C’è già una storia lunga e contraddittoria delle leggi sulla rigenerazione urbana. Ora ne serve una di principi e non transitoria

Parlare, oggi, di rigenerazione urbana impone, anzitutto, una riflessione preliminare sulle caratteristiche del nostro impianto normativo in materia di pianificazione e attuazione urbanistica, parte di quella più ampia materia che la riforma costituzionale del 2001 ha definito “Governo del territorio”.

Tale impianto normativo, che ancora si incentra sulla legge urbanistica fondamentale, la 1150/1942, ha una chiara impostazione espansiva, nel senso di concepire l’assetto del territorio come regolazione dell’espansione dei nostri centri urbani. Idea che era certamente in linea con le esigenze dell’epoca nella quale la legge ha visto la luce. L’idea, invece, del riuso, del recupero (e, quindi, della rigenerazione) non era all’epoca neppure concepibile: si doveva costruire (o ricostruire, all’indomani degli eventi bellici), crescere, espandere.

Inevitabilmente correlato con questo paradigma espansivo è stato per decenni il consumo di nuovo suolo, per lo più agricolo, sino a quel momento inedificato. Ma anche questo, sempre all’epoca, non era percepito come un problema.

29 Mag 2025 di Giuseppe Ciaglia

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L’impianto legislativo tradizionale

Tale modello non fu intaccato (o quanto meno non fu intaccato in misura significativa) dalla mini-riforma operata nel 1967 dalla cosiddetta legge Ponte (765/1967) che, nelle more di una riforma organica della materia, avrebbe dovuto costituire il “ponte” verso la riforma. Anzi, la legge Ponte introdusse meccanismi che irrigidirono ulteriormente i meccanismi operativi (primo tra tutti il sistema degli standard urbanistici ed edilizi di cui al DM 1444/1968, che attuò alcuni dei principi della legge suddetta).

Il mix che ne è derivato è tale per cui, ad esempio, è assai arduo nelle nostre città ipotizzare una crescita degli edifici verso l’alto, soluzione che, invece, del tutto evidentemente, limiterebbe fortemente il consumo di nuovo suolo (e che, non a caso, è stata adottata in tutte le principali metropoli). Ma, come si è detto, le nostre regole sono assai rigide e forse pure obsolete e richiedono, ad esempio, che per costruire un edificio più alto di otto piani è necessaria la preventiva approvazione di un piano attuativo, con coinvolgimento di Consigli e giunte comunali e processi approvativi lunghi e complessi. D’altronde – e con riguardo proprio a questo specifico tema – quello che è successo a Milano (dove si è solo cercata un’interpretazione di quelle regole che non costituisse ostacolo allo sviluppo) ne dimostra tutta l’inattualità e l’inadeguatezza.

I primordi della “rigenerazione urbana”

Nel contesto che si è descritto, una primigenia (ma non matura e non organica) disciplina degli interventi di rigenerazione urbana si è avuta con l’articolo 5 del decreto legge 70/2011.

I commi da 9 a 14 dell’art. 5 del decreto 70 (meglio noto come “decreto sviluppo”) hanno introdotto, per la prima volta, la possibilità di realizzare interventi di “rigenerazione urbana” in via diretta, utilizzando lo strumento del “permesso di costruire in deroga” di cui all’articolo 14 del TU dell’edilizia. Anche in questo caso, però, il procedimento approvativo degli interventi è piuttosto complesso, occorrendo per l’approvazione dell’intervento, secondo quanto previsto dalla citata disposizione del T.U. edilizia, una specifica deliberazione del consiglio comunale.

La legge prevedeva poi che le Regioni approvassero specifiche leggi che avrebbero dovuto prevedere:

  • a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva e premiale;
  • b) la possibilità di delocalizzare le volumetrie esistenti in area o aree diverse;
  • c) l’ammissibilità di modifiche di destinazione d’uso nonché modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.

Un primo significativo esempio di applicazione di tali principi si è avuto nel Lazio, con le modifiche, introdotte dalla legge regionale 10/2011, alla legge regionale 21/2009 (cd. Piano Casa della Regione Lazio).

In particolare, l’articolo 3-ter, introdotto nel 2011, al comma 1 ha consentito la realizzazione, in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali ed attuativi, di interventi di demolizione e ricostruzione, anche con cambio di destinazione d’uso, di immobili inutilizzati, dismessi o in via di dismissione. Il comma 3, invece, ha autorizzato interventi di densificazione nelle aree già urbanizzate ma non edificate in ragione di una destinazione urbanistica non più attuale o, comunque, non congruente con le esigenze del mercato: due elementi che anticipano in modo netto i contenuti della rigenerazione urbana contemporanea.

Dopodiché moltissime – e, spesso, assai eterogenee e non sempre coerenti con il quadro normativo vigente a livello statale – sono state le leggi adottate dalle Regioni per incentivare la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana.

Tuttavia, l’esperienza dimostra che questo attivismo legislativo delle Regioni, in mancanza di un quadro di principi certi e definiti a livello nazionale, ha portato a esiti disomogenei, e in taluni casi anche costituzionalmente opinabili. Emblematica è, ad esempio, la recente sentenza della Corte costituzionale n. 84 del 2024, con cui si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, della L.R. Lazio n. 7/2017 (la legge che ha recepito ed elevato a sistema i meccanismi di rigenerazioni già in precedenza introdotti)

L’esigenza di una legge nazionale di principi

Tutto questo evidenzia la necessità, oggi più che mai, di una legge nazionale che definisca un quadro di regole omogeneo e coerente e che fissi principi fondamentali validi per tutte le Regioni in materia di rigenerazione urbana.

Come è, infatti, noto, in base all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, il Governo del territorio rientra nella legislazione concorrente: allo Stato spetta la definizione dei principi fondamentali, mentre spetta alle Regioni di attuarne i contenuti adottando la normativa di dettaglio.

Occorre, dunque, che la futura legge statale sulla rigenerazione urbana sia una vera “legge di principi”.

Non potrà, perciò, essere una legge iper-definitoria e iper-regolatoria proprio perché dovrà essere salvaguardato uno spazio legislativo alle regioni che dovranno articolare la disciplina di dettaglio tenendo conto delle specifiche esigenze locali che, spesso, sono fortemente differenziate.

Non potrà, poi, essere una legge che regoli situazioni episodiche, come  è avvenuto con molte leggi emergenziali legate al PNRR – penso, ad esempio, al Dl 77/2021 – che, pur disciplinando la rigenerazione urbana, lo hanno fatto in maniera transitoria, finalizzata all’attuazione degli investimenti, senza definire una visione di lungo periodo.

Sarà, inoltre, opportuno che nella definizione dei principi da attuarsi con le nuove leggi regionali il legislatore faccia salve le leggi regionali attualmente vigenti, almeno per il periodo di tempo necessario all’adeguamento dell’ordinamento regionale ai nuovi principi fissati dal legislatore statale. Ma, al contempo, si dovrà anche prevedere un meccanismo di auto applicazione per cui, soprattutto con riferimento alla disciplina degli interventi diretti (quegli interventi che non richiedono per la loro attuazione la previa approvazione di un piano attuativo), la disciplina statale possa applicarsi direttamente, decorso un termine concesso alle regioni per l’adeguamento della loro legislazione.

La legge dovrà, inoltre, trovare un equilibrio (impresa tutt’altro che semplice perché occorrerà stare attenti a non travalicare i limiti che la Corte Costituzionale ha già delineato) tra la salvaguardia dei poteri e delle competenze degli enti locali – anche e soprattutto in ordine all’individuazione degli ambiti da sottrarre ai processi di rigenerazione urbana e degli ulteriori ambiti nei quali i processi di rigenerazione urbana potranno avvenire solo in via indiretta, previa approvazione di uno specifico strumento pianificatorio – e le esigenze di agevolare e incentivare i processi di rigenerazione anche in considerazione dell’importanza che gli stessi hanno ai fini del perseguimento di interessi regionali e nazionali.

Infine, last but not least, la legge dovrà affrontare il delicatissimo tema del rapporto intercorrente tra rigenerazione urbana e criterio del saldo zero nel consumo di nuovo suolo. Il tema è particolarmente delicato, perché impatta sull’assetto costituzionale della proprietà privata in un quadro ordinamentale in cui, in base al tradizionale orientamento della Consulta (mi limito a richiamare le fondamentali sentenze 5 del 1980 e 223 del 1983), lo ius aedificandi è ancora strettamente legato alla proprietà del suolo, costituendo il primo un elemento essenziale e inscindibile dalla seconda.

In conclusione, l’occasione è importantissima ma anche piuttosto sfidante.

Se, infatti, come certamente auspicabile, la legge vedrà la luce in tempi rapidi, questo avverrà certamente prima dell’eventuale revisione e riforma dell’impianto normativo tradizionale (fondantesi, come si è visto su principi antitetici).

In teoria, proprio il varo della nuova legge dovrebbe fungere da acceleratore per l’introduzione di una sistemica riforma della materia.

Sennonché, come già avvenne con la legge Ponte, non possiamo escludere (anzi io reputo assai probabile) che una tale sistemica riforma non veda la luce o, quantomeno, non veda la luce a breve.

Anzi ci si potrebbe interrogare sulla stessa necessità che si dia luogo a una riforma dell’urbanistica nel momento in cui i nuovi principi in materia di rigenerazione urbana vanno chiaramente nella direzione del saldo zero nel consumo di nuovo suolo.

Anche per questo è necessario che la nuova legge sia una vera “legge di principi” e abbia una struttura che le consenta un orizzonte temporale ampio, non potendosi escludere che, per un periodo relativamente lungo, costituisca il nuovo paradigma dell’urbanistica.

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