ACCORDO E OSSERVATORIO
Acqua, da Intesa ad Acea 20 miliardi per infrastrutture e iter più rapidi
Acque reflue, solo il 4% viene riutilizzato nel nostro Paese. La normativa italiana è tra le più stringenti in Ue e incide sul poco riciclo, mentre se valorizzato su larga scala potrebbe incidere per il 45% sulla domanda di irrigazione riducendo fortemente lo stress idrico. Nelle imprese, le tecniche di riutilizzo sono diffuse solo al 5,4%, preoccupa la poca diffusione nelle aree non distrettuali. Bene il nuovo metodo tariffario di Arera con le due premialità, ma per costruire una cultura dell’acqua servono comunicazione e formazione.
IN SINTESI
Investimenti, formazione, infrastrutture e sburocratizzazione. La ricetta per migliorare la gestione dell’acqua in Italia sembra generica e copiata da altri settori, eppure è quella giusta per consentire al nostro Paese di valorizzare questa risorsa e quanto di buono già facciamo con essa. Tutti elementi, questi, messi in fila da Acea e Intesa Sanpaolo in occasione del lancio del primo Osservatorio sul settore idrico.
Il focus iniziale ha riguardato le acque reflue e il loro riutilizzo ma non sono mancati vasti accenni ad altre questioni che, hanno annunciato i due gruppi, verranno approfonditi in numeri successivi. L’intesa siglata, allora, prevede la messa a disposizione da parte di Intesa Sanpaolo di 20 miliardi di crediti per investimenti nel settore idrico con l’obiettivo di migliorare l’offerta di servizi e prodotti, accedere ai servizi di consulenza, supportare la gestione dell’intera filiera, accedere prima ai bandi europei e nazionali, progredire nella ricerca e formazione, sviluppare nuove figure professionali e migliorare la distribuzione idrica sulla rete.
Solo il 4% di acque reflue riutilizzate
La situazione di partenza è parecchio complicata. L’Italia è tra gli Stati che praticano il riuso, sebbene la diffusione sia ancora marginale: solo il 4% delle acque reflue trattate viene riutilizzato, nota l’Osservatorio. Nel resto d’Europa (Ue) non va tanto meglio, anzi: di quelle urbane solo il 2,4% viene riusato. A sorprendere è la performance delle imprese del Sud, che per via di maggior sofferenza idrica hanno implementato tecniche di riciclo da più tempo. A livello imprenditoriale, invece, solo per il 5,4% sono diffuse le pratiche di riutilizzo. Aumentarne la diffusione consentirebbe al nostro Paese di rispondere al 45% (stimato dal Joint Research Center) di domanda di irrigazione.
Le carenze infrastrutturali e normative
C’è un problema di infrastrutture, poi. Secondo Arera, nel 2021 con impianti adeguati e tecnologie disponibili avremmo potuto riutilizzare il 21% di acque depurate. “Il tema del consenso rimane centrale e richiede interventi ad hoc per superare la sfiducia nella qualità dell’acqua riciclata. Per la valorizzazione completa delle potenzialità del riuso, sono necessari interventi infrastrutturali sui depuratori e poi, a valle, per la realizzazione di impianti di affinamento e di infrastrutture di collegamento con gli utilizzatori”.
Ma c’è anche un problema normativo: il quadro italiano è troppo complesso. “L’Italia è uno dei pochi paesi europei ad aver adottato una normativa specifica sul riutilizzo fin dal 2003 (DM 185/2003). I criteri previsti risultano fra i più stringenti nel panorama europeo, limitando di fatto la diffusione del riciclo di acqua”, si legge dal rapporto. A livello europeo, invece, a fronte di un contesto uniforme perle prescrizioni minime del riutilizzo in agricoltura, per altri settori manca ancora operatività delle norme e “fino al Regolamento del 2020, l’assenza di criteri e metodologie comuni a livello europeo ha comportato anche una insufficiente chiarezza nella gestione dei rischi sanitari e ambientali, dalla quale è scaturita una mancanza di fiducia nei confronti delle pratiche relative al riutilizzo delle acque”.
Un altro fronte, non distante da quello giuridico, è quello burocratico. Secondo Acea e Intesa, “allo scopo di superare in via definitiva le barriere che ostacolano la diffusione del riuso, sono necessari interventi normativi per armonizzare la disciplina tra i diversi usi e semplificare i procedimenti autorizzativi”.
Gli investimenti mancanti
Quanto alle risorse economiche con cui agire, secondo Mauro Micillo – Responsabile della Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo – nel 2021 gli investimenti sono aumentati del 15% e da qui al 2025 dovrebbero crescere del 10% annuo.
Ne servono di “ingenti”, secondo Acea e Intesa Sanpaolo. “L’assenza di un sistema strutturato di incentivi e riconoscimenti tariffari non facilita la realizzazione di investimenti finalizzati al riuso delle acque reflue depurate. Un ulteriore ostacolo nella diffusione del riuso delle acque reflue è legato al fatto che il riutilizzo è più complicato rispetto all’uso di risorse convenzionali ed è più costoso. In generale, i ricavi attualmente riconosciuti non incentivano la scelta di investimento a favore degli interventi per il riuso. Il metodo tariffario approvato dall’ARERA per il periodo 2024-29 e l’aggiornamento della qualità tecnica vanno nella direzione auspicata, prevendendo due nuovi criteri che introducono elementi di premialità per i gestori che riutilizzano la risorsa”.
Settori e territori dove intervenire
Dal punto di vista territoriale, “particolarmente virtuose risultano le imprese del Sud, che da più tempo si trovano in una situazione di scarsità della risorsa (in particolare in Puglia, Sicilia e Sardegna) e si sono quindi attrezzate con tecniche di riciclo”. Mentre in ambito industriale e non, la differenza la fanno gli obblighi di depurazione e riutilizzo dei reflui introdotti dalla legge Merli del 1976. Secondo un sondaggio di Intesa Sanpaolo, “all’interno dei distretti industriali, risulta esserci maggior sensibilità verso il riciclo e riutilizzo dell’acqua rispetto alle aree non distrettuali: in particolare, nei distretti dell’agro-alimentare oltre il 21% di gestori indica che le imprese clienti hanno intrapreso azioni per il riciclo/riutilizzo di acqua (mentre le percentuali sono di poco superiori al 16% per le imprese agro-alimentari non distrettuali)”.
La summa di tutto questo è che servono investimenti, regole più semplici per sbloccare strutture nuove. E che a governarle ci siano persone competenti e con una vera cultura dell’acqua.
M.Gia.