Aree in “difficoltà di sviluppo”: un cambio di paradigma

Distratti – o attratti – come siamo, dai grandi eventi globali come le guerre in atto; i grandi mutamenti e la difficile comprensione delle strategie geopolitiche e geoeconomiche; l’accelerazione dei problemi ambientali e tecnologici, non sempre abbiamo la capacità di accorgerci di quelle che sono le conseguenze – dirette e indirette – che questi eventi globali hanno su molti ambiti locali, provocando reazioni più o meno “resilienti”.

30 Set 2025 di Lanfranco Senn

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  1. Aree in difficoltà di sviluppo

Alcune realtà locali hanno  infatti avuto ed hanno successo in questa reazione all’omologazione globale; altre non ci riescono. Alcune sono state capaci di cogliere persino alcune opportunità offerte dalla globalizzazione; altre hanno visto accelerare le loro difficoltà di sviluppo e addirittura hanno dovuto mettere in dubbio la loro sopravvivenza. Queste aree sono state definite – da sempre, ma oggi in modo più articolato – aree interne, aree marginali, aree in declino, aree  periferiche, aree in ritardo di sviluppo. Il denominatore che le accomuna è che sono identificabili come aree in difficoltà di sviluppo

Affrontare il vasto, vario e complesso problema delle aree in difficoltà di sviluppo ( non solo” in ritardo”, perché non esiste un solo modello di sviluppo che tutti dovrebbero inseguire astrattamente) esige un impegno difficile ma costruttivo :conoscenza, comprensione, informazione e ricerca di soluzioni ad hoc; partecipazione di diverse competenze e capacità progettuali (economiche, sociali, tecniche e ingegneristiche) che fanno talvolta fatica ad aggregarsi e dialogare.

Ce ne sono , per limitarsi al nostro Paese, dappertutto: nel Sud come nel Nord ;nelle regioni più avanzate e in quelle meno dinamiche; tra le montagne ma anche in pianura. Sono tutte caratterizzate da fattori ricorrenti: spopolamento e invecchiamento, perdita di opportunità di lavoro, carenza di accessibilità, mancanza di servizi essenziali, carenza di risorse identitarie e di “capitale sociale”, insufficienti economie di scala, dipendenza da altre aree (urbane metropolitane) più dinamiche

Dunque sono aree “senza speranza”? C’è chi lo sostiene e le condanna all’abbandono; c’è chi si limita a pensare che l’unica soluzione possibile sia quella di renderle destinatarie solo di flussi finanziari più o meno assistenziali. Come “comunità pensante” e reattiva dobbiamo rinunciare tutti a farcene carico? Bastano le analisi statistiche per ”strapparci le vesti”, rivelando la drammaticità del problema ? Bastano gli appelli alla necessità di intervenire ( senza poi muoversi ed agire)?

 

  1. La necessità di cambiare paradigma per affrontare il problema

Accanto alle tante analisi e ai tanti Rapporti ( encomiabili, per la ricchezza delle analisi gli spunti offerti di riflessione e le proposte di policy, come quello predisposto da Eutalia per il Cnel), si può peraltro individuare una diversa pista di lavoro e di azione, orientata al problem solving (“ di natura strutturale”) oltre che al problem setting : facendo incontrare i bisogni delle aree in difficoltà di sviluppo con gli interessi di diversi soggetti pubblici e privati

Si può provare a lanciare alcune provocazioni nella direzione di coinvolgere diversi tipi di stakeholders, variamente interessati  – e quindi presumibilmente disposti a coinvolgersi  in questa sfida – ad essere protagonisti e responsabili di un percorso autonomo di ripresa del proprio destino di sviluppo.

Infatti il semplice (?) ricorso alle risorse finanziarie, per risolvere problemi così difficili di rilancio dello sviluppo, evidentemente non basta . Le risorse umane (“intraprenditoriali”, pubbliche e private) sono essenziali : partendo dalla valorizzazione  delle comunità locali, che vanno ascoltate per capire i bisogni prioritari e immediati, da una parte; e stimolate dall’altra ad intraprendere azioni in una ampia alternativa  di campi, quali il recupero del patrimonio edilizio;  la creazione di attrattività turistiche ( es. patrimonio culturale, riqualificazione dei borghi, turismo di ritorno,…) o ambientali ( es. parchi o aree protette); le iniziative di capacity building delle amministrazioni locali; la trasformazione manifatturiera delle risorse esistenti, specialmente – ma non solo – quelle agricole e artigianali.

  1. Una crescita di attenzione nei loro confronti.

Che in questo momento il terreno sia fertile perchè le aree in difficoltà di sviluppo tornino ad essere oggetto di attenzione è suggerito dalla (ri)crescente sensibilità al problema.  E’ significativo che, da parte di  Istituzioni diverse :

– 141 Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e Abati della Chiesa Cattolica abbiano recentemente inviato una lettera aperta al Governo e al Parlamento, preoccupati dell’aggravarsi delle condizioni di vita di molti territori del Paese

– il Senato abbia  appena approvato una nuova legge sulla montagna, prevedendo incentivi per medici insegnanti e personale sanitario che scelgono di lavorare in montagna, sostegno alle scuole per l’infanzia e ai tribunali montani, tutela di boschi, pascoli, bacini idrici e fauna selvatica, investimenti in banda larga e infrastrutture, agevolazioni per agricoltori e silvicoltori, misure fiscali per le imprese giovanili montane e per il lavoro agile, contributi per l’acquisto e la ristrutturazione della prima casa nei comuni montani, incentivi alla natalità per contrastare lo spopolamento

– il Cnel abbia pubblicato nello scorso giugno un documento su “Rigenerazione e ripopolamento delle aree territoriali marginali”, formulando interessanti osservazioni e proposte

 

4.Prime esperienze di innovazione

Ma è altrettanto significativo che, nonostante il quadro di queste aree in difficoltà di sviluppo sia oggettivamente desolante, stiano fiorendo  autonomamente tentativi di soluzione nella direzione auspicata di un cambiamento di metodo nella prospettiva degli interventi, all’insegna di una sana pratica della sussidiarietà, della collaborazione tra stakeholders pubblici e privati, della ricerca di soluzioni “creative”. Ci sono numerose best practices da cui imparare. Sono spesso situazioni particolari, ma qualche volonteroso insegnamento lo si può trovare e rilanciare. Queste best practices possono essere conosciute e confrontate.

Per aiutare questo “abbrivio” si potrebbe pensare alla costruzione di un Repertorio/ Censimento di tali best practices, aggiornato e continuamente aggiornabile come uno strumento utile che qualche ente pubblico (Istat, Cnel,,….)l potrebbe mettere a disposizione della collettività

Poiché le best practices si sono realizzate dove è stato possibile individuare soggetti  ( pubblici e privati, economici e sociali, locali e non locali) che hanno manifestato capacità creative e innovative di azione e di avvio di percorsi virtuosi (  i “veri” stakeholders), un passo decisivo per avviare questo nuovo paradigma di azione per le aree in via di sviluppo in un’ottica sussidiaria e partecipativa è proprio quello di “scovare” e coinvolgere tali soggetti.

Un analogo catalogo potrebbe riguardare le (ormai numerosissime) proposte di policy  attuabili  nelle aree in difficoltà di sviluppo : esso servirebbe alle singole aree a confrontare tali proposte con la propria situazione specifica, in modo da non dover “inventare l’acqua calda” ogni volta e fruire di una sorta di monitoraggio, valutazione e tutoraggio delle possibili soluzioni

 

  1. La prospettiva di azioni collaborative degli stakeholders

Nella consapevolezza che nessun processo di resilienza è in grado di risolvere tutti i problemi in una volta sola e rapidamente, occorre che essi individuino  – anche rassegnandosi a tempi medio-lunghi per ottenere risultati- i “trigger”  (grilletti) , che mettono in moto percorsi mirati di cambiamento ( road maps) per situazioni e soluzioni diverse; magari avvalendosi anche delle tecnologie più avanzate( intelligenza artificiale)

Questi percorsi – l’abbiamo sottolineato in precedenza – sono sempre il frutto di collaborazioni, motivate  contemporaneamente da spinte ideali e interessi concreti : a fianco dei project leaders possono perciò schierarsi le Università, con contributi di conoscenze e ricerca (interdisciplinari);le Fondazioni bancarie; le Associazioni degli imprenditori  nazionali( Confindustria, Confcommercio, Confartigianato,…) e locali; l’ANCE e il Demanio per il recupero del patrimonio immobiliare; le numerose e molto attive cooperative di comunità, per implementare servizi in risposta ai bisogni specifici; gli operatori turistici e ambientali.  Nella prospettiva di una solidarietà  operativa – e non di un inefficace e spesso ideologico solidarismo- che è un valore da non trascurare e su cui vale la pena impegnarsi ci sono già complementarietà ( alleanze, anche formalizzate e istituzionalizzate come i consorzi tra Comuni) che si possono intravvedere tra aree più fortunate e  aree meno fortunate.

Moltiplicare gli ambiti (“communities”) in cui aggregazione e dialogo sono possibili è già un primo passo con cui non abbandonare queste aree – e le persone che vorrebbero continuare a viverci – ad un loro inaccettabile  e inevitabile destino.

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