Dalle Fs nessuno ha spiegato finora esattamente quale sia la strategia dell’in house e a quale necessità risponda, ma già questa settimana – come spiega l’articolo di Maria Cristina Carlini pubblicato qui – potrebbe arrivare una prima decisione del cda sul dossier acquisizioni senza che un tema così delicato e potenzialmente devastante per il mercato e per la concorrenza, come l’in house sistemico, sia stato dibattuto sulla base di elementi informativi che rispondano almeno a un principio minimo di trasparenza.
Lasciamo quindi al momento in cui Fs spiegherà la sua strategia un ragionamento completo. In prossimità delle decisioni, però, non si può rinunciare a lanciare alcuni alert.
Il punto di partenza è per forza la difficoltà in cui si dibatte il settore delle costruzioni italiane da anni. Una criticità che viene da lontano e che è stata più volte riassunta con il dato della scomparsa di molte delle grandi imprese che per decenni avevano avuto un ruolo di rilievo nel mercato mondiale dei costruttori. Già alla fine degli anni ’90 si parlava di “nanismo” come fenomeno caratterizzante del settore delle costruzioni, ma oggi l’assenza di grandissime imprese è un fatto ancora più conclamato e grave.
Fa eccezione la sola Webuild che pure ha beneficiato di vicende aziendali travagliate, come quella di Astaldi, in cui è stata decisiva la “mano” del pubblico, Cdp in quel caso, con una drastica riduzione del tasso di concorrenza del settore, se è vero che da allora Webuild non ha più avuto concorrenti e fa manbassa di una gran parte delle gare importanti del Paese. La stessa Pizzarotti, l’azienda che Fs vuole acquisire (o meglio il suo ramo di lavori ferroviari), è la seconda impresa nazionale per dimensioni, ma nella stragrande maggioranza degli appalti lavora insieme a Webuild, non compete con il gruppo guidato da Pietro Salini (a proposito, sarà interessante capire come se la caverà il “committente proprietario” con i numerosi consorzi o raggruppamenti in cui Pizzarotti è presente come mandante, non come leader). Resta il fatto che si rischia oggi lo stesso errore fatto con Astaldi: far uscire dal mercato concorrenziale la seconda impresa del settore anziché sostenerla dentro il mercato, insieme al resto del settore o almeno alle imprese sane del settore (abbiamo sentito per anni parole in libertà sul “secondo polo” senza iniziative private serie e senza alcun sostegno o disegno da parte della politica).
Altrettanto condivisa è l’analisi di fondo che attribuisce la scomparsa dei big del mattone a un mercato interno dei lavori pubblici – non solo ferroviario – piccolo piccolo per quasi 15 anni dal 2003 al 2018 (al netto di un’Alta velocità appaltata senza gare ma poi portata avanti con tenacia da Rfi prima e da Fs poi in quegli anni). Un mercato con un settore pubblico senza una programmazione credibile, con flussi di finanziamento asciugati dalla stretta di finanza pubblica (mentre la spesa corrente galoppava). Quindi un gruppo pubblico come Fs (che ha al proprio interno i due maggiori committenti di lavori pubblici del paese, Rfi e Anas) oggi vuole fare shopping di aziende che ha contribuito a tenere a stretta dieta negli anni con margini strettissimi. Committenti con scarsa capacità di selezione tra imprese che i lavori li realizzavano al meglio (da premiare) e imprese che nicchiavano (da penalizzare), con una programmazione incerta caratterizzata dagli stop-and-go che facevano male alle imprese, con pagamenti tirati per le lunghe, con progettazioni e poteri di committente debolissimi che non hanno retto agli esami della valutazione di impatto ambientale né alle contestazioni del territorio, con il risultato di progetti e cantieri bloccati, come pure i portafogli e i fatturati delle imprese.
Oggi che il settore è ripartito e ha un fatturato delle prime 20 imprese pari al doppio di quello di quattro anni fa – merito del Pnrr ma anche segno di salute di quelli che sono rimasti e trottano sui cantieri Pnrr – oggi si vorrebbe teorizzare, da parte di molti, che la soluzione a questa paurosa fragilità strutturale del committente – confermata dalle scadenti performance del Pnrr, soprattutto al Sud, su cui Diario DIAC tornerà presto con un’inchiesta – si risolve usando una propria azienda nel settore come leva contro il settore stesso, anziché voltare pagina dal lato della committenza, rafforzare le proprie capacità progettuali e di direzione lavori, premiare le imprese che pure stanno portando avanti i lavori, aiutarle a crescere senza affidarsi sempre ai soliti noti, vietare – per esempio – l’acquisizione di più lotti in gara da parte dello stesso appaltatore e cosi via.
Se sono queste le ragioni dietro l’in house ferroviario, un’operazione per mascherare le vere fragilità del committente pubblico, quella che si sta intraprendendo è una strada sbagliata che non contribuirà affatto a rafforzare un settore di cui Donnarumma ha bisogno – salvo che non pensi a derive “cinesi” – per realizzare quel piano da 100mila miliardi che è il fiore all’occhiello di una gestione per il resto pallida. Meglio sarebbe un’analisi seria sul settore e mettere in campo medicine ricostituenti capaci di far crescere un settore che ha tirato il Pil negli ultimi cinque anni e può tornare a dare soddisfazioni all’Italia. Per esempio voltare pagina dicendo quali lavori sono davvero finanziati di quel piano, come si intende assegnarli, con quale programma di gare. Non cose marziane, cose che si fanno in tutti i Paesi avanzati. E per fortuna, sulla programmazione, arriva nella coda del Pnrr una fortissima riforma targata Ue che potrebbe anche volerci vedere chiaro sul fronte dell’Antitrust, dopo tanti fondi assegnati.