Il rapporto del Centro Studi
Confindustria taglia le stime del Pil, +0,6% nel 2025 con i dazi +0,2%. Orsini: “Rimettere al centro gli INVESTIMENTI per invertire la rotta, il Governo abbia coraggio”
E’ uno scenario fosco quello che tracciano la previsioni di primavera del Centro Studi di Confindustria. La crescita del Pil viene tagliata a +0,6% ma nello scenario peggiore a fronte di una escalation della guerra dei dazi si ridurrebbe a +0,2%. Una ripartenza con un maggiore slancio è prevista per il 2026. Ma il grande allarme è sulla crisi dell’industria e sulla caduta degli investimenti, che mina le prospettive di crescita e di recupero della produttività. Di qui la richiesta del presidente Orsini di agire subito con politiche di sostegno alle imprese

EMANUELE ORSINI PRESIDENTE CONFINDUSTRIA
“Il Governo abbia coraggio e l’Europa cambi rotta”. Scatta il ‘d day’ della guerra commerciale ingaggiata dalla nuova Amministrazione Usa e, intanto, la dura realtà dei numeri dice che la crescita dell’economia italiana rallenta e con i dazi frenerà ancora di più. E’ per questo che nel momento in cui “l’incertezza è al massimo storico”, l’appello all’azione che giunge dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, dà il senso dell’urgenza in un frangente così critico. Le previsioni di primavera del Centro Studi di Viale dell’Astronomia, contenute nel rapporto “Energia, green deal e dai: gli ostacoli all’economia italiana ed europea” e presentate dal direttore del Csc Alessandro Fontana, arrivano, anche se in qualche modo attese, come una doccia fredda a poche ore dall’annuncio da Washington sulle nuove tariffe: nel 2025 si prevede una crescita dello 0,6% con una sforbiciata di tre decimali rispetto al +0,9% indicato a ottobre. Un dato sostanzialmente in linea con quello del 2024, +0,7%. Per il 2026, s’intravvede un maggiore dinamismo con la crescita che riprende slancio con +1%. Su questi numeri, pesa l’incertezza legata ai nuovi dazi. Secondo il Csc, lo scenario peggiore di un’eventuale escalation protezionistica che comporti un persistente, invece che temporaneo, innalzamento dell’incertezza (+80% sul 2024), l’imposizione di dazi del 25% su tutte le importazioni USA, comprese quelle dall’Europa, e del 60% dalla Cina e l’applicazione di ritorsioni tariffarie sui beni di consumo USA esportati, avrebbe un impatto cumulato negativo sul PIL italiano, misurato come scostamento rispetto allo scenario base, del -0,4% nel 2025 e del -0,6% nel 2026. La crescita attesa si ridurrebbe così a +0,2% nel 2025 e +0,4% nel 2026.
La revisione al ribasso del 2025 è ascrivibile, spiega il Centro Studi, in larga parte, alla debolezza della seconda metà del 2024 e al peggioramento del quadro macroeconomico nel quale si contrappongono forze di segno opposto. In positivo, nel 2025-2026 agirà il proseguimento del taglio dei tassi da parte della Bce, che entro fine 2025 porterà la politica monetaria al livello neutrale; la risalita del reddito disponibile reale totale delle famiglie, grazie al progressivo recupero delle retribuzioni pro-capite, il buon contributo dei redditi non da lavoro, l’aumento dell’occupazione totale, il calo dell’inflazione, sebbene gli ultimi due fenomeni si attenueranno nel 2025 e 2026. Insieme al calo atteso della propensione al risparmio (da fine 2025 e poi nel 2026) grazie al dipanarsi dell’incertezza, ci si aspetta che l’aumento del reddito continui a dare un buon contributo alla dinamica dei consumi. Un altro fattore che incide positivamente è l’implementazione del Pnrr: tra il 2025 e il 2026 le risorse programmate ammontano a circa 130 miliardi. Anche se non verranno spese tutte (l’ipotesi è che ne venga spesa la metà, 65 miliardi), daranno un importante contributo al PIL, in particolare agli investimenti in costruzioni, frenati dal venire meno degli incentivi all’edilizia residenziale. Passando ai fattori negativi, oltre alla minaccia incombente dell’ondata dei dazi, pesano la mancanza di sostegno agli investimenti in impianti e macchinari poiché il Piano Transizione 5.0 si è rivelato poco efficace nel 2024 e dovrebbe incidere poco anche nel 2025; l’ennesimo rincaro dell’energia, che non tocca i picchi del 2022, ma minaccia la competitività delle imprese italiane e riduce il reddito reale delle famiglie.
Il grande allarme di Confindustria suona soprattutto sul fronte degli investimenti produttivi. Anche quest’anno è attesa una caduta del 0,8%, in linea con la dinamica tendenziale negativa già osservata nella seconda parte del 2024) per poi recuperare nel 2026 (+0,9%), rimanendo sostanzialmente stagnanti nel biennio. Non riusciranno, dunque, a sostenere la timida crescita del Pil, che, piuttosto, dovrà contare sul sostegno dei consumi. Un mix di elementi determina la caduta degli investimenti: ci sono la crisi dell’industria, l’elevata incertezza internazionale, l’affievolirsi degli incentivi fiscali, che avevano rappresentato uno stimolo importante in grado di sbloccare gli investimenti negli ultimi anni (Superbonus e Transizione 4.0), la spesa in impianti e macchinari arretrata per tutto il 2024, prima per un effetto “rinvio” legato all’attesa di Transizione 5.0, poi per la scarsa attrattività della misura a causa di una serie di difficolta operative. Si prevede che rimangano in contrazione nella prima parte del 2025. Di qui il richiamo di Orsini a “rimettere al centro gli investimenti”. Occorre “mettere in campo politiche di sostegno alle imprese. Servono politiche di reazione da subito su energia, burocrazia. Serve un piano strutturale per l’Italia e per l’Europa. I dazi sono un problema e rappresentano l’ennesimo stop per le nostre imprese. Servono misure straordinarie e coraggio straordinario. Il governo abbia coraggio e l’Europa cambi rotta”, incalza Orsini.
Senza una ripartenza degli investimenti, diventa sempre più arduo l’obiettivo di una crescita della produttività. Una mina per la competitività italiana ma anche europea. L’Europa sta progressivamente perdendo competitività nei confronti di Stati Uniti e Cina. Dal 2007 ad oggi l’Ue ha registrato una crescita media del +1,6% annuo, contro il +4,2 degli Usa e il +10,1 della Cina, a prezzi correnti.Il gap accumulato con gli Stati Uniti dal 2007 è di oltre 70 punti percentuali di Pil. La bassa produttività europea deriva da minori investimenti in media, circa 1,1 punti di Pil l’anno in meno nella UE rispetto agli Usa. Guardando agli investimenti in R&S, dal 2000 ad oggi, il gap accumulato rispetto agli Stati Uniti ammonta a oltre 17 punti di Pil. Il mancato completamento del mercato unico europeo e la mancata armonizzazione di alcune regole sono tra le principali cause di questi ritardi, perché creano ostacoli allo scambio di beni e servizi all’interno dell’Ue: secondo stime del Fmi, questi fattori possono aumentare del 44% i costi di produzione dei beni manifatturieri, del 110% per i servizi. Negli Usa il peso di queste barriere per il commercio di beni fra Stati vale circa il 13%. Se l’Ue riuscisse a diminuire queste barriere al livello degli Stati Uniti, la produttività aumenterebbe del 6,7%.
“Dobbiamo puntare, soprattutto, un grande faro sul rallentamento negli ultimi mesi degli investimenti produttivi, proprio ciò che è stato il booster dell’economia italiana delle esportazioni, in ultima analisi della crescita del Pil pro capite degli ultimi anni”, incalza la vicepresidente di Confindustria con delega al centro studi, Lucia Aleotti. “Servono politiche per far ripartire in maniera esplosiva gli investimenti: non è la migliore risposta anche ai dazi ai americani, è l’unica risposta possibile”.