma quello che è interessante nel lavoro che facciamo oggi è che il settore privato ha cominciato a capire che la cultura è parte importante del business”.
Davy ha raccontato diversi progetti cui Futurecity ha partecipato nel mondo, come quello di Nine Elms sulla South Bank del Tamigi. “Nine Elms – racconta Mark – era un’area industriale di Londra, ma tutto è cambiato quando lì andò a stare l’Ambasciata americana e cominciò un’età dell’oro dello sviluppo. A un certo momento, c’erano in costruzione in quella zona 38 differenti edifici di altrettante società, ma non c’era un piano, non c’era un masterplan culturale. C’erano soltanto progetti singoli di sviluppo e valorizzazione, ognuno con il proprio team di architetti, con il proprio team per il landscape, con le proprie idee, ma non c’era nessun legame che li tenesse insieme. Quello che abbiamo cominciato a fare, allora, quando siamo arrivati, fu una mappa molto stilizzata dell’area, come la mappa della metropolitana di Londra, grandiosa perché è stata capace di rendere molto semplice un intreccio complesso. Facemmo una mappa con i cambiamenti che stavano avvenendo in quell’area, quelli dell’hardware e quelli del software, le trasformazioni fisiche ma anche i cambiamenti di idee, così che si potevano vedere tutte insieme le trasformazioni che stavano avvenendo in quel luogo. E cominciammo a dire che Nine Elms è un luogo unico che ha 38 trasformazioni e le mostrammo come se sulla mappa fossero le fermate di un treno. Era anche la mappa dell’energia creativa di quel luogo. Nine Elms non doveva essere visto come una sommatoria di trasformazioni isolate, ma doveva appartenere a qualcosa di unico e più grande. Cominciammo a cercare un’idea che tenesse insieme tutto e desse un’identità e pensammo al fiume come a una sorta di spazio civico, una linea culturale che demarcasse l’est dall’ovest e a ovest c’era la Battersea Power Station”.

“Cambiò – continua a raccontare Mark Davy – il modo in cui ciascuno dei protagonisti di questo sviluppo cominciò a vedere questo posto, cominciarono a condividere la grande idea che avevamo avuto di fare di questa zona un distretto creativo in una città di cultura e di utilizzare la cultura e le arti come la leva per influenzare le decisioni di ciascuno di quei business, per dire che non è sufficiente costruire residenze o uffici, ma ognuno deve essere parte di questa nuova idea. Questo creò entusiasmo, eccitazione e tutte queste organizzazioni, pubbliche e private, si unirono a questa idea. Ma il risultato più grande fu che Apple decise contro ogni previsione di insediare tutti i suoi uffici del Regno Unito qui, alla Battersea Power Station, il relitto della centrale chiusa negli anni ’60 con le sue quattro ciminiere. Ora quella è la casa di Apple e se non c’è dubbio che un ruolo fondamentale l’hanno giocato le quattro iconiche ciminiere, è anche vero che a loro piacque molto l’idea di questo posto come una nuova idea di Londra”
L’arte sempre più si accompagna a un’idea di futuro come originalità e autenticità e conquista nuovi mercati. “A cercare luoghi originali e autentici sono spesso i giovanissimi Millennials della generazione Z e delle generazione Alfa e le compagnie sono interessatissime a investire nei luoghi che piacciono loro”, dice Davy. “Brand dello sport come Nike o del fashion come Chanel lavorano con gli artisti perché avvertono che siamo stanchi della globalizzazione e vogliamo vedere qualcosa di unico e speciale, che è quello che l’artista potenzialmente rappresenta. Vogliamo vederlo preferibilmente in spazi non-tradizionali, quelli che noi chiamiamo ‘gallerie senza muri’. Andiamo fuori dei luoghi istituzionali, buttiamo giù i muri, andiamo nelle strade e cominciamo a creare piccoli spazi, piazze dove portiamo teatro, esperienze immersive, idee temporanee per piccoli spettacoli o sport o gaming. Oggi il mercato vuole cultura, vuole questi spazi, non basta più costruire uffici o case”.