L'INTERVISTA
Alvisi Kirimoto: “Gran fermento di progetti industriali, marcia anche il pubblico. Per la RIGENERAZIONE urbana servono già nella fase di progettazione figure che integrino terzo settore e cultura”

Ritratto @Ilaria Magliocchetti Lombi

“Negli ultimi 5-6 anni abbiamo fatto tanti progetti, siamo cresciuti e abbiamo preso lavori più interessanti. Non ci siamo fermati neanche durante il Covid”. A parlare è Massimo Alvisi, titolare dello studio di architettura Alvisi-Kirimoto insieme a Junko Kirimoto, che sul Covid aggiunge: “Molti clienti hanno approfittato di quel periodo per un ripensamento in profondità della loro azienda e ci hanno chiesto di fare progetti che di questo cambiamento tenessero conto”.

Sono nel loro studio, nel quartiere Salario a Roma, a quindici anni dalla prima intervista che feci nell’ambito dell’inchiesta per Edilizia e Territorio, Progetti e Concorsi e il Sole 24 Ore, sui cinquanta studi “giovani” della Nuova architettura italiana. Oggi la gran parte di quegli studi ha acquisito una fama nazionale e internazionale e ha contribuito alla diffusione di una architettura di qualità, in un rapporto spesso virtuoso con il mondo dell’impresa. Sono qui per parlare soprattutto di rigenerazione urbana e della loro proposta sull’Abitare per il Padiglione italiano alla Biennale. Due temi centrali per Diario DIAC. Inevitabile, però, cominciare dall’attività dello studio degli ultimi anni. Massimo e Junko parlano alternandosi, ma le loro voci non saranno distinte nel dar conto delle risposte.
Quali sono i progetti di recente acquisizione che vi danno più soddisfazione?
Stiamo lavorando molto con aziende private, abbiamo vinto due concorsi importanti. Il primo è per il gruppo Vecchia Romagna che ha deciso di riorganizzare con un masterplan le proprie cantine a San Lazzaro di Savena e ci ha invitato a un beauty contest. L’amministratore delegato aveva visto un paio di nostri progetti, certamente la cantina che abbiamo fatto per Bulgari e che resta il nostro progetto più noto e più premiato: voleva un progetto molto calibrato e legato al contesto. Era molto interessato al lavoro che fa Junko con i modellini. Abbiamo vinto il concorso, poi è arrivato il Covid, pensavamo avrebbe fermato il progetto, è arrivato anche un nuovo amministratore delegato ma il progetto è andato avanti, cambiato molto, per certi versi cambiato in meglio visto che il gruppo ha accresciuto le vendite di alcol. Dovrebbe essere completato tra il 2026 e il 2027. Il secondo privato è per il gruppo Nice di Oderzo, Treviso: un masterplan per i loro headquarters e lo sviluppo della parte R&S. Anche questo progetto è in forte cambiamento, ma va avanti.

Avete altri progetti per privati in corso?
Stiamo facendo più cantine, dopo Bulgari. Abbiamo un progetto per un piccolo ma straordinario produttore, Massimo Piccin, che sta vicino a Bolgheri. Viene dal Veneto, 25 anni fa ha abbandonato tutto per dedicarsi alla vigna, costruendo una piccola realtà molto interessante che a oggi è un’eccellenza. Ora ci ha chiamato perché desidera realizzare un nuovo padiglione per degustazioni in uno spazio paesaggisticamente molto bello che affaccia sul mare. Poi abbiamo due progetti industriali interessanti. Uno è in Liguria, per il gruppo PEQ Agri, giovani imprenditori che hanno deciso di riqualificare una bellissima collina ad Andora, verso Ventimiglia, per farci le cantine, il frantoio, un resort, la riqualificazione del parco e della casa napoleonica inclusa. Anche loro ci hanno chiamato mostrando interesse per il fatto che siamo uno studio italo-giapponese. Infine in Puglia, ad Andria, stiamo facendo un frantoio importante per Muraglia, realtà che esporta in 54 Paesi e fa bottiglie in coccio con il disegno Arcobaleno che vende anche ai grandi chef.
Interessante perché in questo momento c’è una forte crescita quantitativa dell’edilizia non abitativa, industriale, logistica: ci sono gruppi imprenditoriali che evidentemente pensano anche a una crescita qualitativa.
Noi abbiamo sempre avuto questa vocazione, fin da quando siamo nati, nel 2002, dopo Renzo Piano. Abbiamo sempre avuto pochi lavori a Roma, almeno fino a cinque anni fa, ma parecchi clienti industriali che ci chiamavano da varie parti d’Italia. Il nostro primo lavoro è stato un edificio industriale a Barletta, mia città natale, progetto molto grande che ha avuto una lunghissima gestazione, poi selezionato per la Biennale di Zevi. Dobbiamo dire che a livello architettonico, a livello progettuale, è un lavoro che ci piace e ci diverte perché abbiamo molta più libertà, non ci sono regole per cui devi mettere un certo numero di finestre o devi rispettare certi vincoli. Anche quando dobbiamo lavorare in una dimensione industriale dell’architettura, perché 20mila metri quadrati sono dimensioni gigantesche, è interessante lavorare con le prefabbricazioni spinte. Il frantoio di Muraglia, cinquemila metri quadrati, ha una struttura prefabbricata.
Sul fronte pubblico cosa state facendo?
L’ultimo progetto che abbiamo vinto, a dicembre dell’anno scorso, è quello per la rifunzionalizzazione, il restauro e la riqualificazione degli spazi interni del Palazzo dei Congressi di Libera. Progetto bellissimo perché possiamo andare a vedere Libera negli spazi che nessuno può vedere, le strutture, Il disegno delle travi di fondazione. È un progetto pazzesco: abbiamo scoperto, per esempio, che alcune soluzioni per superare i limiti di natura distributiva, che oggi si vogliono superare, Libera le aveva già individuate e non sono state più realizzate perché non servivano. Quindi noi ora abbiamo ripristinato alcune separazioni, partizioni, aperture che aveva già pensato lui. È un lavoro filologico, il più bello che stiamo facendo nel pubblico.
Altri progetti romani?
Ora riprendiamo anche la progettazione definitiva del centro servizi al Colosseo. È uno dei 3-4 progetti in corso sul Colosseo. L’idea è di fare un punto unico, completamente ipogeo, 400-500 metri quadrati di spazio, dove puoi fare i biglietti, chiedere informazioni, avere una zona di confort per una pausa, se sei un turista stressato dalla massa. Quando avevamo iniziato a scavare, dopo aver vinto il concorso, abbiamo trovato cose che hanno comportato scavi archeologici completati un mese fa. Il progetto definitivo sarà pronto ad aprile o maggio, leggermente ridimensionato in grandezza, ma sarà interessante inglobare quel che abbiamo ritrovato all’interno del percorso. Per giugno massimo dovremo anche completare il cantiere della riqualificazione alla Basilica di Massenzio. È un progetto più ampio, noi abbiamo curato la parte dei nuovi accessi, con la realizzazione di una pedana trasformabile sotto una delle tre arcate, in modo da farlo diventare uno spazio per mostre, speech, ma anche musica. Riprendiamo lo spazio per spettacoli che fu lanciato da Nicolini.
Parliamo di rigenerazione urbana, è prioritario per questo giornale capire quali sono le tendenze in atto e cosa bisognerebbe fare. Che state facendo su questo filone? Che pensiero avete?
Siamo preoccupati per una certa idea o forse un mito che si va diffondendo, soprattutto in ambito politico, che tutta la rigenerazione debba essere fatta con la demolizione e ricostruzione, in nome del bello. Ma come ci assicuriamo che la periferia che verrà avrà più bello di quella che c’è? E se decidiamo di demolire l’edilizia pubblica a Centocelle, dove le mettiamo temporaneamente 150mila persone che vivono lì? Continuo a pensare che rigenerazione sia soprattutto intervento sull’esistente.
Parliamo dei vostri progetti.
È un tema su cui abbiamo lavorato molto. Uno dei progetti più interessanti, attualmente in cantiere, è il concorso che abbiamo vinto per la riqualificazione a Casoria di un edificio di edilizia residenziale pubblica molto grande, fatto subito dopo il terremoto dell’Irpinia per alloggiare i terremotati. Dopo 40 anni, quasi 50, è un edificio da riqualificare completamente, anzitutto per motivi energetici e sismici. Con Milan Ingegneria e Greencure Landscape di Milano, studio che si occupa di paesaggio legato alla riqualificazione di aree verdi dismesse, abbiamo presentato un progetto di rigenerazione in cui la parte strutturale diventa anche elemento descrittivo-architettonico. Realizzeremo nuove strutture esterne, sia sul fronte interno che su quello esterno, e queste incrementeranno la superficie a disposizione degli inquilini, dando al tempo stesso un’immagine unitaria e coerente agli edifici.

Al tempo stesso, la corte fra i due edifici, prima utilizzata come parcheggio, sarà il nuovo centro nevralgico del sistema, con una piazza libera, aree di gioco per bambini e ragazzi, e zone di prato alberate.

All’esterno, il verde circonderà gli edifici, avremo 24 orti urbani, filari alberati, un giardino sociale. Questo progetto, insieme a quelli di altri studi, dice come l’architettura sia impegnata su questo fronte della rigenerazione urbana e che questa è la strada giusta, è l’attività che il pubblico dovrebbe alimentare moltissimo. La rigenerazione degli edifici pubblici residenziale è il tema più interessante dei prossimi anni e va svolto senza mandare via le persone. Un punto che ho assimilato anche grazie a Renzo Piano.
È l’unico progetto del genere?
La stessa cosa l’abbiamo fatta con la scuola sperimentale a Sora che abbiamo progettato con il gruppo G124. I soldi sono stati stanziati, dovrebbe partire l’appalto. È una scuola di 3.500 metri quadri in un quartiere periferico di Sora, un presidio urbano che nasce al posto dell’ex mattatoio e riqualifica anche un pezzettino di residenze pubbliche.

La rigenerazione non è solo intervento sui singoli edifici o blocchi di edifici.
È vero e infatti un altro tema che stiamo sviluppando è la rigenerazione di intere aree. Lo stiamo facendo, per esempio, a Tor Pagnotta, a Roma, con Lorenzo Busnengo e un gruppo di imprenditori, Navarra, Cerasi, Marronaro. In questo caso l’idea è di rigenerare un’area molto grande attraverso un parco a verde o la riqualificazione di aree archeologiche. Contemporaneamente devi anche rivitalizzare l’area attraverso residenze e attività commerciali. Devi far vivere queste zone.
Il passaggio tra la riqualificazione di un tempo e la rigenerazione di oggi sta proprio nel riconoscere l’importanza del contenuto che si mette in questi contenitori, l’attività sociale e culturale, anzitutto.
Da questo punto di vista è cambiato l’approccio, oggi l’imprenditore ha necessità di fare rigenerazione insieme all’ente pubblico per due ragioni. La prima è che riduce i tempi di realizzazione che sono decisivi per un’operazione di rigenerazione urbana. La seconda è che con il pubblico si attivano più facilmente processi di rigenerazione sociale e culturale, oggi fondamentali anche per l’imprenditore privato che comunque vuole investire, vendere e guadagnare. Se vince la partita sociale, vende anche meglio. A Roma comunque c’è un gran fermento, penso anche a progetti enormi come quello dell’ex Fiera, vinto dalla Citterio, dove faranno 40mila metri quadrati di residenze, un social housing grande, spazi legati al pubblico, un parco, edifici pubblici di quartiere, un asilo nido. Questa è rigenerazione urbana. Un tema che credo dovrebbe essere affrontato meglio, però, soprattutto per operazioni così ampie, è che questi progetti dovrebbero essere il più possibile aperti a più figure, perché altrimenti si rischia un certo appiattimento, quanto a idee, immagine, forza del progetto.
Quando dite più figure, cosa intendete?
Più progettisti, ma non soltanto architetti: paesaggisti, chi si occupa di spazio pubblico e soprattutto figure capaci di fare fin dalla fase della progettazione l’integrazione del terzo settore e delle associazioni che lavorano sul territorio. È fondamentale oggi che queste associazioni vengano coinvolte subito, proprio per evitare che poi ci siano contrasti sociali.
C’è molta ricerca di soluzioni innovative su questo punto.
Vero. E ripeto, è fondamentale l’interdisciplinarietà. Noi stessi avevamo affrontato il tema con il gruppo di LabGov di Christian Iaione della Luiss, che affronta questioni diverse, legate al lavoro, ma aveva sottolineato proprio la necessità della collaborazione sociale attraverso le tre eliche, pubblico, privato e terzo settore, per accrescere la possibilità di realizzazione dei progetti.
Però sembra che in questo momento in campo pubblico ci siano meno difficoltà di un tempo, molte cose vanno avanti.
È vero. Forse adesso vanno avanti perché i soldi ci sono. Il Pnrr aiuta. È incredibile che noi, ad esempio, siamo riusciti ad avere altri due finanziamenti per il Cinema Massimo all’Aquila, recuperando anche l’aumento dei costi. Anche Casoria è un Pinqua finanziato dal Pnrr.
Paolo Desideri in un’intervista a questo giornale ha denunciato una stortura che sta avvenendo con il Pnrr dove molte amministrazioni fanno in casa un progetto di fattibilità tecnico-economica (PFTE) di pessima qualità e poi l’affidano in appalto integrato all’impresa che chiama un progettista per raddrizzare e completare quello che c’è nel PFTE. Qual è la vostra esperienza?
Noi vogliamo denunciare un’altra grandissima stortura: un architetto fa un buon PFTE, sulla base magari di un concorso, ma poi comunque scatta l’appalto integrato. È ormai codificato che l’architetto si fermi al progetto definitivo per poi dare in mano all’impresa l’esecutivo. E può capitare l’impresa che vuole fare l’impresa e fa l’esecutivo attuando quello che tu architetto hai progettato oppure ti può capitare l’architetto che, per conto dell’impresa, vuole cambiare o stravolgere il progetto.
Il dominio dell’appalto integrato visto da un’altra angolazione. Il rovescio della medaglia rispetto alla denuncia di Desideri.
Pensiamo sia un errore, il progettista dovrebbe poter portare avanti il suo progetto fino alla fine, non c’è altra strada virtuosa. È vero che l’attuale sistema ha garantito un’accelerazione straordinaria di questi progetti, ma per chi fa solo architettura, come noi, e non è una holding, non avere l’esecutivo significa fronteggiare sempre il rischio che ti cambino il progetto, come, del resto, ci è capitato. Allora per evitare queste storture e mantenere la qualità del nostro progetto, noi cosa facciamo? Facciamo l’esecutivo dentro il progetto definitivo, cioè portiamo il nostro progetto definitivo ai dettagli dell’esecutivo, in modo da non consentire a chi verrà dopo di stravolgerlo. Però è evidente a tutti che non è giusto.
Per altro con il nuovo codice degli appalti scompare il definitivo.
Sì, sta scomparendo. Quindi è vero che sta permettendo un’accelerazione dei processi di progettazione e degli incarichi, perché si danno parecchi incarichi. Ma questa è una buona cosa solo se favorisce un rinnovamento, se dà la possibilità agli studi giovani di venire alla ribalta. Fu così per i bandi per le scuole innovativi che contribuimmo a scrivere per il ministro Bianchi. Hanno vinto molti giovani che per altro hanno avuto poi molte difficoltà. Ma onestamente tutti abbiamo avuto difficoltà sui progetti pubblici.
Voi avete molto sviluppato il tema di ricerca dell’abitare che avete presentato per il Padiglione italiano alla Biennale.
Per la Biennale avevamo proposto dieci progetti, piccoli prototipi realizzati in scala 1:1 all’interno delle due Tese perché volevamo che i visitatori sperimentassero lo spazio architettonico, la qualità dello spazio, un’esperienza sostitutiva del catalogo. Volevamo realizzare una specie di ambito urbano dove si passasse dall’edificio del carcere a quello per i bambini e le mamme, lo spazio per le disabilità, alla scuola innovativa, alla città dei raiders. Nel collettivo c’erano Marco Biraghi e Pisano Posocco che hanno fatto un grande lavoro per ricostruire l’idea dell’abitare dal dopoguerra ad oggi. Abbiamo fatto una selezione di architetture su dieci temi scelti, come il social housing o l’abitare per anziani o anche temi specifici come le case popolari, le carceri, le scuole, gli ospedali, gli spazi emergenziali e straordinari. Per ogni tema abbiamo portato un pezzo di architettura, progetti che li potessero esprimere al meglio. A completare la mostra abbiamo realizzato un catalogo in grado di dimostrare come la ricerca italiana fin dal 1945 a oggi sia una delle più innovative in ambito internazionale sul tema dell’Abitare.
Ma è oggi che il tema dell’abitare esplode.
Oggi il tema dell’abitare è veramente un tema centrale, basti pensare alle tante forme dell’abitare, gli studentati sono abitare, le carceri, gli ospedali, le scuole. Oltre all’aspetto storico, avevamo con noi il neuroscienziato Vittorio Gallese perché è interessantissimo oggi applicare la neuroscienza alla realizzazione di alcuni spazi, all’architettura, soprattutto dove ci sono situazioni complesse, bambini disabili oppure spazi scolastici. L’idea era di rilevare e poi trascrivere, attraverso procedure scientifiche, le esperienze neurologiche collegate agli spazi definiti dai modelli 1:1. È una ricerca che si avvicina al tema di Carlo Ratti di tracciare le attività umane in un modo scientifico.
Qual è il nocciolo del vostro progetto, alla fine?
Ci interessa la dimensione domestica, siamo partiti proprio da questa idea. Vogliamo comprendere non l’edificio architettonico, vogliamo capire la dimensione dell’abitare, cioè come vivo uno spazio. Come sono cambiate le esigenze delle persone e gli standard, come li posso trasformare.