UN DIBATTITO ANCORA POCO CHIARO

Brainstorming sulla privatizzazione delle ferrovie: vincoli, scenari, opzioni

Per ridurre il debito pubblico o quantomeno contenerne la lievitazione il governo ha programmato di cedere quote di partecipazione di imprese a controllo statale, con il target di 20 miliardi nel triennio 2024-26, conservando il controllo su quelle strategiche. Gli introiti della vendita di Montepaschi e della cessione in corso di una quota di Poste Italiane sono lontani dal raggiungere l’obiettivo, e fra le ipotesi che si fanno largo rientrano le ferrovie: meglio, ritornano le ferrovie, perché l’iniziativa di privatizzarle ha precedenti che vanno tenuti a mente per evitare di ripeterne gli errori.

25 Feb 2025 di Mario Sebastiani

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Senza rivangare le vicissitudini della TAV, società mista costituita nel 1991 per realizzare la rete ad alta velocità, su cui si tornerà, il precedente relativamente più attinente è del Governo Renzi che fra il 2014 e il 2016 aveva fatto un bel pezzo di strada, seppure esclusivamente sulla carta. Si prevedeva la cessione di una quota di minoranza di FSI SpA (con il 40%  per obiettivo), holding dell’omonimo Gruppo, previa quotazione in borsa e collocamento presso azionariato diffuso e investitori istituzionali. Non se ne è fatto nulla perché avrebbe richiesto un colossale lavoro quantificazione del valore di mercato del Gruppo (il capitale della capogruppo era ed è per oltre il 98% costituito dalle partecipate) e perché fu subito chiaro (non al governo) che non vi sarebbero stati investitori disposti ad acquistare  indifferenziatamente la quota di un «canestro» di società caratterizzate da missioni diverse e differenti redditività. In compenso tempo tre anni FSI ha incorporato ANAS.

Venendo a oggi, lasciamo in disparte il pollice verso prontamente sollevato da più parti, prematuro data la vaghezza che al momento contorna il progetto. Da parte anche le indiscrezioni finora emerse e ragioniamo su uno scenario greenfield e senza pregiudiziali,  assumendo che la finalità comune alle n possibili alternative voglia essere un misto di economia di risorse pubbliche e di disegno di politica industriale, così come enunciato nel Piano strategico 2025-29,  e  con il vincolo del mantenimento del controllo pubblico sugli asset strategici.

Le opzioni possibili sono tante quante le ramificazioni che compongono FSI: anzi sono di più poiché ciascuna può articolarsi in più varianti. Tenuto conto che il perché di tutte  dovrebbe essere la combinazione menzionata sopra,  resta da ragionare su cosa cedere, a chi e come, confrontandone pros e cons.

Sul cosa  l’interrogativo primario è la scelta fra le due  macro aree  delle infrastrutture e dei servizi.

Dalla centralità che il Piano strategico riserva agli investimenti  nella rete di RFI – in particolare in quella ad alta velocità –  si ricava che quest’ultima sia il target prioritario di coinvolgimento di capitali privati.  Da ulteriori e scarni input di fonte FSI si deduce la possibile cessione di una quota di minoranza di RFI, limitatamente alla rete AV che sarebbe da conferire a una newco a capitale misto.

Bene che la strada sia diversa da quella omnicomprensiva  tentata dal Governo Renzi,  ma al momento presenta più incognite su cui riflettere, a cominciare dal perimetro di rete AV del nuovo veicolo societario.

Preliminarmente: (i) a partire dal 1999 RFI è proprietaria della rete e degli annessi asset,  cosicché il socio privato diverrebbe comproprietario della parte AV  (in che termini lo vedremo poi); (ii) dall’anno 2000 RFI è concessionaria per 60 anni della costruzione e gestione dell’infrastruttura; (iii) l’atto di concessione non menziona l’obbligo di retrocessione degli asset allo Stato; infine (iv) al termine della concessione lo Stato sarà tenuto a indennizzare RFI del valore residuo dell’infrastruttura. L’omissione al punto (iii) è facilmente sanabile imponendo nel contratto di cessione l’obbligo di riconsegna ma, stante il punto (iv), al privato spetterà in contropartita un indennizzo commisurato alla sua quota di valore  residuo a fine concessione, di cui andranno attentamente fissati i criteri di quantificazione. Infine, punto (ii), considerato che la storia nostrana registra privatizzazioni che di regola sono state propiziate da proroghe delle concessioni,  andrebbe anche chiarito come ci si orienterà al riguardo. Beninteso: come ci si orienterà riguardo alla partecipazione privata, essendo fuori di dubbio che all’attuale scadenza del 2060 la concessione sarà rinnovata a una RFI totalmente in mano pubblica.

Ciò premesso, azzardiamo due ipotesi riguardo al perimetro della newco.

Una è che le sia conferita l’intera infrastruttura AV. Non è dato saperne il valore ma,  data la sua relativamente recente costruzione (recente rispetto alla restante rete) e la mole dei costi sostenuti, è da ritenere che rappresenti parte considerevole del valore di libro dell’insieme delle immobilizzazioni di proprietà di RFI (circa 37 miliardi di euro a bilancio nel 2023). Ragionevole quindi escludere che soggetti privati possano essere interessati a investire somme così consistenti. E poi a quale logica risponderebbe partecipare alla gestione dell’intero essendo chiamati a investire solo su una parte?

Più ragionevole un’alternativa che muova dalla dichiarata finalità dell’operazione, la quale assimilerebbe l’intervento dei privati a una partecipazione di scopo, lo scopo essendo il cofinanziamento del programma di nuovi investimenti. L’entità della partecipazione azionaria andrebbe così commisurata alla quota delle risorse che le due parti si impegneranno a versare per i nuovi investimenti, manutenzioni capitalizzabili incluse, ammortizzabili attraversi i pedaggi incrementali generati da quelle realizzazioni. In conclusione la nuova realtà si configurerebbe come società di scopo ex artt. 194-195 del d.lgs. 36/2023 su un perimetro nel perimetro di RFI.

Sarebbe un bell’avanzamento rispetto all’opzione precedente e una via potenzialmente redditizia, date le prospettive di aumento della domanda e la relativa sostenibilità di incremento dei pedaggi. In aggiunta, tuttavia, è richiesta dal Piano strategico  l’«introduzione di un modello regolatorio RAB»: probabilmente intendendo l’estensione del capitale remunerabile agli investimenti finanziati da contributi pubblici versati a titolo gratuito, di norma esclusi dalla regolazione come base reddituale, e che da tempo hanno sostituito l’«autofinanziamento» via aumenti di capitale dell’azionista MEF. Un modello ad hoc destinato a creare qualche grattacapo a Bruxelles a causa l’insorgere di un extra-reddito dall’incremento del capitale a seguito dei nuovi investimenti – se non addirittura su quelli pregressi – e dunque di un aiuto di Stato a entrambi i soci, stante il fatto che la base reddituale (la RAB) di ciascuno di essi verrebbe integrata da asset realizzati con fonti di finanziamento non proprie né derivanti da forme onerose di indebitamento.

Restano però da sciogliere ulteriori nodi, che ci riconducono al passato. Il primo è l’allocazione dei rischi fra le parti, sia lato traffico e tariffe sia lato costi di realizzazione (varianti, problemi idrogeologici e quant’altro). Ancora, dato che l’oggetto sociale è esclusivamente forward looking  vi è da chiedersi se la costituzione della nuova società richiederà il versamento anticipato della quota di apporto impegnata oppure se il capitale sociale potrà essere versato via via che serve.  Si tratta di interrogativi non marginali poiché lo schema di gioco rischia di riprodurre il modello TAV, dove il socio pubblico si accollò per intero i rischi (ai privati fu garantita la redditività non solo dallo sfruttamento dell’opera ma anche in fase di realizzazione) e per di più la quota in concreto versata dai privati durante la costruzione fu del tutto marginale – una combinazione che alla fine del secolo portò il Governo Ciampi a far saltare l’iniziativa e FSI a rilevare l’intero capitale. Occhio dunque a non farsi intrappolare!

Di fondo infine, riguardo a entrambe le opzioni di cui sopra, vi è da domandarsi quale sia la ratio industriale del chiamare soci privati a partecipare alla rete: non di contribuire al disegno delle nuove tratte, posto che ricade su scelte politiche che sovrastano anche il socio pubblico; né di contribuire come soci operativi, dato che il ruolo di «gestore dell’infrastruttura» resterà ben saldo nelle grandi e capaci mani di RFI.  Conclusivamente, in tutti e due  i casi gli obiettivi di politica industriale lascerebbero il passo a quelli di finanza pubblica.

Passiamo alla macro area dei servizi, che a sua volta si scinde in più alternative. Il grosso sta in Trenitalia le cui attività sono ripartite in tre aree: alta velocità,  intercity e trasporto regionale, la prima gestita in libero mercato, le altre due in regime di obblighi di servizio pubblico; inoltre tramite proprie controllate opera nel Regno Unito, Francia, Germania, Grecia e Spagna. Va anche considerato il «polo merci, esercitato da Mercitalia Logistics che attraverso le sue controllate gestisce servizi e terminal.

In generale viene da pensare che gli investitori industriali siano più inclini a partecipare a servizi svolti sul mercato libero, tanto più se trainati da una crescente domanda, anziché a servizi infrastrutturali o esercitati in forza di contratti di servizio soggetti a scadenza: hanno in mano tutte le leve gestionali per renderli redditizi e per volgere i rischi a proprio beneficio, virtù che il polo servizi di FSI dovrebbe poter condivide con i soci privati.

Il perimetro da considerare prioritariamente sarebbe il trasporto passeggeri sulla rete AV o il trasporto/logistica delle merci, ciò che richiederebbe il conferimento dei due rami in distinte newco. Volendo dare anche un profilo industriale e catturare economie di scala e di integrazione, l’identikit su cui puntare sarebbero le imprese già presenti nel business, incluse quelle stabilite in altri Stati membri. Non comportando trasferimenti del controllo sarebbero operazioni «antitrust-immuni», salvo essere poi vigilate per eventuali condotte vietate dall’articolo 101 e (eventualmente a cascata) dal 102 del Tfue. Analoghe considerazioni varrebbero per scambi di partecipazioni, con tanto di positive ricadute industriali e che, qualora coinvolgessero incumbent di altri Stati comunitari, potrebbero essere leva per agevolare ulteriormente la spinta internazionale di Trenitalia.

Concludendo, la scelta fra le macro aree dell’infrastruttura e dei servizi rimanda agli obiettivi che il governo intende assegnare alla privatizzazione:  puntare sull’infrastruttura, se la scelta è di economizzare gli oneri sulla finanza pubblica (l’apporto privato sostituirebbe la maggiore spesa pubblica, altrimenti ineludibile); oppure puntare sui servizi, se scelta è orientata da finalità di politica industriale, con l’ulteriore vantaggio per il socio pubblico che il co-finanziamento privato gli permetterebbe di ampliare i consistenti investimenti in materiale rotabile, già previsti da suo Piano industriale per il prossimo quinquennio, oppure di trasferirli in parte su altre aree di business.

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